Brevi note su “Il costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli” di Valentina Scotti

L’opera di Valentina Scotti, Il costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli (edito da Maggioli nella collana Devolution Club, 2014) esamina l’evoluzione e l’attuale assetto costituzionale del Paese un tempo sede del sultanato ottomano.

L’Autrice si prefigge l’obiettivo di ricostruire, in circa trecento pagine articolate in quattro capitoli, il sistema costituzionale turco e il suo sviluppo. Partendo dalla crisi dell’Impero Ottomano, si esaminano poi la nascita della Repubblica di Turchia (proclamata il 29 ottobre 1923 e guidata fino al 1938 da Kemal Atatatürk) e la sua evoluzione – contraddistinta da vari testi costituzionali e da alcuni colpi di Stato – arrivando fino ai giorni nostri, alle recenti riforme apportate alla Costituzione del 1982 e al ruolo dell’AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi), partito che regge il governo del Paese dal 2002. Non si manca di dare rilievo alla posizione dello Stato sul piano internazionale, dando risalto non solo ai legami storici fra Europa e Turchia, ma anche allo sviluppo dei rapporti instaurati dallo Stato mediorientale con l’Unione europea e il Consiglio d’Europa. Emerge altresì la formazione da scienziata politica di Valentina Scotti, che affianca l’analisi costituzionale a nozioni di carattere “metagiuridico”, relative alla società civile e politica, ritenute fondamentali “per comprendere l’evoluzione della cultura giuridica prima ottomana e poi turca” (p.100).

L’idea centrale sostenuta dall’Autrice è che la Turchia, che costituisce una sorta di ponte (geografico e culturale) fra Europa e Medioriente, abbia in più occasioni fatto propri modelli giuridici dell’antico continente, ma anche che – nel farlo – non si sia limitata a una semplice ricezione, preferendo adattarli alle proprie peculiarità ed esigenze, riuscendo in questo modo a costruire un sistema unico e precipuo, per quanto frutto dell’influenza europea. Sebbene l’influsso del diritto straniero fosse già presente durante l’epoca sultanile, esso si fa più evidente con l’avvento della Repubblica: così, per esempio, nel 1926 si adottano il codice civile svizzero e il codice Zanardelli (di diritto penale), mentre l’anno successivo si recepisce il codice di procedure civile del cantone di Neuenburg. Si noti, tuttavia, che l’adozione di tali testi non è mai pedissequa e vede sempre un adattamento conforme alle esigenze della Turchia. Inoltre la decisione di non fare riferimento a un solo ordinamento, ma di guardare a più esperienze, andrebbe ricondotta alla volontà di “non dimostrare una sudditanza culturale foriera di un mero trapianto di istituti giuridici”, nonché a quella di “realizzare una summa delle più moderne scelte di ingegneria giuridica al momento disponibili” (p. 55).

Come ricostruito nell’opera monografica, tale scelta deve essere ricondotta alla volontà di collocare la Repubblica in una posizione di netta cesura rispetto all’Impero Ottomano, in modo da favorire la creazione di un nuovo Stato – fondato su valori moderni – nonché di una nuova cultura e un nuovo senso di appartenenza nazionale che, tuttavia, non manca di fare i conti con la propria tradizione. In tale prospettiva vanno pertanto lette (fra le altre cose) sia la decisione di abbandonare il diritto di epoca imperiale (connotato da una commistione fra norme di carattere religioso e di natura temporale), sia l’introduzione di una nozione di “laicità assertiva”, analoga a quella propria del modello francese. Il rigido secolarismo kemalista, la cui portata è stata attenuata in tempi più recenti, va considerato alla luce della volontà di Atatürk di costituire una nuova cultura nazionale che, pur nel rispetto dell’identità turca, si collochi in netta contrapposizione con quella dell’epoca sultanile e favorisca una maggiore coesione e uniformità fra la popolazione (ignorando altresì le specificità religiose delle minoranze presenti nel Paese). Insomma, come affermò Kemal stesso, “poiché siamo tutti turchi e quindi mussulmani, possiamo essere tutti laici”: ne discende che da un lato “la laicità è lo strumento per negare l’esistenza del pluralismo, dall’altro, e in maniera più sottile, essa è lo strumento per ribadire il collante sociale che già ha contribuito a tenere insieme l’Impero” (p. 108).

            Valentina Scotti fa notare che attualmente la Turchia si presenta come una società dinamica, multipartitica, il cui laicismo è andato progressivamente attenuandosi, passando a un modello di “secolarismo passivo” – per certi versi analogo a quello statunitense – grazie anche al ruolo dell’AKP, partito di ispirazione islamica moderata. Negli ultimi anni sono state affrontate molte riforme, atte a garantire una maggior stabilità e tutela dei diritti, ma – come emerso anche dai rapporti con l’Unione europea – il consolidamento democratico non può dirsi ancora realizzato appieno. Segno ne sono alcune questioni rimaste ancora aperte, come il rapporto con la popolazione curda e quella armena, nonché il riconoscimento della Repubblica Turca di Cipro del Nord.

La monografia, oltre a fornire un valido quadro sulla storia e l’attuale assetto costituzionale turco (esaminando altresì il contenuto delle “frecce” del kemalismo e la loro attuale portata), come accennato ricostruisce le relazioni instaurate fra lo Stato e gli ordinamenti comunitario ed europeo. Interessante è il quadro che emerge dall’analisi del rapporto fra CEDU e Corti nazionali turche, laddove – tramite uno studio sia della dottrina, che della giurisprudenza – si evidenziano orientamenti giurisprudenziali e criticità. Così, per esempio, vengono richiamate importanti riforme (come l’abolizione della pena di morte), o ancora il riconoscimento della supremazia del diritto internazionale ed europeo sul diritto nazionale in materia di tutela dei diritti fondamentali, a cui – però – non corrisponde sempre un’adeguata interpretazione delle norme “superiori” da parte delle corti turche. Interessante è poi l’individuazione di un peculiare rapporto fra gruppi di interesse e CEDU, laddove i primi adirebbero la seconda soprattutto per risvegliare la sensibilità politica delle istituzioni e della società civile per ottenere una maggiore attenzione da parte del legislatore. Similmente, viene analizzato il lungo processo dialettico con l’Unione europea che, sebbene non abbia ancora portato a un’annessione della Turchia, ha nondimeno indotto lo Stato a realizzare una serie di riforme di cruciale importanza.

Il lavoro di Valentina Scotti, che ha il pregio di affrontare un tema di centrale attualità per il panorama europeo, dandogli una buona profondità storica e rimarcando le peculiarità presenti, si conclude con un interrogativo: la Turchia riuscirà a portare a compimento il proprio processo di democratizzazione o, nei prossimi anni, si assisterà a una svolta autoritaria?