Chi può definirsi “partner” di un cittadino UE? La Corte chiarisce (e rende più ampia?) la condizione di relazione stabile

È cosa ben nota, ormai, che il legislatore europeo sia ben predisposto nel considerare un concetto ben più ampio di “nucleo familiare”, rispetto a quanto disposto dalle legislazioni di alcuni Stati membri. Tale atteggiamento verso il coniuge e/o il semplice componente della famiglia diventa assai più rilevante se si considerano le implicazioni derivanti dall’esercizio della libera circolazione e, quindi, la possibilità per il partner cittadino non-UE di fare rientro nello Stato membro d’origine dopo aver soggiornato in un Paese diverso da quello di cui si ha la cittadinanza. Trattasi, in sostanza, di quel diritto di residenza derivato che viene accordato al nazionale non-UE, di cui si è già parlato in questo blog (ragionando sulla causa C-456/12) e che attiene la sfera più estesa dei diritti di tutti i soggetti extra-europei vincolati al cittadino di uno Stato membro (si pensi, ad esempio, a quanto già espresso in questo post).
Questa possibilità di ricongiungersi con il proprio familiare cittadino dell’Unione, infatti, è stata ben rappresentata in numerose sentenze dalla CGUE, a partire dalla più celebre decisione nella causa C-370/90, che qualche attento studioso ha già ribattezzato come “Surinder Singh immigration route”. Si tratta di una possibile via d’uscita, particolarmente utilizzata nel Regno Unito, per evitare che le legislazioni restrittive di alcuni Paesi impediscano al coniuge di un cittadino UE la possibilità di usufruire di quanto previsto dalla direttiva 2004/38/CE, che – si badi bene – mira ad agevolare l’esercizio del diritto originario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Questa libertà è conferita direttamente ai cittadini dell’Unione dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e ai rispettivi familiari dal combinato disposto degli artt. 2 e 3 della suddetta direttiva (questione che, tra le altre, è già stata affrontata nel caso McCarthy, C-202/13, nonché nel caso Lounes, C-165/16).
Semplificando drasticamente, la “clausola Surinder Sigh”, così come confermata da successive decisioni, si basa sull’assunto che il diritto di spostarsi in un altro Stato membro deve necessariamente includere (e non scoraggiare) la possibilità di rientro nel Paese d’origine, sia per il cittadino UE che per i suoi familiari. Secondo questa consolidata giurisprudenza, quando un cittadino dell’Unione fa ritorno nello Stato membro di cui ha la cittadinanza, dopo aver esercitato il diritto di soggiorno in un altro Paese UE, i suoi familiari hanno diritto di ingresso e di soggiorno nel primo Stato e devono beneficiare, quantomeno, degli stessi diritti che spetterebbero loro, in forza del diritto dell’Unione (e non della legislazione nazionale). Peraltro, le condizioni per la concessione di quel diritto di residenza derivato – come chiarito nel già citato caso O. e B. – non possono essere più rigorose di quanto già previsto dalla stessa direttiva. Tuttavia, è bene ricordare che il soggetto di tutte queste passate sentenze è sempre stato un coniuge e/o partener stabile, così come comunemente inteso nella legislazione statale. Cosa succederebbe se a chiedere l’applicazione di questo disposto sia un partner “non registrato” con il nazionale europeo?
È quanto ha richiesto di accertare la sig.ra Banger, cittadina del Sudafrica e compagna stabile del sig. Philip Rado, quest’ultimo cittadino del Regno Unito. La coppia, dopo aver convissuto per diversi anni proprio in Sudafrica, decide di trasferirsi nei Paesi Bassi: in questo caso, la suddetta nazionale extra-UE viene considerata favorevolmente meritoria di una carta di soggiorno, in quanto membro della famiglia allargata di un cittadino dell’Unione. Successivamente, il Sig. Rado decide di fare rientro nel Regno Unito, insieme alla sua compagna. Quest’ultima richiede la medesima autorizzazione a stabilirsi sul territorio che, in questa occasione, viene negata dal Secretary of State for the Home Department. In base alla legislazione interna, infatti, per essere riconosciuto come familiare di un cittadino del Regno Unito, il soggetto deve poter dimostrare di essere coniuge e/o partner registrato del nazionale britannico. Nel caso di specie, la richiedente non soddisfa nessuno dei due requisiti. Così, l’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber) ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia precise questioni pregiudiziali relativamente all’interpretazione della suddetta direttiva e le implicazioni derivanti dalla giurisprudenza appena citata.
Con la decisione sul caso C-89/17 del 12 luglio 2018, i giudici europei stabiliscono che il principio derivante dalla sua precedente giurisprudenza, desumibile dalle sentenza Surinder Sigh e successive, si possa applicare anche nei casi in cui il soggetto  familiare del cittadino dell’Unione mantiene una relazione stabile ma essa non è né registrata, né assimilabile alla figura di coniuge. Certamente, la sentenza chiarisce che questo meccanismo non è automatico, vale a dire non costituisce un motivo per il rilascio incondizionato di una autorizzazione al soggiorno per il familiare allargato. Tuttavia, precisa la Corte, è necessario che le autorità competenti operino un esame attento delle condizioni personali del soggetto, al fine di non compromettere – attraverso il diniego – il godimento dei diritti di cui all’art. 3 della direttiva 2004/38/CE. Pertanto, per lo Stato membro a cui viene recapitata tale richiesta non esiste un vero e proprio obbligo. Semmai – e qui sta l’elemento di novità – si può prefigurare l’onere di concedere un determinato vantaggio alle domande presentate da questi ultimi rispetto a quelle di altri cittadini di Stati terzi.
Ciò deriva, in primis, dall’interpretazione che gli stessi giudici hanno dato dell’articolo 21 TFUE, il quale prescrive, allo Stato membro di cui il cittadino dell’Unione possiede la cittadinanza, il rilascio agevolato di un titolo di soggiorno al partner, cittadino di uno Stato extra-UE, con il quale il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile, quando detto cittadino dell’Unione abbia esercitato il suo diritto di libera circolazione e faccia ritorno con il suo partner nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza per soggiornarvi. In analogia con i casi precedenti ed in virtù di un’analisi accurata, le autorità hanno il compito di motivare un eventuale diniego del permesso di soggiorno. Infine, la Corte stabilisce che i cittadini di Stati terzi devono disporre di un mezzo di impugnazione per contestare il provvedimento di diniego di rilascio di un’autorizzazione al soggiorno. In tale contesto, il giudice nazionale deve poter verificare se tale provvedimento si fondi su una base di fatto sufficientemente solida e se le garanzie procedurali siano state rispettate.
La decisione in esame, quindi, non fa altro che ampliare – ancora di più – l’ambito di applicazione del diritto europeo e le sue possibili ricadute sulla legislazione nazionale. Rimane ferma l’intenzione per i giudici di Lussemburgo di svincolare i diritti derivanti dalla libera circolazione da qualsiasi possibile restrizione che possa desumersi dalla normativa interna agli Stati che, come nel caso di specie, hanno l’obbligo di adeguare il trattamento di questi casi specifici – non pochi, se si considera l’attuale contesto politico istituzionale del Regno Unito – come la stessa Corte ha stabilito. Per altri versi, sebbene non direttamente collegata alla sentenza in commento, è bene ricordare quanto recentemente stabilito nella attesissima sentenza C‑673/16 pronunciata all’inizio di questo mese, relativa al caso Coman: la Corte di giustizia ha sancito nel caso di specie che il termine “coniuge” ai sensi della regolamentazione sulla libertà di movimento nell’UE include anche il soggetto dello stesso sesso, quale componente familiare di un cittadino UE. In questa diversa occasione, la questione pregiudiziale verteva sulla possibilità o meno di richiedere un ricongiungimento familiare, ma la situazione originaria del soggetto contemplava sempre il trasferimento da uno Stato membro all’altro. Anche in tali situazioni, pertanto, il cittadino dell’Unione può richiedere allo Stato di destinazione di ammettere nel proprio territorio il coniuge, indipendentemente dal fatto che lo Stato contempli nel suo ordinamento l’unione tra coppie dello stesso sesso. Un solco, quindi, che diventa sempre più profondo e una visione ben nitida su queste questioni. Un atteggiamento che, ad onor del vero, è stato ben difeso in illo tempore anche in sede istituzionale e che oggi, in virtù della vis giurisprudenziale, costituisce un chiaro monito per il legislatore interno.