Una pace armata: la sospensione delle ipotesi di riforma giudiziaria e le nuove richieste della maggioranza

Il 27 marzo scorso, dopo un braccio di ferro durato oltre dodici settimane consecutive tra il nuovo Governo israeliano e il variegato fronte dei manifestanti, il Primo ministro Netanyahu ha annunciato in diretta tv il rinvio della riforma giudiziaria, nell’intenzione - almeno formale - di trovare una convergenza con i partiti dell’opposizione e un maggiore consenso nel Paese prima della sua adozione.  La sera del 26 marzo, infatti, una serie di partecipatissime manifestazioni tenutesi in tutto il paese hanno portato in piazza circa 250 mila persone in tutte le principali città del Paese, anticipando il più grande sciopero generale che la storia israeliana ricordi negli ultimi quarant’anni, e bloccando completamente i trasporti, i servizi sanitari e scolastici pubblici e moltissimi esercizi commerciali. La crescente tensione, in uno scenario senza precedenti nella società israeliana, ha spinto il Primo Ministro Netanyahu, consultatosi con l’alleato di Governo Itamar Ben Gvir, a sospendere, rimandandola ai prossimi mesi, l’approvazione del controverso pacchetto di riforme giudiziarie, denunciato dagli oppositori come un “colpo di Stato”, e che darebbe alla Knesset israeliana (e quindi ai principali partiti della nuova coalizione di destra radicale) ampio margine di controllo sul potere giudiziario nazionale. Dopo il discorso di Netanyahu, che non ha comunque mancato di accusare i manifestanti delle forti tensioni, il 28 marzo il Presidente israeliano Isaac Herzog ha invitato a colloquio i rappresentanti della coalizione di governo e dei due principali partiti di opposizione per esplorare possibili soluzioni di compromesso.
Le proteste delle ultime settimane vanno inquadrate nell’ambito di una società civile generalmente caratterizzata da un potenziale di protesta molto basso, e considerata solitamente apatica e ampiamente restia alla politica di piazza. La tensione è esponenzialmente cresciuta negli ultimi giorni all’avvicinarsi del voto finale della Knesset su alcuni elementi chiave della legislazione. Il picco si è raggiunto la sera del 26 marzo quando Netanyahu ha licenziato il Ministro della Difesa Yoav Gallant per le sue dichiarazioni pubbliche sulle disastrose conseguenze che la riforma potrebbe avere sulla sicurezza di Israele - considerato che molti riservisti hanno già iniziato a disertare e a non presentarsi alle scadenze previste - e per aver esortato Netanyahu a fermarne l’approvazione. A testimonianza della generale fase di incertezza delle istituzioni in analisi, mentre si scrivono queste pagine, il licenziamento di Gallant non è stato ancora formalizzato dall’Esecutivo, e lo stesso Netanyahu ha deciso il 10 aprile di reintegrare il Ministro.
Le proteste spontanee che hanno travolto il Paese dopo il licenziamento del Ministro della Difesa, figura particolarmente importante negli Esecutivi israeliani, sembrano aver convinto Netanyahu della gravità della crisi innescata dalla riforma molto più di quanto non abbiano fatto le preoccupazioni sugli effetti di erosione delle istituzioni democratiche israeliane, che esperti, osservatori, e persino gli storici alleati statunitensi ed internazionali hanno ripetutamente avanzato.
Altro elemento rilevante nel recente cedimento del governo è stata la mobilitazione e l’adesione allo sciopero generale del 27 marzo dei grandi colossi commerciali del paese, dal potente settore high-tech, che comprende tante start-up di successo e importanti società finanziarie. L’intero settore si è infatti compattamente schierato contro la riforma dopo che il Ministero del Tesoro aveva pubblicato delle previsioni di contrazione dell’economia del 30%, lo scambio tra shekel e dollaro si era attestato ai suoi livelli minimi, e le maggiori agenzie di rating avevano ridimensionato le stime di crescita del Paese.
In rapida successione, molti membri di spicco della maggioranza israeliana e ministri del Likud si sono espressi per una sospensione dell’iter parlamentare di approvazione sottolineando il carattere fortemente divisivo della riforma e la necessità di ricalibrare un sistema di reali check and balances costituzionali, sottintendendo implicitamente il potenziale degenerativo delle modifiche presentate che, in alcuni casi, hanno già visto il voto positivo dell’aula nella prima lettura. Lo stesso Ministro della Giustizia Yariv Levin ha dichiarato che le ipotesi di riforma del Judicial Selection Committee, che garantirebbero alla maggioranza politica in Parlamento una automatica maggioranza nel Comitato per la selezione dei Giudici della Corte Suprema (testo su cui la Knesset ha già votato in prima lettura e che il 27 marzo è stato approvato per la seconda e terza lettura dalla Commissione per la Costituzione della Knesset), “would lead to a situation in which all three branches of government become one branch. This claim that [the blurring of branches] could ultimately lead to a constitutional crisis, is a claim that can’t be ignored — this cannot happen in a democratic country” (trad. del Times of Israel).
Come si è già avuto modo di approfondire, le ipotesi di riforma presentate dalla nuova maggioranza sono tuttavia ben più ampie e profonde delle sole modifiche al Judicial Selection Committee. L’intenzione apertamente dichiarata, infatti, è quella di opporre una vera “controrivoluzione” a quella “rivoluzione costituzionale”, operata negli anni ’90 soprattutto ad opera del Presidente della Corte Aharon Barak, che aveva portato ad un ampliamento del ruolo della Corte Suprema nell’ordinamento e al simultaneo affermarsi di una visione dell’organo come espressione progressista dalla forte vocazione antimaggioritaria. Le proteste nella Knesset così come nelle strade, peraltro, non hanno risparmiato nemmeno le altre modifiche - niente affatto “minori” - previste nel pacchetto in discussione. Il composito fronte delle opposizioni ha così espresso un netto rifiuto  rispetto a una riforma  che si porrebbe “at the epicenter of the rise of constitutional populism in Israel” e, più in generale, alle ipotesi di introduzione di una override clause, che permetterebbe ad una maggioranza parlamentare semplice di superare una sentenza di incostituzionalità della Corte Suprema.  Altrettanto pericoloso appare poi il progetto di limitare le prerogative di judicial review della Corte alla sola legislazione ordinaria - operazione che eliminerebbe de facto qualsiasi forma di controllo sulle Leggi Fondamentali – come pure l’eliminazione del criterio di ragionevolezza come ragione per il controllo giurisdizionale delle decisioni del ramo esecutivo e alla sostanziale limitazione dell’indipendenza dei government legal advisers.
L’assoluta rilevanza della fase costituzionale attuale emerge con chiarezza da una analisi attenta delle opposizioni politiche alla riforma giudiziaria: non si tratta infatti “solamente” del risentimento o della delusione dei partiti di centro-sinistra come Avodà o Meretz usciti gravemente sconfitti dalle elezioni di novembre, di quelli centristi come Yesh Atid o National Unity scavalcati dalla radicalizzazione del sistema partitico, o di quelli arabi come Joint List e soprattutto Ra’am, che per la prima volta nella storia del paese era entrato nell’eterogenea coalizione di maggioranza guidata da Bennet e Lapid del 2021. Le partecipatissime manifestazioni che hanno bloccato il paese nelle ultime settimane vedono anche una quota significativa di elettori di centro destra, fra i quali - è importante sottolineare - anche elettori dello stesso Likud. Una simile imprevista eterogeneità tra le file delle opposizioni va dunque attentamente considerata, negli elementi che la costituiscono e nei progetti politici più o meno espliciti che la ispirano. Al livello più semplice essa testimonia ulteriormente delle multiple linee di frattura presenti nella società israeliana, assai spesso indebitamente semplificata in opposizioni binarie, ma l’espressione di una considerevole area di dissenso all’interno della stessa maggioranza che per anni ha sostenuto Netanyahu è forse indice di un disagio nuovo e non ancora organicamente espresso in formule politiche definite. Per altro verso la proposta di riforma è legata a doppio filo con l’agenda personale del Primo Ministro e dei suoi alleati più nazionalisti e radicali. Proprio questi ultimi vedono nella limitazione delle prerogative della Corte una occasione per portare avanti disegni di legge per modificare lo status quo nell’ambito dei rapporti Stato-Religione, in quello dei diritti delle minoranze nonché in quello – caldissimo – relativo alla sovranità israeliana in West Bank. Una simile frammentazione politica ed istituzionale sembra condannare l’ordinamento israeliano ad una fase di instabilità prolungata e non immediatamente risolvibile.
La decisione di Netanyahu di sospendere l’approvazione è arrivata congiuntamente ad un accordo con il suo Ministro per la Sicurezza Nazionale di estrema destra Itamar Ben Gvir. Il Primo Ministro ha garantito al suo alleato che la coalizione cercherà di approvare la riforma giudiziaria all'interno di un ampio accordo nazionale e dopo aver discusso con l'opposizione nei prossimi tre mesi. Qualora non venisse trovato alcun compromesso, Netanyahu ha promesso a Ben Gvir che la Knesset voterà la riforma durante la sessione parlamentare estiva. Come parte dell'accordo con il suo alleato, e per impedire che Otzmà Yehudit, il partito di destra nazionalista radicale da lui guidato, lasciasse la maggioranza in protesta per la sospensione, il Primo Ministro israeliano ha accettato la richiesta di Ben Gvir di istituire una “guardia nazionale”, con il Cabinet che ha votato in questo senso il 2 aprile. L'autorità concessa alla Guardia Nazionale, e chi ne saranno i vertici, saranno questioni discusse dall’apposito Committee appena istituito, composto da professionisti di diversi organismi di sicurezza e agenzie governative, e che dovrà consegnare al Governo delle chiare linee guida in materia entro 90 giorni dalla sua istituzione. Nonostante si tratti ancora di una proposta, la controversa forza armata dovrebbe comprendere circa 2.000 militari che avranno il compito, secondo quanto dichiarato dallo stesso Ministero della Sicurezza Nazionale, di affrontare “crimini antinazionali, disordini interetnici e atti di terrorismo”, “ripristinando l’autorità governativa dove necessario”. È inoltre da segnalare che il piano di Ben Gvir richiederebbe un taglio dell'1,5% nei bilanci di tutti i Ministeri, mossa che fornirebbe circa 1 miliardo di NIS (278 milioni di dollari) per la creazione della Guardia Nazionale. Nessuna indicazione è stata fornita dal Cabinet relativamente alle tempistiche necessarie per la creazione del corpo armato. Il Committee dovrà anche decidere se, come richiesto da Ben Gvir, il nuovo corpo dovrà rispondere direttamente al Ministro o se dovrà essere posto sotto l'autorità della polizia israeliana, con lo stesso Netanyahu che il 10 aprile si è espresso informalmente in questo senso.
Oltre alle prevedibili opposizioni politiche, un coro di ex alti comandanti di polizia si è espresso negativamente sul tema, inclusi l’ex capo della polizia Moshe Karadi e quello attuale, Kobi Shabtai, che hanno affermato che Ben Gvir potrebbe usare la forza per lanciare un “colpo di stato”. Allo stesso modo, i gruppi per i diritti civili e i politici dell'opposizione hanno espresso estrema preoccupazione per la proposta che un simile corpo armato risponda direttamente al Ministro, sostenendo che l’ipotesi che diventi una “milizia privata” per la repressione del dissenso sia reale, e che potrebbe politicizzare la polizia minando il principio di uguaglianza nelle forze dell'ordine. I vertici della polizia si sono espressi sulla proposta bollandola come uno “smantellamento della democrazia” e hanno definito l’ipotesi “pericolosa al punto da trasformare Israele in una dittatura”.
Nonostante, quindi, l’approvazione della riforma giudiziaria sia stata al momento sospesa, le recenti proposte del Cabinet certificano, nel combinato disposto con le proposte di riforma e alcuni disegni di legge recentemente approvati (come l’emendamento n.12 alla Basic Law: The Government del 23 marzo), una profonda fase di regressione costituzionale e politica che coinvolge l’ordinamento del suo complesso. Se la natura volatile dell’ordinamento e della politica israeliana rende le previsioni difficili e azzardate, l’attuale stato di salute delle istituzioni risulta ad oggi essere profondamente in bilico, stretto tra le vicende personali di Netanyahu – giunto forse ad un punto senza ritorno del suo percorso politico - la determinazione intransigente della destra radicale, il disagio di gran parte della popolazione anche moderata,  memore forse dell’impegno a un paese ebraico e democratico,  e, last but non least, l’attesa  preoccupata del mondo ebraico internazionale.


Il nuovo Governo israeliano: l’inizio della controrivoluzione costituzionale?

Ponendo fine ad una prolungata crisi politica, lo scorso 29 dicembre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato il suo nuovo Governo alla Knesset e la cerimonia di giuramento si è svolta nel pomeriggio dello stesso giorno. L'ultimo Esecutivo israeliano, guidato da Naftali Bennett e successivamente da Yair Lapid (in base alle nuove norme sui Governi di rotazione inserite nelle Basic Laws israeliane), è durato infatti solo 18 mesi. Durante questo periodo, nonostante i processi pendenti per corruzione e frode, Netanyahu è stato capo dell'opposizione, ponendosi, ancora una volta, come il vero centro della politica israeliana. Eletto per la prima volta Primo Ministro nel 1996, dopo 15 anni non consecutivi di Governo, è alla guida del suo sesto Gabinetto ed è il Premier più longevo della storia dello Stato ebraico.
Con ben 30 membri (di cui solo 5 donne), il nuovo Governo israeliano sarà il più numeroso di sempre e godrà di una solida maggioranza di 64 parlamentari (su 120). Seguendo la traiettoria politica degli ultimi decenni, il nuovo Governo sarà il più a destra della storia del Paese, dando a Netanyahu un Gabinetto relativamente omogeneo dal punto di vista ideologico e un potere senza precedenti a figure estremiste che, fino a poco tempo fa, erano percepite come destinate a rimanere ai margini della politica. Oltre, infatti, al Likud di Netanyahu e ai suoi alleati ultraortodossi Shas e UTJ, la coalizione di maggioranza comprende per la prima volta le formazioni di destra radicale Otzmà Yehudit, Hatzionut Hadatit e Noam. Per la prima volta, dunque – ed è questo un dato tanto paradossale quanto significativo – sarà Netanyahu l’elemento più moderato della propria coalizione, segnando, nella polarizzata e volatile politica israeliana, una grossa cesura con l’Esecutivo precedente di unità nazionale (la coalizione “rak lo Bibi”, “tutti fuorché Bibi”), che vedeva al suo interno anche un partito arabo (Ra’am).
La nuova omogeneità della coalizione, tuttavia, non garantisce necessariamente la stabilità. Nel corso delle negoziazioni, durate molto più del previsto, Netanyahu – che ha provato con insistenza a dipingersi all’opinione pubblica come un cuscinetto contro leader e formazioni ancora più a destra – ha spesso ceduto alle richieste dei suoi nuovi partner. Dai diritti delle donne al conflitto con i palestinesi, gli alleati di Netanyahu hanno una visione chiara del Paese e lo hanno costretto ad adottarne gran parte, almeno secondo gli accordi di coalizione che il nuovo Premier ha stipulato con i singoli partiti alleati. Il Primo Ministro ha infatti pubblicato i principi guida e l'agenda generale della sua nuova coalizione, promettendo costruzioni in tutto il Paese, compresa la Cisgiordania, e misure per "ripristinare l'equilibrio" tra il Parlamento, il Governo e la Corte Suprema, tema scottante dell’attualità istituzionale israeliana.
Nonostante le critiche del Procuratore Generale e della coalizione uscente, secondo cui le politiche previste dal nuovo Governo potrebbero “erodere la democrazia israeliana”, tra le linee guida pubblicate non è esplicitata alcuna volontà di preservare i valori e le istituzioni democratiche. Se da un lato Netanyahu ha dichiarato che “difenderà i valori democratici”, il suo partito Likud persegue apertamente una riforma giudiziaria che intende stravolgere gli esistenti checks and balances tra il Parlamento e la Corte Suprema e ha raggiunto un accordo con Otzmà Yehudit per emendare il comma 2 dell’art.7A della Basic Law sulla Knesset, che impedisce la candidatura al Parlamento israeliano per chi inciti al razzismo. Una analisi approfondita delle possibilità e delle prospettive future supera ampiamente i limiti di queste note, ma alcuni nodi strategici sono sufficienti a mostrare direzioni e implicazioni delle riforme proposte.
Così, se Netanyahu è riuscito a convincere il leader del sionismo religioso di estrema destra Bezalel Smotrich a rinunciare al portafoglio della difesa, il leader di Hatzionut Hadatit, tra i più accesi sostenitori dell’annessione della West Bank, diventerà comunque Ministro delle Finanze e avrà competenza esclusiva sull’Amministrazione Civile (entità che sovrintende alla costruzione, alle infrastrutture e al coordinamento della sicurezza in Cisgiordania) all'interno del Ministero della Difesa. Nonostante le pressioni internazionali, Netanyahu ha offerto al leader nazionalista di Otzmà Yehudit Itamar Ben-Gvir, la carica di Ministro della Pubblica Sicurezza, che assume la denominazione di Ministero della sicurezza Nazionale. Ha anche concesso a Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso Shas, la carica di Ministro della Salute e degli Interni, con l’accordo che dopo due anni di legislatura Deri assuma anche la carica di Ministro delle Finanze e Smotrich quella di Ministro degli Interni.
Proprio attorno a queste tre nomine ruotano due blitz legislativi da parte della maggioranza, avvenuti prima del giuramento e che hanno avuto lo scopo di modificare la Basic Law sul Governo. Il primo emendamento approvato (Basic Law: The Government (Amendment No. 11, P/81/25, K/942) concede a Smotrich di esercitare un ruolo indipendente all’interno del Ministero della Difesa, assegnandogli vaste competenze nell’area C della West Bank senza alcun controllo da parte del Governo. Contestualmente, lo “strappo” legislativo consentirà a Deri, - che è stato condannato a gennaio per evasione fiscale e ha patteggiato la pena per evitare l’interdizione dai pubblici uffici - di esercitare nuovamente il suo ruolo ministeriale. Il secondo blitz della maggioranza (Law to Amend the Police Ordinance (No. 37),P/80/25,K/943) permetterà invece a Itamar Ben-Gvir (condannato in passato per atti di violenza ed istigazione all’odio razziale) di assumere il nuovo ruolo di Ministro della Sicurezza Nazionale, ampliando le competenze del Ministero, che ora controllerà anche la polizia di frontiera in Cisgiordania. Si tratta di tre modifiche politico-istituzionali di grande rilievo, che stanno suscitando pesanti critiche da parte dell'opinione pubblica internazionale. Cresce infatti la preoccupazione per la tenuta democratica dell’ordinamento israeliano, che mostra chiaramente un arretramento della rule of law e rischia di configurarsi come perfetto caso da laboratorio per gli studiosi di constitutional degeneration.
Peraltro, Netanyahu è attualmente sotto processo per tre diversi capi di imputazione. Non è dunque un caso che uno degli obiettivi principali della nuova coalizione sia quello di modificare le prerogative della Corte Suprema, in particolare attraverso l'approvazione della cosiddetta override clause. Si tratta di una riconfigurazione costituzionale che cambierebbe radicalmente l'equilibrio di potere tra il potere giudiziario e quello legislativo. La nuova norma, infatti, consentirebbe ad una maggioranza di 61 membri della Knesset di scavalcare il potere giudiziario e approvare leggi in contrasto con le Leggi Fondamentali del paese, limitando in modo critico le prerogative di controllo e garanzia della Corte Suprema.
Un'altra priorità per gli alleati di estrema destra di Netanyahu è rendere più difficile, per i gruppi a difesa dei diritti umani, presentare ricorsi alla Corte – che funge da Alta Corte di giustizia – contro le azioni del Governo. Della Corte, inoltre, il Likud vuole cambiare la composizione, attualmente quasi equamente divisa tra liberali e conservatori. La coalizione potrebbe raggiungere l’obiettivo abbassando l'età di pensionamento obbligatoria dei giudici e dando al Governo un maggiore controllo sulla nomina dei Giudici. A questo proposito, il Primo Ministro uscente Yair Lapid ha accusato il Governo entrante di “trascinare il Paese in una pericolosa spirale antidemocratica” e di minare lo stato di diritto “per motivi personali”. Le proposte di riforma del sistema giudiziario, tra cui l'imposizione di limiti al locus standi - e l'emanazione di una override clause, avrebbero realisticamente un grave impatto sulla società civile e soprattutto sui delicati e vitali rapporti tra gli enti e le istituzioni governative. Il colpo sarebbe più duro per le organizzazioni a tutela dei gruppi vulnerabili - chi vive al di sotto della soglia di povertà, gli anziani, le donne e le persone con disabilità – i cui diritti sono assai spesso stati riconosciuti o tutelati nelle sentenze della Corte Suprema, in risposta ai ricorsi presentati dalle organizzazioni della società civile.
Sul tema dei rapporti tra Stato e religione, va poi segnalata la controversa nomina del politico anti-LGBT Avi Maoz (leader di Noam), posto ora a capo del dipartimento – all’interno della Presidenza del Consiglio – che sovrintende all’”identità ebraica”, con riconosciuti settori di competenza – come la responsabilità della programmazione scolastica – e pericolose possibilità di oltrepassarli. Infine, sono da menzionare le forti spinte dei partiti ultraortodossi (Shas e UTJ) per modificare gli attuali equilibri in relazione ai fondi per le scuole rabbiniche (yeshivot), le disposizioni relative alle preghiere al Muro del Pianto, e sullo scottante tema della coscrizione militare per i giovani ultraortodossi. Sebbene si tratti ancora di una proposta, il fronte ultraortodosso ha addirittura ipotizzato di modificare la “Law prohibiting discrimination in products, services and entry to places of entertainment and public places” (anche nota come Anti-discrimination law), con conseguenze potenzialmente gravissime circa i diritti civili delle minoranze. Su ulteriori e preoccupanti proposte – come quelle di Simchà Rothman e Orit Strock – non è possibile, per ragioni di spazio, soffermarsi analiticamente: tutte, peraltro, segnalano un chiaro peggioramento delle garanzie costituzionali in termini di principio di uguaglianza. Da sottolineare, infine, le possibili modifiche restrittive alla Legge del Ritorno, dalla portata fortemente simbolica, e quelle sulle conversioni, chieste a gran voce da Smotrich. Processi di grande chiusura che segnerebbero non solo una frattura identitaria profonda nei rapporti tra Israele e le correnti ebraiche non ortodosse, soprattutto statunitensi, ma che – ancora più significativamente – manifestano una drammatica inversione  rispetto alle aspirazioni costituzionali dello Stato di Israele, “democratico ed ebraico”, e che potrebbero condurre – complice un simile processo di arretramento costituzionale – a una riconfigurazione del rapporto ideale e culturale fra lo Stato di Israele e segmenti importanti della diaspora ebraica.
Con le (deboli) opposizioni che alzano le barricate, e le numerose manifestazioni di piazza, c'è tuttavia ancora molta incertezza su quel potrà essere la reale traiettoria di riforme della nuova maggioranza, che, almeno in parte, si troverà imbottigliata tra real politik e necessità costituzionali. Tuttavia, alcune delle riforme fin qui evidenziate, a partire da quella – centrale – circa il potere giudiziario, su cui sembrano convergere tutte le anime della maggioranza, sono preoccupanti e hanno il potenziale per portare ad una revisione completa del sistema costituzionale israeliano di checks and balances.
Qualora la riforma dovesse essere effettivamente portata avanti nei termini annunciati, ciò porterà a una concentrazione di potere nelle mani dell'Esecutivo mai vista prima, senza il necessario ruolo di controllo e garanzia che la Corte ha finora esercitato, e senza alcuna tutela dei diritti delle minoranze. Le ipotesi di riforma costituzionale del complesso e delicato status quo tra Stato e Religione, nel combinato disposto con le norme relative alla cittadinanza e alla giurisdizione in West Bank, non sembrano essere meno allarmanti, ma anzi capaci di modificare profondamente la teoria dello Stato israeliano e di logorare le sue istituzioni democratiche, segnalando un progressivo deterioramento costituzionale dell’ordinamento e uno scivolamento di Israele verso un paventato modello di democrazia etnica se non addirittura di etnocrazia.