Corte Costituzionale n. 49/2015: La Consulta alla prova Stepchild Adoption
Poco più di un anno fa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015 si pronunciava sul rango del sistema Cedu in ambito interno. Intervento reso necessario dalle suggestioni sovranazionali cui sembravano essere attratti giudici comuni e di legittimità, indifferentemente in ambito civile, penale e amministrativo.
La crescente ambizione, infatti, del Consiglio d’Europa e delle istituzioni europee all’edificazione di un connotato e affidabile sistema di valori, utilissimo al fine di forgiare e plasmare l’identità europea, se da un lato ha indubbiamente innalzato gli standard di tutela in relazione alla materia dei diritti fondamentali, d’altro canto, in molte occasioni, ha ingenerato pericolosi misunderstanding in relazione al rapporto tra fonti.
L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in particolare, ha comportato secondo molti la nascita di un vero e proprio sistema integrato di norme, definito anche multilivello o interlivello, con Costituzioni aperte al reciproco dialogo volto alla ricerca della c.d. tutela più intensa. Ci si è spinti in tal senso sino al punto di dire che sia venuta meno la matematica equazione Stato = Costituzione, con il sorgere di Costituzioni che non presuppongano necessariamente uno Stato e Stati aperti a diverse fonti del diritto, specie per quanto attiene alla materia della tutela dei diritti fondamentali.
Così, sovente accade che le esigenze di tutela di singole situazioni giuridiche soggettive dedotte in giudizio possano trovare soddisfazione non solo all’interno della Carta Costituzionale del singolo Stato, ma spesso e volentieri nelle prescrizioni ora della Carta di Nizza, ora della Convenzione EDU.
E’ indubbio il vantaggio che il singolo soggetto di diritto possa ricevere da una tale apertura, ma, d’altra parte, è evidente come le predette esigenze di tutela rischino, di fatto, di essere oltremodo frustrate da un’imperfetta articolazione e struttura dei rapporti tra le fonti anzidette. In altri termini l’ambiziosa promessa della ricerca della tutela più intensa si espone al pericolo di non tradursi nella definizione di una tutela concreta e certa, per via della confusione che si trovano quotidianamente ad affrontare i giudici comuni nell’approccio alle fonti anzidette.
A ciò si aggiunge il timore dei giudici Costituzionali di veder bypassata, o peggio radicalmente innovata, attraverso l’attività interpretativa dell’operatore giuridico, la disciplina nazionale di riferimento di determinate materie, al sorgere di contrasti tra Cedu/Diritto Ue e ordinamento interno.
Contrasti resi ancor più frequenti, si deve sottolineare, da una colpevole assenza del legislatore in materie determinate e sensibili, per le quali la forte esigenza di tutela ha spesso condotto i giudici a epiloghi creativi proprio attraverso l’uso della giurisprudenza europea e della tecnica dell’interpretazione conforme.
E’ così che accade che le antinomie fra le fonti citate, attraverso la necessaria opera interpretativa/creativa degli operatori del diritto, vengano risolte in favore della disciplina sovranazionale, e ciò – almeno con riguardo alla Cedu – alle volte in violazione delle indicazioni date da leggi, Costituzioni e Corti Costituzionali, a seconda dei casi e degli Stati, in merito al rapporto tra fonti.
E’ proprio per tali ragioni – concentrandoci ora sul rapporto tra Cedu e ordinamento nazionale – che la Corte Costituzionale si è pronunciata negli anni indicando i criteri che il giudice comune deve seguire in caso di contrasto fra norme interne e Convenzione. E’ ciò che è accaduto con le sentenze gemelle e gemelle bis (nn. 347/348 del 2007; 311/319 del 2009), e, da ultimo, con la decisione n. 49/2015.
La pronuncia in oggetto, in parte in linea di continuità con quelle che l’hanno preceduta, in parte in profonda innovazione, ha suggerito all’interprete i canoni e i criteri da seguire nell’approccio alla materia di cui trattasi.
Ciò, si badi, non solo in relazione alle previsioni contenute all’interno della Convenzione, ma anche alle sentenze della Corte, visto che i principi Cedu vivono nell’interpretazione che viene loro data proprio dalla Corte di Strasburgo.
Così, nel ribadire l’obbligo dell’interprete, in caso di antinomia tra le due diverse fonti, di effettuare una preventiva interpretazione conforme a Costituzione della norma/sentenza Cedu, e, laddove questa non sia possibile, di deferire la questione alla Corte Costituzionale, ha aggiunto un ulteriore passaggio, nel timore che i giudici comuni si riducessero a semplici passivi recettori delle sentenze pronunciate a Strasburgo.
La Consulta ha infatti indicato un criterio fondato sulla distinzione fra pronunce che siano espressione di un orientamento consolidato della Corte e altre che non lo siano, sempre sottolineando che «L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenza n. 349 del 2007).
Così, nel palesato intento di favorire la certezza del diritto, solo nel primo caso – fermo il criterio del margine di apprezzamento che compete allo Stato membro – il giudice comune sarà tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea, ponendola a fondamento del proprio processo interpretativo; diversamente nessun “obbligo esisterà in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo”.
Rinviando alla sede opportuna le pur doverose riflessioni circa il metodo indicato dalla Consulta, appare interessante, oggi, a distanza di un anno dalla pronuncia, indagare su come si siano effettivamente posti i giudici comuni nei confronti della materia, alla luce della sentenza in oggetto.
Sarà riuscita la Corte Costituzionale nel proprio intento di porre precisi argini fra i due ordinamenti, o piuttosto i giudici ordinari e amministrativi avranno continuato a cercare asilo nelle prescrizioni della Convenzione Europea e nelle sentenze dei giudici di Strasburgo?
Per riuscire a rispondere a questi interrogativi è apparso opportuno utilizzare come paradigma proprio una delle questioni che, più di tutte, quest’anno hanno interessato gli organi legislativi e deliberativi, tra istanze di tutela e tensioni contrapposte, progressiste e conservatrici: la stepchild adoption.
E’ questo il tipico caso in cui le leggi e gli orientamenti giurisprudenziali europei e italiani, posti su posizioni totalmente divergenti, rischiano di giungere a irrimediabili tensioni. E dunque, è la più tipica occasione in cui le strutture e le regole date dalla Consulta, in materia di rapporti tra fonti, di fronte a sempre più pressanti istanze di tutela vengono messe alla prova.
Avrà retto l’impianto offerto dalla sentenza n. 49/2015 alla prova “stepchild adoption”? La soluzione verrà suggerita dall’analisi giurisprudenziale che qui si riporta.
L’occasione è presto offerta dalla decisione del Tribunale per i minorenni di Roma – resa in data 30.12.2015 – che veniva adito da una giovane donna, la quale intratteneva da anni una relazione omosessuale, non formalizzata per via degli ostacoli di natura legislativa, con la propria compagna. Quest’ultima aveva deciso di sottoporsi a procedura di fecondazione di tipo eterologo in Belgio, con l’impegno che entrambe si sarebbero dedicate alla cura del nascituro. La ricorrente chiedeva “alla luce dei rapporti instaurati e consolidati con la piccola di poterla adottare ai sensi dell’art. 44, primo comma, lettera d) L. 184/83, come modificata dalla L. 149/2001”.
E’ chiaro che nel testo della legge nulla fosse previsto circa l’adozione del figlio della compagna, e, in tal senso, in applicazione della giurisprudenza europea in materia, la ricorrente chiedeva, alla luce del principio del best interest del minore, che venisse effettuata dal giudice una lettura convenzionalmente conforme della disposizione su citata, nella parte in cui fa riferimento alle c.d. “adozioni in casi particolari”.
Il Tribunale, riprendendo gli insegnamenti dati dalla Corte Europea, ha effettuato un’interpretazione conforme a Convenzione, al punto tale da stravolgere il significato stesso della norma.
Questi infatti riteneva che la lettura della giurisprudenza Cedu non ammettesse soluzione altra se non quella di disporre l’adozione in favore della ricorrente, posti i legami di natura familiari che già si erano creati fra la minore e la compagna della madre, argomentando nel senso che tale decisione non solo fosse conforme ai parametri europei, ma a quelli della stessa Costituzione Repubblicana.
In questo caso il giudice non ha disapplicato una norma interna per contrasto con la Convenzione, come temuto dalla Corte, ma, facendo uso della tecnica dell’interpretazione conforme si è spinto fino al punto di regolamentare il caso concreto in modo del tutto creativo e innovativo, e, specialmente, in assenza di una disposizione legislativa.
Ma non è questo l’unico caso. In tal senso, infatti, anche il Tribunale di Palermo (decreto 06.04.2015), a seguito di procedimento iniziato con ricorso ex art. 737 c.p.c., si trovava a giudicare sulla richiesta di una signora, convivente da otto anni con la propria compagna, la quale, in virtù del legame instaurato con i di lei figli, chiedeva che il giudice provvedesse a disciplinare le modalità di frequentazione fra questa e i bambini, nati anche loro a seguito di fecondazione di tipo eterologo.
La questione, in tal senso, si presentava ancor più spinosa, posto che al giudicante si chiedeva l’emissione di un provvedimento del tutto atipico, non essendovi alcuna base normativa a fondamento dell’unione e del conseguente rapporto parafamiliare venutosi a creare.
E ciò che lascia allibiti è che in tal caso il giudice, al quale veniva richiesto di proporre questione di costituzionalità dell’art. 337 ter c.c. in relazione agli artt. 2 e 30 Cost., e in combinato disposto con gli artt. 317, 317 bis, 336, 337 bis c.c., nella parte in cui non prevede il diritto al mantenimento di un rapporto equilibrato, continuativo e significativo del minore con il genitore sociale nel caso di separazione della coppia omosessuale, si rifiutava di sottoporre il caso alla Corte, ritenendo di poter riuscire a trovare una soluzione in via interpretativa, attraverso l’esperimento del tentativo di interpretazione conforme.
Così il giudice, insistendo ancora una volta sul superiore valore dell’interesse del minore, e richiamando la giurisprudenza europea in termini di rapporti familiari, i quali non sono limitati alle coppie sposate o di sesso differente, provvedeva a trovare/inventare una soluzione per il caso concreto, disciplinando le modalità attraverso le quali la ricorrente e i bambini potessero continuare a mantenere un rapporto affettivo.
Si ha quindi un caso di ultrattività degli artt. 337 bis e ter, e ciò in virtù di una lettura convenzionalmente orientata operata da parte del giudice; e la cosa che più stupisce è che questi, in motivazione, non ha mancato di dimostrare di conoscere alla perfezione l’iter prescritto dalla Corte in caso di difformità fra norma interna e giurisprudenza convenzionale, o di antinomie fra valori e principi costituzionali, supra costituzionali e subcostituzionali (o paracostituzionali), ma ha deciso comunque di fare da sè, attraverso una lettura di certo innovativa della norma; o, in altri termini, facendo dire alla norma, ciò che in realtà questa non diceva.
Le due sentenze oggetto d’esame danno immediatamente dimostrazione dell’impressionante portata della tecnica dell’interpretazione conforme, la quale, se da un lato, è evidente, offre benefici enormi ai fini dell’innovazione del diritto, del raccordo con le fonti europee e della soluzione al caso concreto, dall’altro, non è riuscita ancora a studiare dei meccanismi affidabili per arginare le sue conseguenze più pericolose, nel momento in cui l’opera innovativa del giudice si spinga fino allo stravolgimento del senso di una norma.
Considerazioni che si impongono a maggior ragione, laddove la tecnica anzidetta venga utilizzata in maniera tanto creativa non solo dai giudici comuni, ma anche, come nei casi che qui si riportano, da giudici di secondo grado e di legittimità. Si tratta delle Sentt. Corte d’Appello di Torino n. 27 e 28 del 2016, e della Sent. Corte di Cassazione n. 12962/2016.
In entrambi i casi si dibatte di questioni analoghe a quella già offerta con lo studio della decisione del Tribunale per i minorenni di Roma.
Al Tribunale di Torino, così, si rivolgevano due donne, le quali affermavano di convivere dal 2007 in virtù di una stabile relazione affettiva, di aver contratto matrimonio e di avere generato, ognuna, in costanza di convivenza due figlie. Le bambine erano cresciute all’interno di un progetto di genitorialità condivisa, fondato anche sull’accordo di convivenza stipulato dalle parti, e all’interno del nucleo familiare, composto dalle due ricorrenti e delle due bambine, queste si consideravano tra loro sorelle. Le due donne, quindi, chiedevano la duplice pronuncia di adozione ex articolo 44, co. 1, lettera d) L. 183/1984, l’una con riferimento alla figlia dell’altra, dando prova del sano ambiente familiare che si era creato e nel quale erano cresciute le due bambine. Dopo un primo rigetto dell’istanza da parte del Tribunale, il quale non ravvedeva alcun fondamento giuridico all’adozione nel caso di specie, le parti ricorrevano alla Corte d’Appello.
Questa, basandosi sugli insegnamenti della giurisprudenza europea, in tema di maggior interesse del minore, ha affermato che la sussistenza di “vita familiare” non è subordinata all’accertamento di un determinato status giuridico, quanto piuttosto all’effettività dei legami, come secondo la lettura dell’art. 8 CEDU nelle sentenze Ga. contro Francia, Kt. Contro Finlandia, Em. e altri c. Svizzera.
La sentenza dei giudici di Torino, tuttavia non aveva ancora dipanato tutte le questioni inerenti l’art. 44, co.1, lett. d) l. 183/1984. Ci si domandava in particolare se la c.d. “impossibilità di affidamento preadottivo” dovesse essere considerata in termini restrittivi o estensivi, e dunque se si fosse dovuto parlare di impossibilità di fatto – che pertanto presupponesse necessariamente lo stato d’abbandono – , o se la norma in questione valesse da valvola per farvi rientrare anche i casi di impossibilità di diritto, ovverosia quando l’affidamento preadottivo fosse impossibile per via dell’assenza della disciplina legislativa nel caso concreto. Il Tribunale si era mosso nella prima direzione, la Corte d’Appello nella seconda.
Ed è così che si giunge alla preannunciata sentenza della Corte di Cassazione, che, pronunciandosi sul medesimo tema, ha offerto alle interpretazioni qui proposte la sua soluzione.
La Corte, infatti, decidendo sulla questione già accennata in precedenza ha affermato che” l’accertamento di una situazione di abbandono non costituisce, differentemente dall’adozione legittimante, una condizione necessaria per l’adozione in casi particolari“ e dunque “l’interpretazione dell’affidamento preadottivo all’interno dei conflitti non osta alla più ampia opzione ermeneutica che ricomprenda nella formula anche l’impossibilità di diritto, e con essa tutte le ipotesi in cui, pur in difetto di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendano causa”.
La Corte di Cassazione, dunque, come uno scrupoloso chirurgo, dopo aver con attenzione aperto una valvola – nel caso di specie l’interpretazione della locuzione “impossibilità di affidamento preadottivo” – , e avendo inserito fra i canoni quello della c.d. impossibilità giuridica, ha spalancato la strada all’ingresso delle più varie forme di adozione sotto i casi della c.d. adozione in casi particolari, ovviamente pur sempre sotto il suo controllo e interpretazione. E’ così che, quando il legislatore non legifera o, se lo fa, lo fa male, sono i giudici che da interpreti della norma, ne diventano, in un certo modo creatori. Nel caso oggetto di analisi i giudici della Suprema Corte, sotto lo schermo della giurisprudenza europea, e senza interpellare, come sarebbe stato opportuno, la Corte Costituzionale, hanno elaborato la norma da sé. La Corte di Cassazione ha infatti cercato legittimazione nella giurisprudenza Cedu, dedicandole un ruolo ampio e fondamentale nel proprio iter argomentativo. Ancora una volta vengono citati i principi del best interest del minore e della prevalenza del rapporto affettivo sulla sua qualificazione giuridica data dall’ordinamento nazionale. In tal senso vengono citati i casi Moretti e Benedetti c. Italia e Paradiso e Campanelli c. Italia. E in tema di adozione del figlio del partner la sentenza Cedu X e altri contro Austria del 19.02.2013, in cui la Corte aveva ravvisato una violazione del principio di non discriminazione (art. 14 Cedu) in quanto aveva valutato sussistente una ingiustificata disparità di trattamento tra coppie di fatto eterosessuali e omosessuali nei confronti dell’adozione, essendo questa consentita solo in favore dei primi.
La breve analisi qui riportata, su una questione tanto spinosa e delicata, dà dimostrazione del fatto, che per quanto la Corte Costituzionale provi a intervenire al fine della delimitazione dei confini fra ordinamento interno e sovranazionale, Cedu nel caso di specie, questi saranno sempre confusi e mobili fintanto che non intervengano altri attori della sfera istituzionale italiana.
Nelle sentenze citate i giudici comuni, e perfino la Corte di Cassazione, hanno del tutto ignorato gli insegnamenti della Sent. n. 49/2015 e di quelle precedenti. Non si rileva alcun riferimento alla distinzione fra orientamenti Cedu consolidati e non; di fronte a un – è evidente – insanabile contrasto interpretativo i giudici non hanno deferito la questione alla Corte Costituzionale, e addirittura, nel caso del Tribunale di Palermo, laddove sollecitati si sono rifiutati. Questo fa pensare che, mentre si pone attenzione a incentivare le forme di dialogo con le Corti Europee, il raccordo meno fecondo sia proprio fra i giudici comuni e, almeno nel caso italiano, Corte Costituzionale.
Ma le responsabilità, come già velatamente suggerito, non sono solo del potere giudiziario o della Corte Costituzionale.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso” si dice del resto in questi casi. Ed ecco che si arriva al punto nodale della questione. Norme poco chiare e di difficile interpretazione, lacune legislative, disposizioni a maglie larghe aprono fisiologicamente la strada all’intervento chiarificatore del giudice, anzi, in un certo modo sono proprio queste stesse a richiederlo. Troppe volte il legislatore si astiene dal decidere, troppo spesso le disposizioni che regolano settori sensibili e in continuo mutamento vengono rimesse a discipline vetuste e di certo non al passo con i tempi.
La certezza legalista, principio basilare dello Stato di diritto, viene così assediata verticalmente dalle spinte sovranazionali di Carte e Corti, orizzontalmente dall’attività creativa del giudice, la quale in alcuni casi si veste di necessarietà. Si tratterebbe in realtà di un trend positivo, attenzione, che non può che condurre a una crescita delle tutele, a una continua innovazione del diritto, in grado di seguire i tempi, ma a quali condizioni? Senza un apparato legislativo solido e chiaro, senza un potere giudiziario in grado di rispettare le prescrizioni della sua Corte Costituzionale, quale sarà il nostro ruolo in questo circolo virtuoso di evoluzione legislativa? Di fronte a questioni sensibili come quella oggetto di questa analisi, saremo in grado di sintetizzare e dominare l’innovazione e i mutamenti politico/sociali o passivamente saremo portati a subirli? Per il momento la Sent.n. 49/2015 non ha risposto positivamente alla “prova Stepchild adoption”, e, come dimostrato, finchè non vi sarà un cambio di rotta da parte del legislatore non si vedranno epiloghi differenti. Le istanze di tutela del singolo cercheranno sempre sfogo nella legislazione europea, e, per quanto la Corte Costituzionale possa tentare di porre delle regole e dei limiti, i piani saranno pur sempre in reciproca comunicazione, e, pertanto, finiranno, in un modo o nell’altro, per toccarsi e mescolarsi, specie se si pensa alla varietà di soluzioni che offre la tecnica dell’interpretazione conforme. Da un lato, questioni sensibili come quella ora riportata non possono che essere appannaggio dello Stato, dall’altro non è facile, né opportuno chiudere le porte all’ingresso dell’evoluzione giurisprudenziale europea. La palla dunque torna tra i piedi del legislatore, perché, in conclusione, anche se potrà sembrare banale, il segreto per non perdere le proprie prerogative, sta proprio nell’esercitarle.