La Corte di Giustizia ritorna sulla questione della compatibilità eurounitaria della disciplina italiana sui Giudici di Pace (in attesa di nuovi sviluppi)

Con la sentenza del 7 aprile 2022, P.G. contro Ministero della Giustizia ed altri (C-236/20, EU:C:2022:263), la Corte di Giustizia (Prima Sezione) torna a pronunciarsi – dopo meno di due anni – sulla compatibilità con il diritto dell’Unione della disciplina italiana del 1991 sullo status ed il trattamento lavorativo, assistenziale e previdenziale dei Giudici di Pace. Per la seconda volta in un ristretto arco temporale, la Corte interviene in quella che ormai è diventata una vera e propria “querelle” tra i Giudici di Pace (in particolare quelli dalla nomina più risalente nel tempo) e lo Stato italiano. Una controversia che, come altre in cui è coinvolto il nostro Paese, pone in discussione scelte consolidate del legislatore alla luce del parametro rappresentato dal diritto U.E., più che dei (anzi, come si vedrà, contro i) principi costituzionali interni; e che molto probabilmente è destinata ad avere sviluppi ulteriori nel prossimo futuro.
Ma procediamo con ordine.
Il precedente diretto della sentenza in commento è rappresentato dalla decisione (della Seconda Sezione della stessa C.G.U.E.) resa il 16 luglio 2020, U.X. contro Governo della Repubblica italiana (C‑658/18, EU:C:2020:572). Con questa pronuncia la Corte di Giustizia si era espressa su alcune questioni pregiudiziali sollevate dal Giudice di Pace di Bologna, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., all’interno di un procedimento per decreto ingiuntivo attivato da un altro Giudice di Pace per ottenere dallo Stato il pagamento di una somma corrispondente all’indennità per il periodo feriale goduta dai magistrati ordinari. Le questioni avevano ad oggetto l’interpretazione degli artt. 31 paragrafo 2 e 47 della Carta dei Diritti fondamentali U.E. e di alcune disposizioni di diritto derivato, in riferimento all’attività «lavorativa» svolta, in Italia, dai giudici onorari.
In questa prima sentenza, la Corte di Giustizia aveva affermato la riconducibilità del Giudice di Pace italiano – in linea di principio – alla «nozione di lavoratore a tempo determinato» propria del diritto U.E., se ed in quanto tale organo giurisdizionale, «nell’ambito delle sue funzioni, svolge[sse] prestazioni reali ed effettive, … non … puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo» (punti 95-113 e 120-134 della sentenza 16 luglio 2020). La Corte aveva quindi dichiarato il diritto dei Giudici di Pace di godere del periodo di «ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari», salvo che si dimostrasse che la differenza di trattamento tra le due figure fosse «giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità» (punti 156-163 della sentenza cit.). Si trattava perciò di una decisione dagli effetti potenzialmente rilevanti, in quanto “adombrava” l’illegittimità eurounitaria dell’intera disciplina sui Giudici di Pace, fondata – com’è noto – sulla netta distinzione di status e di trattamento rispetto ai magistrati “professionali”. Tuttavia la C.G.U.E. aveva rinviato ampiamente ai giudici nazionali italiani l’accertamento effettivo delle condizioni a cui (la dichiarazione di) tale illegittimità era, di fatto, subordinata.
La pronuncia dello scorso 7 aprile, sopra richiamata, sembra compiere un deciso passo in avanti.
In questo caso, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia è sorto all’interno di un giudizio amministrativo promosso davanti al T.A.R. Emilia-Romagna, da un soggetto che ha svolto le funzioni di Giudice di Pace in modo continuativo dal 2002 al 2016, per far dichiarare «il suo diritto allo status giuridico di dipendente pubblico, a tempo pieno o a tempo parziale, appartenente alla magistratura»; con la conseguente necessità di «reintegrazione» in organico ed il riconoscimento dello stesso trattamento economico, assistenziale e previdenziale dei magistrati ordinari. Il ricorso muove dall’assunto secondo cui «i giudici di pace e i magistrati ordinari esercitano funzioni identiche» (v., per quanto precede, il punto 12 della sentenza C.G.U.E.). Il T.A.R., condividendo sostanzialmente l’impostazione del ricorrente, ha sollevato tre questioni pregiudiziali riguardanti, da un lato, l’esclusione del Giudice di Pace dal trattamento assistenziale e previdenziale garantito in Italia ai dipendenti pubblici (prima e seconda questione); dall’altro lato, la previsione contenuta nella legge n. 374/1991, per la quale l’incarico di Giudice di Pace può essere prorogato «sistematicamente» ogni quattro anni senza possibilità di trasformarlo in contratto a tempo indeterminato (e ciò in relazione alla clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE: terza questione).
Nella sentenza in esame la C.G.U.E. – dopo aver dichiarato irricevibile la seconda questione pregiudiziale ed aver circoscritto la portata della prima – risponde alla prima questione dichiarando che il diritto dell’Unione (e, segnatamente, l’art. 7 della direttiva 2003/88, la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato) «[osta] a una normativa nazionale che non prevede, per il giudice di pace, alcun diritto a beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni né di un regime assistenziale e previdenziale che dipende dal rapporto di lavoro, come quello previsto per i magistrati ordinari, se tale giudice di pace rientra nella nozione di «lavoratore a tempo parziale» … e/o di «lavoratore a tempo determinato» … e si trova in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario». Nella motivazione, la Corte peraltro sembra confermare l’esistenza di queste condizioni: essa richiama infatti la propria sentenza del 16 luglio 2020, e osserva che il T.A.R. Emilia-Romagna, nell’applicarla compiendo «le verifiche che rientrano nella sua competenza esclusiva», ha «rilevato … che la differenza tra le modalità di accesso alla magistratura» dei giudici “professionali” ed onorari «non può giustificare l’esclusione» dei secondi dal diritto di godere delle ferie e degli altri benefici tipici del rapporto di lavoro dei primi. Perciò – conclude la C.G.U.E. – tale esclusione deve ritenersi «inammissibile» in base al diritto eurounitario (punti 47-54 della sentenza).
Con riferimento, poi, alla terza questione pregiudiziale sottopostale dal T.A.R., la Corte di Giustizia – allo stesso modo – afferma che il diritto dell’Unione (e, segnatamente, la clausola 5 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato) «[osta] a una normativa nazionale in forza della quale un rapporto di lavoro a tempo determinato [come quello del Giudice di Pace italiano: n.d.A.] può essere oggetto … di tre rinnovi successivi, ciascuno di quattro anni, per una durata totale non superiore a sedici anni, e che non prevede la possibilità di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di [tali: n.d.A.] rapporti di lavoro». In motivazione, essa censura apertamente la normativa italiana del 1991, osservando che «dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio» emerge che tale disciplina è del tutto priva di disposizioni idonee a «prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di … rapporti di lavoro a tempo determinato» dei giudici onorari (punti 64-66 della sentenza cit.).
Come si vede, la sentenza del 7 aprile 2022 “esplicita” quel contrasto della disciplina italiana con il diritto dell’Unione che la pronuncia del luglio 2020 aveva solo “adombrato”. E – pare opportuno evidenziarlo – lo fa alla luce (e “forte”) del dialogo con i giudici nazionali italiani, che hanno interpellato la Corte di Giustizia per la seconda volta pur dopo aver applicato i principi della prima decisione. Da questo punto di vista, è significativo che il T.A.R. Emilia-Romagna, nonostante fosse stato sollecitato espressamente dalla Corte a valutare la rinuncia alla domanda pregiudiziale alla luce della sentenza del 16 luglio 2020 (sopravvenuta all’ordinanza di rinvio), abbia deciso di confermarla, motivando con il rilievo per cui tale pronuncia lasciava al giudice nazionale un «margine di apprezzamento eccessivamente ampio» (v. punti 16-17 della sentenza del 7 aprile 2022). Ciò, probabilmente, ha permesso alla stessa Corte di essere questa volta più “perentoria” nelle sue affermazioni e quindi, in prospettiva, più incisiva.
In effetti, come si è detto sopra, la decisione della C.G.U.E. in commento si colloca nel quadro di una controversia ormai “istituzionale” tra i Giudici di Pace e lo Stato italiano, che sembra destinata ad avere sviluppi ulteriori. La “querelle” è sorta dalla contestazione davanti agli organi giurisdizionali interni (soprattutto da parte dei magistrati onorari con una permanenza più elevata nell’incarico) delle norme della legge istitutiva del Giudice di Pace, n. 374/1991, sia sulla base dei principi costituzionali che – sempre più – delle disposizioni del diritto eurounitario in materia di lavoro. Circa questa controversia, la sentenza della Corte di Giustizia di quest’anno senza dubbio segna “un punto a favore” dei Giudici di Pace: affermando sostanzialmente la non conformità della disciplina interna al diritto dell’Unione, essa probabilmente porterà i giudici italiani a disapplicarla (o al limite, a sollevare questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 117 primo comma Cost.) per assicurare la prevalenza del secondo.
Peraltro, vale la pena sottolineare che la giurisprudenza interna (salvo i giudici che hanno rimesso alla Corte di Giustizia le questioni pregiudiziali sopra ricordate) finora ha sempre respinto le istanze dei Giudici di Pace, argomentando la legittimità della differenza di trattamento rispetto ai magistrati “professionali” operata dalla legge del 1991 sulla base del dato costituzionale, in particolare dell’art. 106. In questo senso si è espressa ancora – da ultimo – la Cassazione, nell’ordinanza del 3 maggio 2022, n. 13973, della Sezione lavoro: dopo un’approfondita analisi della disciplina interna e richiamando, in particolare, le pronunce nn. 479/2000, 60/2006, 174/2012 e 41/2021 della Corte Costituzionale, essa ha concluso che «le figure del giudice togato e del giudice onorario sono ontologicamente e funzionalmente molto diverse», per via delle diverse modalità di «accesso alla funzione giurisdizionale, ma anche quanto alla natura e all'esercizio delle funzioni svolte»; pertanto, le differenze di trattamento giuridico ed economico esistenti sono giustificate (punti 6.5 e 6.7 della motivazione).
In ogni caso, poiché anche la Commissione europea, nel 2016, ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia in relazione alle norme della legge n. 374/1991 (le cui motivazioni di fatto hanno anticipato quelle delle Corte di Giustizia sopra esaminate), il legislatore ha riformato tale disciplina con il d.lgs. n. 116/2017. Questo nuovo testo normativo ha risolto – almeno in parte – le questioni su cui le sentenze della C.G.U.E. (riferite alla normativa precedente) hanno concentrato i loro rilievi, introducendo a favore dei Giudici di Pace un’indennità per il periodo feriale ed il versamento dei contributi nella gestione separata I.N.P.S., oltre che limiti alla rinnovabilità dell’incarico (rispettivamente, artt. 24, 25 e 14 del d.lgs.); ma ciò solo con efficacia pro futuro, per i magistrati onorari nominati a partire dal 16 agosto 2017. Per questo motivo a luglio 2021 la Commissione U.E. ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora, invitandola a sanare la situazione (appunto di illegittimità eurounitaria) dei magistrati che hanno svolto le funzioni onorarie prima del 2017.
Il Governo Draghi, con un emendamento alla legge di bilancio di fine 2021 (legge n. 234/2021, art. 1 commi 629-633), ha allora modificato l’art. 29 del d.lgs. n. 116/2017 prevedendo un’apposita procedura di «conferma a tempo indeterminato» (fino al compimento dei settant’anni di età) dei Giudici di Pace in servizio alla data di entrata in vigore della riforma di cui sopra. I magistrati che verranno confermati si vedranno attribuito un trattamento economico comprensivo di copertura previdenziale ed assistenziale e commisurato a quello di un funzionario amministrativo giudiziario; tuttavia essi dovranno «rinuncia[re] ad ogni ulteriore pretesa … conseguente al rapporto onorario pregresso», e lo stesso dovranno fare i loro colleghi che decideranno di non partecipare alla procedura o che, all’esito della stessa, non dovessero venire confermati (art. 29 cit., commi 2 e 5-7, che si limitano a riconoscere ai magistrati cessati dall’incarico un’indennità “forfettaria” per il periodo pregresso). Anche quest’ultimo intervento legislativo è stato contestato in sede giurisdizionale, sia pure mediante un “eccentrico” ricorso per conflitto di attribuzione (con invito alla Corte a sollevare davanti a se stessa diverse questioni di costituzionalità) proposto da un Giudice di Pace, che la Corte Costituzionale ha avuto buon gioco a dichiarare inammissibile con l’ordinanza n. 157/2022. E’ però altamente probabile che saranno proposti altri ricorsi, su cui i giudici comuni – e magari la stessa Corte Costituzionale in sede di giudizio incidentale e la Corte di Giustizia – verranno chiamati ad esprimersi.
Ad ogni modo – ed in conclusione –, pare di poter affermare che la vicenda sottesa alla pronuncia della C.G.U.E. dello scorso 7 aprile ed oggetto di queste notazioni faccia emergere, ancora una volta, un contrasto tra le posizioni degli organi giurisdizionali (oltre che politici) nazionali ed europei, nel contesto di un sistema multilivello. Si tratta di contrasti e tensioni che –nella fisiologia delle relazioni interordinamentali – possono essere “gestiti”, ma che ripropongono il problema di fondo di a chi spetti l’“ultima parola” nella garanzia dei diritti costituzionali.