Il confine mobile della natura del Rdc. Brevi note a partire dalla sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale

1. La sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale, qui in commento, non si limita ad aggiungere un nuovo capitolo all’articolata vicenda che, a partire dal 2022, ha interessato l’accesso al reddito di cittadinanza (d’ora in avanti Rdc) da parte dei cittadini stranieri, ma si inserisce nel più ampio dialogo tra le Corti europee e nazionali.
Ripercorrendo sinteticamente gli sviluppi di tale vicenda giurisprudenziale, la pronuncia della Consulta interviene soltanto su una delle questioni che sono state portate all’attenzione delle Corti con riferimento ai requisiti per accedere al Rdc, disciplinati all’art. 2 del d.l. n. 4/2019. Infatti, le tappe processuali sono state scandite dai due distinti rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia dell’Unione europea e dalla questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale sollevate, rispettivamente, dal Tribunale di Napoli, dal Tribunale di Bergamo e dalla Corte d’appello di Milano. Le decisioni dei giudici rimettenti hanno investito tre diverse categorie di stranieri, a dimostrazione di una «parità frammentata» che caratterizza l’accesso alle prestazioni assistenziali degli stranieri: a) i cittadini di Paesi terzi titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; b) i cittadini dell’Unione europea; c) i titolari di protezione internazionale.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 19 del 2022, si è anzitutto pronunciata sul requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, richiesto ai cittadini di paesi terzi per accedere al Rdc, ritenendolo non irragionevole con la prospettiva di medio e lungo termine della misura, che richiede un radicamento territoriale nel Paese di soggiorno. Tuttavia, la Corte, nel riconoscere al legislatore nazionale un ampio margine di discrezionalità nella definizione dei criteri di accesso, non considera quanto stabilito dalla direttiva 2003/109, che, all’art. 4, par. 1, ritiene sufficiente un soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni – e non di dieci, come invece previsto per il Rdc dall’art. 2, co. 1, del d.l. n. 4/2019 – nel territorio di uno Stato membro affinché il cittadino di un paese terzo possa ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo.

2. Il secondo tassello è stato definito dalla sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., che hanno riguardato due cittadine di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo in Italia. In tale occasione, la Corte ha chiarito che, in assenza di una definizione autonoma ed uniforme delle nozioni di prestazioni sociali, assistenza sociale e di protezione sociale nel diritto dell’UE, l’individuazione delle stesse è rimessa al diritto nazionale, pur nel rispetto dell’effetto utile della direttiva 2003/109. Tale direttiva sancisce, infatti, il principio di parità di trattamento per l’accesso alle prestazioni e all’assistenza sociale, come anche l’art. 34, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce il diritto all’assistenza sociale e abitativa volta ad assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano delle risorse sufficienti.
Una volta demandato il compito di interpretare la natura della misura al giudice di rinvio, che ha riconosciuto alla stessa carattere di prestazione assistenziale essenziale e, dunque, rientrante nell’alveo della direttiva europea, la Corte di giustizia ha evidenziato che l’art. 11 della direttiva vieta non soltanto le discriminazioni palesi, fondate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione indiretta che di fatto pervenga al medesimo risultato. A tal proposito, il requisito decennale di residenza, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo, «incide principalmente sui cittadini stranieri» e, in particolare, sui cittadini dei paesi terzi. Inoltre, sebbene l’art. 11, par. 2, della direttiva 2003/109 consenta agli Stati membri di derogare al principio di parità di trattamento nei confronti dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, tali ipotesi devono essere tassativamente indicate in essa.
La Corte non ha infatti ritenuto rilevante l’interpretazione fornita dallo Stato italiano, secondo cui il Rdc, dalla natura non meramente assistenziale, ma finalizzato ad un percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, richiederebbe un radicamento territoriale del richiedente. Difatti, il legislatore dell’Unione ha considerato che un periodo di soggiorno di cinque anni sia sufficiente a testimoniare il radicamento del richiedente nel paese in questione, e ad ottenere il diritto alla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, nel rispetto dell’art. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109.
Sembra opportuno evidenziare che la pronuncia del giudice europeo, accolta favorevolmente dai commentatori che hanno evidenziato come, per la prima volta, la Corte abbia applicato la nozione di discriminazione indiretta alle clausole di parità contenute in direttive non strettamente antidiscriminatorie, sollevi, tuttavia, alcune perplessità con riferimento alla rimessione al giudice di rinvio della definizione della natura della misura, che conduce inevitabilmente ad interpretazioni difformi della stessa.

3. In tale contesto si inserisce la sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale, in materia di accesso alla misura in esame dei cittadini dell’Unione europea, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, lett. a) del d.l. n. 4/2019, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del Rdc dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni». Muovendo dalle considerazioni espresse dalla Corte di giustizia in merito alla competenza del giudice di rinvio nell’interpretazione del diritto nazionale, la Consulta ha ritenuto che il giudice europeo non avrebbe sindacato l’esattezza dell’interpretazione della natura della misura, ma si sarebbe limitato ad aderire alla lettura del giudice di rinvio.
Sulla scorta di tale premessa, richiamando il proprio consolidato orientamento in materia (sentt. n. 1 del 2025; n. 54 del 2024; n. 34 e n. 19 del 2022; n. 137, n. 126 e n. 7 del 2021; ord. n. 29 del 2024), la Corte torna ad interpretare la natura del Rdc, sottolineando che la «componente di integrazione al reddito è strettamente condizionata al conseguimento di obiettivi di inserimento nel mondo del lavoro e comunque di inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario». Nella trama argomentativa della Corte, dunque, il sistema di obblighi e di condizionalità e la temporaneità che caratterizzano il Rdc contribuiscono a riconoscergli non soltanto la connotazione di misura di contrasto alla povertà, seppur non diretta al soddisfacimento di bisogni primari dell’individuo, ma la prevalente natura di misura rivolta ad obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale.
Alla luce di tali considerazioni sulla natura del Rdc, la Corte valuta la ragionevolezza del criterio adottato dal legislatore del 2019, anche in considerazione della «complessità delle attività richieste alle pubbliche amministrazioni per realizzare le politiche attive del lavoro e di inclusione sociale, ma anche l’entità delle risorse finanziarie destinate alla attuazione della misura», nonché della raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, che consentirebbe agli Stati membri di ricorrere al criterio della residenza protratta per l’accesso ad un adeguato reddito minimo al fine di salvaguardare la sostenibilità delle finanze pubbliche. Ne consegue il mancato accoglimento della questione posta dal giudice a quo volta all’annullamento del requisito di residenza pregressa, posto che, non trattandosi di una misura dalla natura assistenziale e non incidendo su diritti fondamentali, non può ritenersi irragionevole o discriminatoria la scelta di ancorare il beneficio al radicamento territoriale del cittadino di uno Stato membro dell’UE.
Tuttavia, la Corte evidenzia che il periodo di residenza decennale non soddisfa il criterio della ragionevole correlazione e proporzionalità rispetto agli obiettivi della misura, che, diversamente da altre prestazioni assistenziali, non guarda al concorso realizzato nel passato, ma alla prospettiva futura di integrazione sociale ed inserimento lavorativo del richiedente. Il requisito decennale di radicamento territoriale, dunque, secondo quanto rilevato dalla Corte nella pronuncia qui in commento, non risulta connesso con le funzionalità della misura e viola apertamente i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost. L’applicazione di tali principi impone al legislatore di non operare una discriminazione, anche indiretta, al solo fine di limitare l’accesso alla prestazione a tutti gli stranieri e di favorire, invece, i cittadini italiani che beneficerebbero più facilmente della misura.
La Corte decide di accogliere la questione sollevata in via secondaria dalla Corte di appello di Milano in considerazione di tre ordini di ragioni. In primo luogo, nella prospettiva di non incidere sulla discrezionalità del legislatore, la decisione risulterebbe in linea con la scelta di assumere il dato temporale quinquennale per l’assegno di inclusione, che dal 2024 ha sostituito il Rdc. Inoltre, il requisito dei cinque anni è anche quello che è stato giudicato non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., nella sentenza n. 19 del 2022 della stessa Consulta, in quanto sufficiente a dimostrare la relativa stabilità della presenza sul territorio. Soltanto da ultimo la Corte evidenzia che «non è poi di certo irrilevante» che tale dato temporale sia anche quello previsto dall’art. 16, par. 1, della direttiva 2004/38/CE e che è stato indicato anche dalla Corte di giustizia nella sentenza del 29 luglio 2024, in riferimento ai cittadini di Paesi terzi.

4. Permangono, ad avviso di chi scrive, profili di criticità nel concorso tra rimedi che, nel caso di specie, si risolve nell’assenza di una definizione uniforme della natura della misura sia da parte del diritto dell’UE sia da parte del diritto nazionale e, in ispecie, dall’interpretazione offerta dai singoli giudici nazionali. A tal proposito, la Corte costituzionale individua l’incidente di costituzionalità come rimedio più efficace al fine di assicurare piena effettività al diritto dell’Unione ogniqualvolta la questione assuma “tono costituzionale”, omettendo di riconoscere alla Corte di giustizia il ruolo di interprete esclusivo del diritto dell’Unione europea (Amalfitano, 2025, 4).
Testimone di tale «overlapping» tra i diversi sistemi di tutela e le decisioni delle alte Corti sarà, infine, l’ultima delle tre questioni, anch’essa concernente l’interpretazione del requisito decennale di soggiorno legale ed ininterrotto, questa volta riferito ai titolari di protezione internazionale, la cui risoluzione da parte della Corte di giustizia, alla luce dell’orientamento maturato nella pronuncia del 29 luglio 2024, avverrà presumibilmente in conformità con la lettura del giudice di rinvio, che ha proposto una qualificazione della misura in oggetto – interpretata come misura di assistenza sociale – ancora una volta diversa da quella adottata dalla Corte costituzionale.