Ci son nove Giudici a Roma
Ordinanza n. 17687/2024 Sezioni Unite Civili sul “caso Diciotti”

Nell’agosto del 2018, pochi mesi dopo il caso Aquarius, la vicenda della nave Diciotti aveva scosso il mondo politico e la società civile, ponendo come lascito, a dottrina e giurisprudenza, molto su cui riflettere e intere categorie da tratteggiare ex novo.
L’ordinanza delle Sezioni Unite Civili n. 17687/2024 depositata il 6 marzo 2025 ha riaperto una breccia sulla pietra tombale che nel marzo 2019, il Senato aveva posto sulla questione, allorché aveva negato al Tribunale dei Ministri l’autorizzazione a procedere nei confronti del Senatore Matteo Salvini.
L’allora Ministro dell’Interno era, infatti, indagato per il reato di cui all’art. 605, commi 1 e 2 n. 2 nonché comma 3 c.p. (sequestro di persona, aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, dall’abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate e dall’avere commesso il fatto anche in danno di soggetti minori di età) per aver arbitrariamente trattenuto 177 migranti a bordo della nave Diciotti, per oltre 8 giorni (dal 16 al 25 agosto 2018).
Malgrado l’originaria richiesta di archiviazione formulata dalla Procura di Catania – secondo cui il Ministro aveva agito nel perseguimento di un preminente interesse nazionale a che la gestione dei flussi migratori fosse ricondotta a sostenibilità mediante la rinegoziazione, in sede europea, degli accordi di ripartizione nell’accoglienza dei migranti tra Stati – il Tribunale dei Ministri aveva formulato un giudizio di non infondatezza della notitia criminis, inoltrando alla Camera di appartenenza la richiesta di autorizzazione a procedere, come detto, poi negata.
Nel nostro ordinamento, la concessione o negazione dell’autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri da parte della Camera di appartenenza è ancorata a tre principali canoni ermeneutici: la nozione di “atto politico”; la tipologia e gravità del reato commesso e la conseguente qualificabilità dello stesso in termini ministeriali; i limiti all’insindacabilità della decisione parlamentare in ipotesi di manifesta arbitrarietà e irragionevolezza dell’iter logico-giuridico seguito.
Nel caso di specie, il Senato ha ritenuto che l’agire dell’allora Ministro fosse espressione dell’esercizio «di un potere politico o quanto meno di alta amministrazione a lui attribuito dall’ordinamento e finalizzato al perseguimento di un interesse pubblico nazionale, come tale insindacabile da parte del giudice penale per il principio della separazione dei poteri» come suggerito dalla Relazione del Procuratore di Catania da cui è stato tratto il virgolettato.
Sebbene in altra veste e ben 7 anni dopo, le Sezioni Unite sono tornate a occuparsi dei fatti di quell’agosto rovente, allorché un cittadino eritreo che si trovava a bordo della nave “Ubaldo Diciotti” CP 941, ha adito il giudice ordinario per chiedere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti in occasione dell’illegittima restrizione della sua libertà personale avvenuta dal 16 al 25 agosto 2018: nei primi 4 giorni in acque internazionali in attesa dell’indicazione di un porto italiano, nei restanti 6 per la mancata autorizzazione a far scendere tutti i passeggeri della nave ormeggiata al porto di Catania.
Il Tribunale di Roma adito aveva rigettato il ricorso rilevando il proprio difetto assoluto di giurisdizione, dacché si era trattato di condotte poste in essere nell’esercizio di un potere politico puro e, come tale, insindacabile dal giudice ordinario. La Corte d’Appello di Roma, cui era stato proposto il gravame, aveva invece ritenuto sussistere la propria giurisdizione, riqualificando le condotte in termini di atti amministrativi, non già politici o di alta amministrazione. Tuttavia aveva comunque rigettato le domande risarcitorie sulla scorta dell’impossibilità di ravvisare nell’agere del Ministero dell’Interno una colpa suscettibile di assurgere a elemento costitutivo della responsabilità aquiliana oltre a una carente allegazione probatoria in ordine al danno-conseguenza patito dal ricorrente.
Il pregio dell’ordinanza in commento è quello di aver fornito una ricostruzione organica, aggiornata e puntuale del an, quomodo e quando dell’attività di search and rescue e del corrispondente statuto istituzionale e “burocratico” a essa correlato.
Nel decidere preliminarmente sulla sussistenza della giurisdizione ordinaria, le Sezioni Unite hanno diffusamente affrontato il dibattuto e sofferto tema della nozione di “atto politico” affermando degli importanti principi di diritto cui dovranno attenersi gli ermeneuti che seguiranno.
Nell’escludere i tratti dell’atto politico “puro” nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria, i Giudici di Piazza Cavour hanno richiamato le Sezioni Unite n. 27177 del 22 settembre 2023 sulla nozione di “atto politico”.
Perché ricorra tale definizione sono necessari due requisiti: l’uno soggettivo, in ossequio del quale «l'atto deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello»; l’altro oggettivo, secondo cui « l'atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione».
L’ordinanza rimarca l’importanza di distinguere l’atto amministrativo che sia stato emanato sulla base di valutazioni di ordine politico – i penalisti, come chi scrive, direbbero “i motivi” - dall’atto che sia estrinsecazione fenomenica di un potere politico: «le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo».
Inoltre, ad avviso delle Sezioni Unite è più probabile che si sia in presenza di atti politici insindacabili laddove sussistono interessi di mero fatto, in quanto gli atti politici non toccano situazioni giuridiche soggettive concrete.
Dopo anni di incertezza viene enunciato un criterio chiaro e lineare che consente di tracciare il limite oltre il quale le condotte possono e devono essere giudicate in sede ordinaria, dal giudice civile e penale. Esso è rappresentato dal principio di legalità: se esistono delle norme che disciplinano il modo e i limiti entro cui il potere deve essere esercitato, per quella parte l’atto sarà suscettibile di essere giudicato e di generare una responsabilità.
Affermata la sussistenza della giurisdizione incardinata, nel censurare il decisum della Corte d’Appello, i Giudici di legittimità hanno poi chiarito che la Corte capitolina ha operato sulla scorta di un errore prospettico, ragionando, cioè, sulla sindacabilità dell’atto sbagliato: a essere fonte di responsabilità risarcitoria non è stata la mancata indicazione del POS (place of safety) da parte del Ministero dell’Interno, quanto l’aver trattenuto per giorni dei cittadini stranieri a bordo della Diciotti senza che vi fosse alcun provvedimento motivato delle Autorità italiane.
L’ordinanza richiama, dunque, l’art. 13 della Costituzione in relazione all’art. 5 Cedu e ai parametri interposti dell’art. 10, 11 e 117 Cost.
Nell’ordinamento italiano, perché la limitazione della libertà personale sia legittima, deve essere soddisfatto il vincolo della doppia riserva e dunque avvenire nei soli e tassativi casi previsti dalla legge in virtù di un atto motivato dell’Autorità giudiziaria. Nel caso di specie, tale requisito non è stato soddisfatto.
La Suprema Corte sul punto ha escluso categoricamente che nel caso della Diciotti potesse altresì versarsi in una delle ipotesi di cui all’art. 5 par. 1 lett. f) Cedu, che consente - in via di eccezione - la privazione della libertà personale nel caso in cui l’arresto o la detenzione regolare di una persona sia disposta per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, ovvero se è in corso un procedimento di espulsione o estradizione.
Come chiarito dalle Sezioni Unite, infatti, è «escluso che il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati (e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost.) possa essere inquadrato» nei termini di cui all’art. 5 par. 1 Cedu.
Chiarito anche questo aspetto, l’ordinanza affronta anche gli ulteriori due aspetti erroneamente fondanti il rigetto del gravame ad opera della Corte di Appello di Roma: «l’assenza di regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo» – valida a escludere la colpa ex art. 2043 c.c. – e lo standard probatorio richiesto ai fini della risarcibilità del danno-conseguenza derivante dalla violazione di diritti fondamentali.
La Cassazione afferma inequivocabilmente che non sussiste alcuna incertezza in ordine allo statuto del soccorso in mare. Esso, infatti, costituisce «antica regola di carattere consuetudinario» posta a fondamento di tutte le convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito.
Nell’esaustiva e chiara disamina offerta dall’ordinanza, si richiamano la Convenzione SOLAS - Safety of life at sea del 1974, la Convenzione SAR - International convention on maritime search and rescue del 1979, la Convenzione di Montego Bay del 1982, le linee-guida IMO e la Risoluzione MSC.167(78) del 2004.
Tutti questi strumenti delineano un quadro univoco: se lo Stato gravato dall’obbligo di soccorso non interviene, è previsto «un dovere di attivazione sussidiario in capo agli Stati […] per supplire alle necessità dei naufraghi e per portarli in salvo».
L’indicazione e conduzione dei naufraghi nel POS è l’ultima e imprescindibile fase del soccorso e non può ritenersi integrata se i migranti vengono trattenuti a bordo del natante, poiché esso è fuori dalla definizione di place of safety.
Quest’ultima, fornita in parafrasi dalle Sezioni Unite si rinviene compiutamente all’art. 2 par. 1 n. 12 del c.d. Regolamento Frontex n. 656/14, esso è il «luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento».
In poche parole, la Cassazione ha escluso che in questo caso il Governo italiano sia incorso in un errore scusabile sulla normativa applicabile, con conseguente riconoscimento della sua colpa nella causazione del danno giudicato risarcibile.
Sul punto, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, i Giudici di legittimità hanno rilevato che nel caso di specie il ricorrente aveva sufficientemente ottemperato all’onere di provare il danno morale sofferto a causa della condotta delle Autorità italiane. Secondo l’ordinanza «i pregiudizi derivanti secondo nesso di causalità giuridica […] da allegare e provare da parte del danneggiato» ben possono essere provati «anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti». In presenza di situazioni la cui gravità è di immediata percezione, a soccorrere il Giudice è finanche la categoria del fatto notorio, con conseguente corrispondente ridimensionamento dell’onere di allegazione del danno-conseguenza gravante sul ricorrente.
In definitiva, ad avviso della Corte, alla «ampiezza contenutistica dei diritti della persona investiti dalla lesione ingiusta - non corrisponde, pertanto, un onere probatorio parimenti ampio».
Questa pronuncia ha finalmente posto fine a una stagione di incertezze applicative sulla nozione di “atto politico”. Pur con modalità differenti nell’attribuzione del nesso causale e dei criteri di imputazione soggettiva della responsabilità, data la portata generale dei chiarimenti forniti dalle Sezioni Unite, l’ordinanza si presta a essere applicata anche in sede penale. Ciò che, a distanza di anni, andava indubbiamente esplicitato è che a una lesione dei diritti fondamentali della persona consegue sempre una responsabilità dell’autore, a meno che questo dimostri che il danno è avvenuto malgrado l’adozione di tutte le misure idonee a impedirlo e nel pieno rispetto delle modalità prescritte dalla legge per l’esercizio del pubblico potere.