“Dialogo” tra le Corti e tecniche decisorie, a tutela dei diritti fondamentali*

Sommario: 1. La opzione qui fatta per una delimitazione del campo di studio, ristretto alle sole tecniche decisorie di cui si avvale la giurisprudenza costituzionale sul versante dei rapporti tra diritto interno e CEDU, e le ragioni che vi stanno alla base. – 2.L’osservazione delle relazioni interordinamentali al piano (e con gli strumenti) della teoria dell’interpretazione, e gli esiti a questo (e tramite quelli) conseguibili, diversamente dagli esiti cui fa pervenire la teoria delle fonti. – 3. La tecnica decisoria secondo cui l’osservanza del diritto convenzionale va ristretta alla sola “sostanza” degli indirizzi interpretativi invalsi a Strasburgo, la ragione che la giustifica, gli effetti che potrebbero aversene ove dovesse farsene un uso non vigilato. – 4. La tecnica decisoria che induce alla ricerca della norma (o del sistema di norme) da cui discenda la più “intensa” tutela dei diritti in gioco e, più in genere, degli interessi bisognosi di giuridica protezione, e la conferma del carattere estremamente mobile e fluido delle relazioni interordinamentali che possono aversi per effetto della sua applicazione, in modi peraltro non coincidenti a seconda del contesto in cui l’applicazione stessa si abbia e dell’operatore che vi faccia luogo. – 5. Se il giudice costituzionale sia il solo chiamato a stabilire dove si situi la più “intensa” tutela ai diritti ovvero se di ciò possano (o, ancora, debbano) farsi carico, il più delle volte, i giudici comuni, muovendo dall’assunto che la “graduatoria” delle tutele non implica di necessità un’antinomia tra le norme (convenzionali e interne) che la danno. – 6.Due succinte notazioni al piano della teoria della Costituzione e della teoria delle relazioni interordinamentali, e le loro possibili implicazioni nella pratica giuridica. – 7. Legislatore e giudici uniti nel servizio da apprestare ai diritti.


1. La opzione qui fatta per una delimitazione del campo di studio, ristretto alle sole tecniche decisorie di cui si avvale la giurisprudenza costituzionale sul versante dei rapporti tra diritto interno e CEDU, e le ragioni che vi stanno alla base

Del “dialogo” tra le Corti, con specifico riguardo ai rapporti tra Corti europee e giudici nazionali (costituzionali e non)[1], si discorre animatamente da tempo; e il dibattito va crescendo a ritmi serrati, con esso però parimenti crescendo, per varietà di orientamenti e di esiti ricostruttivi, i modi d’intenderlo, al punto che lo stesso termine sembra ormai essersi caricato di una talmente estesa diversità di accezioni da rendersi assai problematico ed incerto il suo perdurante, fecondo utilizzo.
Non posso qui intrattenermi, come pure sarei tentato di fare, ad illustrare siffatta varietà di accezioni, cui mi riservo di far luogo in altro studio ad essa specificamente dedicato. Mi limito solo a mettere in chiaro la peculiare angolazione dalla quale torno a dire dei rapporti in parola, che – come si fa presente nel titolo dato a queste mie succinte notazioni – è quella delle tecniche decisorie, specie per il modo con cui se ne fa uso nella più recente giurisprudenza costituzionale.
La ragione della scelta è presto spiegata.
Per un verso, è di tutta evidenza il bisogno di circoscrivere il campo e in esso mettere a fuoco, in modo per quanto possibile appropriato, l’oggetto dello studio. È chiaro, infatti, che è assolutamente impossibile passare a setaccio l’intera giurisprudenza anche di una sola Corte (per non dire di tutte…) al fine di stabilire quale segno, ora più ed ora meno marcato, sia in essa lasciato dagli indirizzi di giudici diversi, e – naturalmente – viceversa: sia che si guardi alle sole pronunzie nelle quali è fatto espresso riferimento alle decisioni di altri giudici, che ormai non si contano più, e sia (e soprattutto) che, volendo ancora di più approfondire l’analisi, si tenti di stabilire, al di là di siffatti riferimenti, quale sia la misura dell’influenza culturale di cui un giudice risenta e sia debitore nei riguardi di altri (indagine, questa, estremamente scivolosa ed impegnativa, alla quale nondimeno prima o poi ci si dovrà dedicare, anche solo a circoscriverla ad un campo di esperienza dato). Non mancano, invero, studi egregi nei quali si tenta di fare il punto sul “dialogo” in discorso, specie nei campi – quale, ad es., la bioetica nel suo rapporto col diritto[2] – segnati dalle maggiori incertezze e tensioni, senza che tuttavia la prospettiva di osservazione qui privilegiata, seppure non in tutto trascurata, sia stata particolarmente coltivata e portata a frutto.
La riflessione che ora ci si avvia a svolgere non farà infatti capo ad alcun orientamento di merito prescelto sulla base di personali preferenze a discapito di altri. I cenni ad alcuni orientamenti non potranno in ogni caso mancare, avendosi a cuore di dare un minimo di concretezza allo studio; preme, tuttavia, qui fermare specificamente l’attenzione – come dicevo – sulle tecniche decisorie, dal momento che sono proprio queste ad accompagnare e sorreggere l’evoluzione degli orientamenti stessi. Trovo infatti assai interessante andare a scavare nel terreno nel quale allignano le soluzioni di merito man mano prospettate sulle più varie questioni (e, specificamente, per quel che qui particolarmente interessa, su quelle riguardanti i diritti fondamentali), nell’intento di cogliere le radici da cui esse si alimentano e traggono giustificazione.
D’altronde, è ormai provato che le soluzioni stesse sono legate a filo doppio alle tecniche decisorie poste in essere allo scopo di darne una efficace e persuasiva argomentazione. Le tecniche, nondimeno, manifestano la strutturale attitudine a proiettarsi oltre il caso che porta dapprima alla loro “invenzione” e, quindi, al loro ripetuto utilizzo. Esprimono pur sempre la vocazione – per dir così – ad “universalizzarsi” ed a riprodursi anche in campi materiali assai distanti da quello di origine.
Per questo verso, il legame suddetto sembra non essere inscindibile e biunivoco, non corrispondendo sempre ed in modo meccanico a certe soluzioni di merito certe tecniche decisorie, le seconde prestandosi a varie applicazioni ed a sostegno di soluzioni parimenti varie.
Le tecniche, poi, hanno l’attitudine a giustificarsi da se medesime: in un certo senso, potrebbe dirsi, allo stesso modo con cui si affermano e consolidano le consuetudini. Manifestate la prima volta, a un certo punto del loro reiterato utilizzo[3] si forma e diffonde il convincimento che esse abbiano un fondamento normativo che ne autorizza ovvero impone l’adozione, al punto che dopo le loro iniziali applicazioni non si avverte più il bisogno di enunciare le ragioni che le giustificano. D’altronde, è risaputo che specialmente le Corti costituzionali (qualifica che qui nuovamente intendo in senso materiale, siccome riferita alle stesse Corti europee a motivo della loro vocazione, in modo crescente testimoniata, a “costituzionalizzarsi[4]) si sono da se medesime dotate di un armamentario al quale fanno variamente, pur se non sempre uniformemente[5], ricorso per la soluzione delle questioni che sono loro man mano poste.
L’opzione volta a delimitare il campo ai soli rapporti tra le Corti costituzionali (nella larga accezione sopra indicata) è fatta in modo sofferto ma ha una sua giustificazione che richiede di essere subito enunciata. Se, infatti, si guarda ai rapporti in parola dall’angolo visuale delle Corti europee (prospettiva, questa, della quale lo studio non può in alcun caso o modo fare a meno), è doveroso ammettere che le Corti nazionali che hanno una maggiore visibilità e la cui giurisprudenza può dunque essere tenuta in conto fuori delle mura domestiche sono proprio quelle costituzionali, mentre gli indirizzi dei giudici comuni sono – ahimè – non di rado condannati a restare sommersi (alle volte – si riconosca – persino in ambito nazionale scarsamente conosciuti e portati a frutto). Ho sempre pensato che, proprio come in un iceberg, quella nascosta dalle acque sia la parte più consistente, che sorregge la punta e la rende visibile anche a distanza. D’altro canto, gli indirizzi in parola, specie negli ordinamenti nei quali si ritiene non sussistere il vincolo del precedente e si assiste ad un’articolazione interna particolarmente estesa e varia della giurisprudenza, si dispongono a ventaglio, svolgendosi in direzioni plurime, sì da rendersi estremamente disagevole ripercorrere il cammino da essi fatto ed illustrarne le tappe più salienti ed espressive.
Anche l’opzione operata a beneficio della Corte costituzionale, alla luce della cui giurisprudenza si riconsidereranno i rapporti che essa intrattiene con le Corti europee, richiede di essere sinteticamente chiarita. E invero è proprio dalla giurisprudenza stessa che – piaccia o no – dipende principalmente (seppur non esclusivamente[6]) la configurazione del ruolo esercitato in ambito interno dalle Corti suddette.
D’altro canto, chi voglia stabilire fin dove possono spingersi e dove invece sono costretti ad arrestarsi gli indirizzi delle Corti europee non può non far capo a ciò che è stato al riguardo deciso dal giudice delle leggi, non pure a ciò che le stesse Corti ritengono debba valere. Poi è pur vero – e il punto è di estrema delicatezza e di parimenti estremo rilievo – che i “terminali” della giurisprudenza del giudice costituzionale sono i giudici comuni (di qui, appunto, la sottolineatura del ruolo da essi giocato nella complessiva messa a punto delle relazioni intergiu
risprudenziali[7]), presso i quali si ha modo di verificare la tenuta degli orientamenti della Corte costituzionale, la loro effettiva attitudine a farsi, per il tramite della loro ricezione nelle aule in cui si somministra la giustizia comune, “diritto vivente”. E non è inopportuno qui nuovamente segnalare lo straordinario interesse che presenterebbe uno studio organico, se non pure esaustivo, avente ad oggetto le decisioni dei giudici comuni, al fine di verificare fin dove la giurisprudenza costituzionale riceva un seguito fedele e, allo stesso tempo, fin dove la giurisprudenza delle Corti europee venga recepita alle condizioni al riguardo poste dal nostro giudice delle leggi ovvero sia direttamente raccolta senza filtri o limitazioni, anche dunque al costo di discostarsi dagli orientamenti della giurisprudenza costituzionale. Non escluderei che, persino inconsapevolmente, possano alle volte farsi applicazioni “correttive” (o, diciamo pure, distorsive) della giurisprudenza costituzionale (e magari – perché no? – della stessa giurisprudenza europea, congiuntamente ovvero disgiuntamente rispetto a quella).
Di qui un’ulteriore conseguenza che vale essa pure a caratterizzare lo studio che ora si avvia. Ed è che, volendosi principalmente (seppur non esclusivamente) far capo alla giurisprudenza costituzionale, l’attenzione ha da volgersi in primo luogo alle manifestazioni di questa che si hanno lungo il versante che porta a Strasburgo, piuttosto che a quello che conduce a Lussemburgo.
Anche questa opzione è presto spiegata, per una duplice ragione.
In primo luogo, diversamente dalla Corte dell’Unione, chiamata ad esercitare competenze plurime ed eterogenee (anche su questioni non di “tono” costituzionale), la Corte di Strasburgo appare essere quella che in modo più rimarcato presenta quel tratto della “costituzionalità” (in senso materiale), di cui un momento fa si diceva, se non altro per il fatto di essere chiamata a farsi comunque cura dei diritti fondamentali.
In secondo luogo, il nostro giudice delle leggi ha – come si sa – preso, ormai molti anni addietro, la decisione di scaricarsi della gran parte delle questioni di “comunitarietà-costituzionalità”, ritenendo che di esse debba farsi carico direttamente ed esclusivamente il giudice comune. È vero che non mancano i casi, a tutti noti, in cui resta ferma la cognizione del giudice delle leggi in merito alle questioni in parola. Perlomeno però laddove si possa (e, perciò, debba) far applicazione diretta del diritto “eurounitario” – come a me piace chiamarlo[8] – il giudice costituzionale si considera sgravato dell’onere di apprestare la soluzione delle questioni suddette[9]. Invece, come pure è assai noto, le questioni di “convenzionalità-costituzionalità” sono attratte nell’orbita della Consulta. La qual cosa, poi, fa sì che la giurisprudenza di quest’ultima in cui è fatto richiamo alla CEDU sia col tempo divenuta imponente e mostri anzi la tendenza a crescere sempre di più, mentre è assai più contenuta quella in cui si fa riferimento alla giurisprudenza della Corte dell’Unione, la quale peraltro non poche volte vive – per dir così – di luce riflessa, essendo richiamata unitamente a quella della Corte di Strasburgo ed in occasione della trattazione di questioni per la cui risoluzione l’orientamento di quest’ultima Corte è giudicato di specifico rilievo.
Il “dialogo” con la Corte di Strasburgo è dunque più fitto e continuo; e ciò dà modo al nostro giudice costituzionale di far sentire la propria voce con timbro più forte e netto proprio da questa Corte europea. Per fortuna, anche il canale con l’altra Corte europea è stato assai di recente allargato, avendo finalmente la Consulta deciso di avvalersi dello strumento del rinvio pregiudiziale anche nei giudizi in via incidentale, superando antiche remore, fatte oggetto di critica serrata da numerosa e sensibile dottrina[10]. Ciò nondimeno, si tratta, di tutta evidenza, di un canale che può essere solo sporadicamente percorso, se non altro a motivo del fatto, sopra segnalato, per cui le questioni di “comunitarietà” nella gran parte dei casi non pervengono alla Consulta.
Piuttosto, sarà da vedere se (e in che misura) anche i giudici comuni (e, segnatamente, quelli di ultima istanza) assumeranno l’iniziativa di interloquire direttamente con la Corte di Strasburgo, una volta che il protocollo 16, che offre loro questa opportunità, sarà portato a regime[11]; ed ancora sarà da vedere quale incidenza se ne potrà avere sul dialogo intercorrente tra la Corte costituzionale e la Corte europea. Ma su tutto ciò, com’è chiaro, al momento non possiamo dire altro.
Non è insomma un caso se le maggiori novità, al piano delle tecniche decisorie, si sono registrate proprio lungo il versante che porta dalla Consulta a Strasburgo. Ed è ad esse che, dunque, giova qui prestare specificamente attenzione.

 

2. L’osservazione delle relazioni interordinamentali al piano (e con gli strumenti) della teoria dell’interpretazione, e gli esiti a questo (e tramite quelli) conseguibili, diversamente dagli esiti cui fa pervenire la teoria delle fonti

L’attività dei giudici ha il tratto suo proprio identificante e più immediatamente e genuinamente espressivo al piano della interpretazione e dell’applicazione del diritto. Il “dialogo” tra le Corti è, dunque, in nuce confronto tra interpretazioni.
Il primo nodo teorico da sciogliere è se la natura delle fonti oggetto d’interpretazione, il posto da esse detenuto nel sistema e il regime al quale complessivamente soggiacciono lascino o no (e, se sì, in che misura) un segno nelle pratiche interpretative ed applicative. Viene infatti subito da pensare – ma si tratta, appunto, di verificare se sia ipotesi attendibile – che talune divergenze di orientamento delle Corti possano avere la radice della loro esistenza in un diverso modo complessivo d’intendere le fonti in campo e, segnatamente, nella tendenza, assai marcata e della quale si hanno ormai molte e convergenti testimonianze, manifestata da ciascuna Corte ad assegnare il primato alla fonte di cui esse sono istituzionalmente garanti rispetto ad altre fonti – per dir così – con essa “concorrenziali”.
In breve, si tratta di stabilire se la gerarchia delle fonti, per come ovviamente è ricostruita da questa o quella Corte, comporti, per ciò solo, una gerarchia delle interpretazioni.
Non è agevole rispondere a questa domanda; e, con ogni probabilità, dare una sola risposta, valevole per ogni caso, non costituirebbe una rappresentazione fedele della realtà né offrirebbe una ricostruzione adeguata del modello: insomma, parrebbe forzata tanto al piano dell’essere quanto a quello del dover essere.
Restando, come di consueto, al modo con cui le cose sono vedute dal nostro giudice delle leggi, sembra che quest’ultimo, per un verso (e, diciamo così, in via tendenziale), sia portato a ritenere che l’interpretazione debba disporsi docile a rimorchio della ricostruzione dell’ordine delle fonti, per come dallo stesso giudice operata; non a caso, è ripetutamente detto in giurisprudenza che l’interpretazione della legge comune debba orientarsi verso la (e “conformarsi” alla) interpretazione costituzionale, e non viceversa.
Quest’esito, tuttavia, non sembra valere sempre, la natura della fonte e i peculiari contenuti dalla stessa esibiti reagendo sui processi interpretativi e orientandone lo svolgimento in modo deviante dallo schema appena enunciato. Per ciò che specificamente riguarda questo studio, la circostanza per cui talune fonti hanno la funzione di dare il riconoscimento dei diritti fondamentali incide sulle vicende dell’interpretazione, comportando il superamento dell’inquadramento di formale fattura usualmente operato.
Al piano della teoria delle fonti, alla CEDU e al diritto dell’Unione europea non è assegnato lo stesso posto in ambito interno, l’una essendo – come si sa – qualificata quale fonte “subcostituzionale”, idonea sì a condizionare nella validità le leggi comuni ma in tutto e per tutto soggetta all’osservanza di qualsivoglia norma costituzionale; l’altro, di contro, essendo considerato di rango “paracostituzionale”, siccome obbligato a conformarsi ai soli principi fondamentali dell’ordinamento (i c.d. “controlimiti”).
Al piano della teoria dell’interpretazione, l’obbligo d’interpretazione delle leggi in senso conforme alle fonti suddette, predicato per entrambe[12], potrebbe portare ad esiti che parrebbero a prima vista essere addirittura rovesciati rispetto a quelli raggiunti all’altro piano.
Dovendo il diritto dell’Unione prestare ossequio ai principi fondamentali della Carta costituzionale, l’interpretazione di questi – a stare all’ordine di idee secondo cui la teoria dell’interpretazione è chiamata a muoversi a rimorchio della teoria delle fonti – dovrebbe porsi a parametro dell’interpretazione del diritto suddetto[13]. Questa conclusione, tuttavia, non è affatto scontata, pur rinvenendo la comune dottrina e la giurisprudenza corrente nei principi di base dell’ordinamento le norme apicali dell’ordinamento, sì da resistere – si dice – alla stessa eventualità della revisione costituzionale[14].
Ancora una volta, infatti, il trattamento riservato ai documenti normativi espressivi di diritti fondamentali sembra sottrarsi ai canoni generalmente valevoli per i documenti di natura diversa. In una ormai risalente (ma non per ciò invecchiata) pronunzia del giudice costituzionale, la n. 388 del 1999, trovasi l’importante affermazione secondo cui le Carte dei diritti e la Costituzione “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”: un’affermazione – si faccia caso – nella quale non si distingue tra principi fondamentali e “comuni” norme costituzionali, ed anzi parrebbe che anche i primi partecipino a siffatta “integrazione”, dal momento che il raffronto non può che avere ad oggetto enunciati omologhi, tali essendo appunto quelli delle Carte in genere che danno il riconoscimento dei diritti fondamentali.
Per l’aspetto ora in rilievo, la CEDU, la Carta di Nizza-Strasburgo e la Costituzione, pur diverse per estrazione e rango della fonte, partecipano ad uno stesso “gioco”, ad una sana competizione a chi ha di più e di meglio da offrire alle altre (a beneficio dei diritti), esercitando un’influenza culturale in ragione della “qualità” delle norme da essa esibite (e, perciò, in buona sostanza, della relativa giurisprudenza).
Non è dunque vero che l’influenza in parola risulti determinata da fattori di natura formale (se così fosse, infatti, il verso dovrebbe essere sempre e solo discendente, dalla Costituzione alle altre Carte[15]).
Per un altro verso, però, tutte tali Carte (Costituzione inclusa) parrebbero restare separate e quodammodo incomunicabili, la Corte costituzionale riconoscendo che ogni Carta vada interpretata a modo proprio e – per dir così – in casa propria. In particolare, riconosce che le Carte di origine esterna acquistano rilievo in ambito nazionale per il modo con cui sono intese e messe in atto dalle rispettive Corti, lasciando intendere dunque di voler fare un passo indietro davanti agli indirizzi interpretativi da esse posti in essere (sia pure alle condizioni e nei limiti che a breve si diranno). Altro discorso è che il “diritto vivente” di origine esterna possa quindi trovare ingresso e farsi valere davanti ai giudici nazionali; l’adattamento interpretativo, ad ogni buon conto, non parrebbe essere consentito. Non commento al momento la rigidità di quest’orientamento; prendo atto del fatto in sé, dal quale più avanti tenterò di trarre alcune conclusioni.
La verità è che occorre fare una scelta di campo, di piano al quale, metodicamente ancora prima che teoricamente, ambientare le relazioni interordinamentali (nel caso della CEDU, dovrebbe dirsi “intersistemiche”[16]). E il campo che qui si ritiene ancora una volta di prescegliere è proprio quello della interpretazione e delle norme quale esito di quest’ultima, non già quello delle fonti; è la scelta per la sostanza, non già per la forma, o – per essere più precisi – della sostanza siccome qualificata alla luce dei valori fondamentali dell’ordinamento, secondo quanto conviene la stessa giurisprudenza costituzionale (a partire dalla sent. del 1999, sopra richiamata), pur nel quadro di una ricostruzione teorica che esibisce scorie numerose e marcate, ad oggi invero non rimosse, di formale fattura.

 

3. La tecnica decisoria secondo cui l’osservanza del diritto convenzionale va ristretta alla sola “sostanza” degli indirizzi interpretativi invalsi a Strasburgo, la ragione che la giustifica, gli effetti che potrebbero aversene ove dovesse farsene un uso non vigilato

Il vero è che, al di là delle “coperture” offerte al diritto di origine esterna dalle norme costituzionali strumentali, specificamente volte a mettere ordine alle relazioni interordinamentali (o “intersistemiche”), e segnatamente dagli artt. 10, 11 e 117, I c., ciò che conta e pesa sulla bilancia in cui si pongono e confrontano gli esiti delle interpretazioni delle Carte è l’attitudine delle norme, quale che ne sia la provenienza o la “forza” della fonte che le produce, a dare appagamento ai diritti costituzionali ed alle loro crescenti pretese di affermazione. In ultima istanza, il punto naturale di riferimento è dato dai valori di libertà ed eguaglianza, la coppia assiologica fondamentale dalla cui mutua combinazione[17] in nuce dipende la salvaguardia della dignità della persona umana: un valore, a mia opinione, non bilanciabile[18] proprio perché – è stato felicemente detto da una sensibile dottrina – esso è in realtà la “bilancia”[19] su cui si dispongono i beni della vita bisognosi di appagamento o – piace a me dire – l’autentico valore “supercostituzionale” dell’ordinamento[20].
Anche (e soprattutto) dalla prospettiva ed al fine della salvaguardia dei valori fondamentali, si ha conferma di quanto poc’anzi si diceva a riguardo del fatto che è proprio la CEDU, per l’interpretazione “attualizzante” che ne dà e senza sosta rinnova la sua Corte, a porsi quale il riferimento culturale più significativo col quale il giudice costituzionale è chiamato, ormai pressoché quotidianamente, a confrontarsi. Non è a caso, d’altronde, che la stessa Carta di Nizza-Strasburgo, cui pure è assegnato quel rango “paracostituzionale” cui si faceva poc’anzi cenno, sia, nell’ordine suo proprio, riletta alla luce della CEDU[21]. Un rilievo, questo giocato dalla Convenzione nel vivo dell’esperienza, ovviamente destinato a crescere ulteriormente e quodammodo ad istituzionalizzarsi nel momento in cui dovesse aversi la prevista adesione ad essa dell’Unione[22].
Ora, sta proprio nella consapevolezza che la Consulta ha di doversi di continuo misurare in special modo con la Corte di Strasburgo che, negli sviluppi degli anni a noi più vicini della giurisprudenza costituzionale, si è prodotto lo sforzo per arginare – fin dove possibile – la pressione esercitata dal giudice europeo volta ad orientare verso la propria giurisprudenza quella dei giudici nazionali (anche costituzionali)[23].
Entra qui in campo quella che può, forse, considerarsi una delle più raffinate tra le tecniche decisorie messe a punto negli ultimi tempi dal nostro giudice costituzionale allo scopo di raggiungere e preservare un equilibrio complessivamente accettabile, onorevole, tra di sé e il giudice europeo, connotato peraltro da una strutturale mobilità e capacità di adattamento al variare delle circostanze e degli interessi in gioco.
Mi riferisco all’affermazione, ormai pressoché costantemente presente nella giurisprudenza a partire dalle seconde pronunzie “gemelle” del 2009, nn. 311 e 317[24], con la quale si precisa che, se per un verso l’interpretazione delle leggi va operata – fin dove possibile – in senso conforme a CEDU (oltre che a diritto “eurounitario” e, naturalmente, a Costituzione), per un altro verso – e il punto è rimarcato con una certa insistenza – il vincolo, per ciò che specificamente concerne l’osservanza del diritto convenzionale, resta circoscritto alla sola “sostanza” della giurisprudenza di Strasburgo[25].
Non è chiara la ragione per la quale siffatta delimitazione possa (e, forse, come si dirà a momenti, debba) valere nei riguardi della Convenzione, nel suo farsi “diritto vivente”, a fronte dell’integrale e scrupoloso ossequio che è invece da dare al diritto dell’Unione. Né si dica che essa si giustifica in considerazione del fatto che, a differenza di quest’ultimo (che, come si è rammentato, comunemente si considera tenuto a rispettare al momento del suo ingresso in ambito interno i soli “controlimiti”), la Convenzione sarebbe obbligata a conformarsi a qualsivoglia norma costituzionale. Una volta infatti acclarata siffatta conformità[26], non si capisce perchè mai la Convenzione, attraverso la mediazione assicurata dalla sua Corte, non debba fino in fondo valere, in considerazione della sua natura di fonte del diritto, come tale dotata di forza prescrittiva non diversa da quella che è propria di altre fonti ad essa omologhe e al pari di essa provviste di copertura costituzionale.
D’altro canto, la ragione di siffatta delimitazione neppure sembra di potersi rinvenire nel bisogno di mettere la Costituzione al riparo da ipotetiche sue violazioni da parte della Convenzione. Giusta infatti la premessa, fatta propria dalla Consulta, secondo cui la CEDU è comunque tenuta a rispettare la Carta costituzionale, parrebbe non esservi soluzione diversa da quelle che si pongono ai due corni estremi dell’alternativa seguente: o la Convenzione è rispettosa della Costituzione, ed allora, una volta che di ciò si abbia prova, l’interpretazione delle leggi non potrebbe che “conformarsi” alla Convenzione stessa in ogni sua parte; oppure siffatto rispetto non si ha, ed allora il vincolo dell’orientamento interpretativo verrebbe interamente meno: insomma, o tutto o niente, non – in ogni caso – la sola “sostanza”.
La via di mezzo, in realtà, sembra avere una sua duplice ragion d’essere, che si fa intravedere tra le pieghe della giurisprudenza costituzionale, avuto specifico riguardo alla posta in palio nelle circostanze in cui si è fatto richiamo della “sostanza” in parola. Per un verso, infatti, si tratta di mettere al riparo norme di diritto interno che, ad un rigoroso e compiuto raffronto con la CEDU, rischierebbero di entrare in conflitto con questa e, pertanto, di dover essere caducate; per un altro (e, forse, ancora più rilevante) verso, a quanto pare deve farsi di tutto per fugare, per quanto possibile, il rischio di pervenire (in prima battuta, nelle aule in cui si somministra la giustizia comune e, in seconda, presso la Consulta) ad esiti interpretativi tali da far temere non tanto la possibile violazione della Convenzione da parte delle leggi, quanto quella della Costituzione da parte della Convenzione. Puntando diritto a cogliere la sola “sostanza” della giurisprudenza europea, i giudici nazionali – per questa ipotesi interpretativa – verrebbero quodammodo legittimati a scartare ogni[27] indicazione offerta dalla giurisprudenza stessa che si riveli suscettibile di entrare in rotta di collisione con la Carta costituzionale (o, per andare al sodo, con la giurisprudenza costituzionale, per il cui tramite la Carta stessa si fa “diritto costituzionale vivente”). Ecco perché – si faceva notare poc’anzi – il riferimento alla “sostanza”, con ogni probabilità e perlomeno
in alcune circostanze, parrebbe dover (e non meramente poter) esser fatto.
Questa spiegazione, tuttavia, se ci si pensa, non persuade del tutto (di qui le formule dubitative sopra adoperate per descriverla). Perché se le cose stessero davvero così, dovrebbero pari pari valere anche al piano dei rapporti col diritto dell’Unione e la relativa giurisprudenza, ferma la diversa condizione giuridica e le forme del loro rilievo in ambito interno; anzi, a maggior titolo il canone della “sostanza” parrebbe valere in siffatto ambito di esperienza, trattandosi di far luogo ad operazioni “selettive” in vista del conseguimento dell’obiettivo di conciliare norme ed indirizzi giurisprudenziali dell’Unione coi principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale: il solo limite – come si è rammentato – cui le norme e gli indirizzi stessi vanno incontro al momento del loro ingresso in ambito nazionale.
In realtà, come si faceva poc’anzi notare, non è affatto casuale che il canone in parola sia venuto a formazione – tengo a sottolineare, per via pretoria e non già in forza di un’esplicita indicazione positiva in tal senso – al piano dei rapporti che il diritto interno intrattiene con la CEDU, non pure a quello dei rapporti col diritto “eurounitario”. Perché la vera ragione non è di ordine teorico, apprezzabile in sede di ricostruzione del modello positivo delle relazioni interordinamentali (o intersistemiche, che dir si voglia), bensì di ordine politico-istituzionale, riportandosi al bisogno della nostra Corte di smarcarsi (e, allo stesso tempo, di smarcare anche gli altri operatori di giustizia) da un pressing della Corte di Strasburgo alle volte davvero insopportabile. E, trattandosi di una giustificazione priva di appiglio positivo, se ne ha che essa potrebbe col tempo andare incontro a non secondari aggiustamenti e complessive messe a punto, assecondando nuove e ad oggi imprevedibili tendenze[28].
Sta di fatto che, al presente, la Consulta incoraggia, sì, i giudici comuni ad avviarsi verso Strasburgo, ma con passo – potrebbe dirsi con linguaggio musicale – andante ma non troppo.
Il punctum crucis della questione ora discussa sta tuttavia nel fatto che nessuna indicazione è dalla Corte data ai giudici comuni (ed a… se stessa) a riguardo del modo o dei modi con cui riconoscere la “sostanza” della giurisprudenza europea; forse, non si potrebbe neppure dare, restando rimesso siffatto riconoscimento all’autodeterminazione dei giudici, in relazione ai casi.
D’altro canto, com’è chiaro, il giudice costituzionale non ha alcuna convenienza ad irrigidire la propria giurisprudenza e, perciò, a darsi dei vincoli che potrebbero rivelarsi sconvenienti in talune circostanze[29].
Ovviamente, è da mettere in conto l’evenienza che, privi di un indirizzo sia pure di larga massima, i giudici possano far luogo a selezioni della giurisprudenza europea, in nome del canone della “sostanza”, che quindi risultino sgradite alla Corte costituzionale ovvero – ed è forse peggio… – alla Corte di Strasburgo. Solo che la prima Corte – come si sa – può dire la sua unicamente se a ciò richiesta dagli stessi giudici[30], a meno che non sia investita in sede di conflitto interorganico avente ad oggetto proprio atti giudiziari sospetti di aver violato la CEDU (ma è ipotesi di non facile riscontro), mentre la seconda Corte potrebbe essere adita da soggetti penalizzati da una decisione giudiziaria “anticonvenzionale” nel senso ora indicato.
Quel che, per chiudere sul punto, si fatica nondimeno a comprendere è – come si diceva – perché mai, ferma la premessa secondo cui s’ha da fare ogni sforzo possibile per riconciliare in via interpretativa i materiali normativi in campo, la tecnica decisoria che fa appello alla “sostanza” non possa (e debba) valere anche al piano dei rapporti tra legge e diritto “eurounitario” e persino – per strano che possa, a tutta prima, sembrare – tra legge e Costituzione, con specifico riguardo al caso, di cui si passa subito a dire, che, grazie ad una selezione siffatta, si renda possibile raggiungere la più intensa tutela, alle condizioni oggettive di contesto, dei diritti fondamentali.
Le notazioni che seguono si sforzano di ragionare attorno a questa ipotesi ricostruttiva.

 

4. La tecnica decisoria che induce alla ricerca della norma (o del sistema di norme) da cui discenda la più “intensa” tutela dei diritti in gioco e, più in genere, degli interessi bisognosi di giuridica protezione, e la conferma del carattere estremamente mobile e fluido delle relazioni interordinamentali che possono aversi per effetto della sua applicazione, in modi peraltro non coincidenti a seconda del contesto in cui l’applicazione stessa si abbia e dell’operatore che vi faccia luogo

Entra qui in gioco la seconda delle tecniche in discorso, quella che induce gli operatori (e, segnatamente, ancora una volta, in prima battuta i giudici comuni e, in seconda, la stessa Corte costituzionale) alla ricerca della norma (o, meglio, del sistema di norme) da cui possa discendere la più “intensa” tutela ai diritti in campo.
In realtà, per quanto la tecnica di cui si passa ora a dire sia tenuta distinta da quella dell’interpretazione conforme (entro il limite della “sostanza”), tutte prestandosi al piano teorico ad analisi separata, nel vivo dell’esperienza (e, perciò, a finalità operativa) fanno tutt’uno e vanno, pertanto, viste e colte nella loro essenza nel loro fare “sistema”.
La tecnica ora in esame ha avuto la sua più chiara esplicitazione nella sent. n. 317 del 2009, per quanto fosse in germe già presente nelle pronunzie “gemelle” del 2007 (e, segnatamente, nel pur laconico passaggio contenuto nella sent. n. 348 secondo cui, in presenza di antinomie tra CEDU e discipline legislative di diritto interno, l’obbligo della osservanza dell’art. 117, I c., può soggiacere a bilanciamento con altre norme costituzionali nei riguardi delle quali le discipline stesse si rivelino stare in posizione servente).
Nei suoi ulteriori svolgimenti, la giurisprudenza costituzionale ha quindi più volte precisato esser diverso il modo con cui si intende e pratica il criterio della “intensità” della tutela, rispettivamente presso la Corte di Strasburgo e la stessa Corte costituzionale (e, di riflesso, ad avviso di quest’ultimo, presso i giudici comuni)[31].
Il giudice europeo infatti – si dice[32] – guarda ai soli diritti di volta in volta in gioco e, dunque, alla salvaguardia che è ad essi assicurata, da un lato, dalla Convenzione e, dall’altro, dal diritto interno; il giudice costituzionale, di contro, si interroga a riguardo dell’intero sistema di beni della vita o interessi costituzionalmente protetti e, perciò, del sistema delle norme, rispettivamente interne ovvero convenzionali, dalle quali quei beni o interessi ricevono protezione.
Ancora una volta, grazie al riferimento al “sistema”, il giudice costituzionale rende estremamente mobili e fluide le relazioni tra CEDU e diritto interno (e, per ciò pure, tra se stesso e la Corte di Strasburgo), aprendo a tutto campo il ventaglio delle soluzioni astrattamente possibili in relazione agli interessi di volta in volta in gioco ed alle loro parimenti mobili e varie combinazioni e rendendo perciò imprevedibile la definizione di ciascun caso.
L’argomento che fa rimando al “sistema” appare, per l’aspetto teorico, assai solido, forse davvero insuperabile con argomenti diversi. È fuor di dubbio, tuttavia, che esso si presta ad usi strumentali, erigendo uno scudo protettivo formidabile a difesa degli indirizzi della Consulta che si trovino in rotta di collisione con quelli del giudice europeo. Persino laddove sia acclarata la violazione della Convenzione da parte di atti legislativi – dice la Corte costituzionale –, grazie al richiamo alle esigenze di “sistema” ed alle operazioni di bilanciamento funzionali al loro appagamento, si può assistere alla messa da canto della Convenzione stessa, obbligata a cedere il campo alle norme interne con essa incompatibili (si vedrà poi a breve se siffatte operazioni debbano aver luogo esclusivamente presso la Consulta ovvero se possano essere compiute anche o solo dai giudici comuni).
Tutela più “intensa” e confronto non tra singole norme bensì tra i “sistemi” di appartenenza sono dunque le due gambe che consentono al giudice costituzionale di mettersi in salvo davanti ad una “marcatura” troppo stringente del giudice europeo. Quest’ultimo, poi, a sua volta, non tiene un atteggiamento univoco nei suoi rapporti coi giudici nazionali, caratterizzati all’insegna della tattica (o della tecnica) dello stop and go, ora arretrando e mostrandosi ossequioso nei riguardi delle “tradizioni” nazionali e, perciò, salvaguardando il margine di apprezzamento degli Stati, ed ora invece spingendosi in avanti e chiamando gli operatori di diritto interno ad una puntuale e fedele esecuzione delle proprie decisioni (e gli esempi sarebbero, come pure è assai noto, numerosi sia in un senso che nell’altro).
Anche il nostro tribunale costituzionale fa invero utilizzo della tattica suddetta. Le due tecniche qui fatte oggetto di rapida osservazione presentano una strutturale flessibilità, che consente loro agilità di movenze in un contesto complessivo peraltro assai fluido e soggetto a frequenti, sensibili mutamenti.
Tra i molti altri che potrebbero essere richiamati, rammento qui il solo caso delle leggi d’interpretazione autentica, tendenzialmente viste con sfavore a Strasburgo (salvo che la loro adozione non trovi giustificazione in “imperativi motivi d’interesse pubblico”), specie per l’aspetto della intollerabile interferenza dell’intervento legislativo nei riguardi dell’amministrazione della giustizia, e invece tendenzialmente ammesse dal giudice costituzionale, che annovera tra i “motivi” in parola quello della certezza del diritto[33]. In realtà, sia l’una che l’altra Corte ora aprono ed ora chiudono le porte all’adozione delle leggi in discorso; diverso è, però, come si è appena veduto, il modo con cui stanno in reciproco rapporto regola ed eccezioni. Per ciò che specificamente riguarda il nostro giudice, dietro il via libera dato agli atti in discorso sembra stare la preoccupazione per i risvolti di ordine economico-finanziario che potrebbero aversi in caso contrario[34], secondo quanto ad es. dimostra in modo lampante la vicenda dei lavoratori ATA[35], una preoccupazione di cui perlopiù non ritiene di doversi fare carico il giudice europeo[36].
Più in genere, la Consulta alle volte dà l’impressione di voler anteporre alla salvaguardia dei diritti fondamentali la tenuta dei conti pubblici, tant’è che, laddove questi ultimi non siano in gioco, perlopiù non esita a dar seguito alle indicazioni che vengono da Strasburgo.
Al di là di come si vedano le cose nei singoli casi, deve far seriamente riflettere quest’uso – mi è venuto di dire in altri luoghi – “a scomparsa” della dignità della persona umana, che ora c’è ed ora è invece obbligata ad arretrare a fronte di altri beni o interessi pur meritevoli della massima considerazione.
Rimandando per maggiori ragguagli al riguardo ad altri luoghi di riflessione scientifica, su due soli punti vorrei, in relazione alla tecnica ora trattata, soffermarmi ancora per un momento.
Il primo è che anche il criterio della tutela più “intensa”, al pari – come s’è veduto – di quello della “sostanza”, se vale – come vale –, non può non riferirsi anche ai rapporti col diritto dell’Unione[37], al di là del diverso regime complessivo per esso stabilito rispetto a quello assegnato in ambito interno alla Convenzione. Sta proprio qui – lo dico di sfuggita, anche per non ripetere cose già più volte dette[38] – la ragione per cui i c.d. “controlimiti” non possono per sistema essere opposti all’ingresso in ambito interno del diritto dell’Unione, dovendosi
ogni volta stabilire quale sia il precetto normativo o l’insieme di precetti idoneo a fissare più in alto il punto di sintesi tra i valori in campo, non escludendosi dunque in partenza che persino una norma costituzionale espressiva di un principio fondamentale possa trovarsi a dover recedere laddove dal diritto sovranazionale venga un’ancòra più adeguata tutela della coppia assiologica fondamentale, costituita – come si diceva – da libertà ed eguaglianza (e, ancora più a fondo, dignità).
D’altro canto, a riprova del fatto che il canone della tutela più “intensa” può prestarsi ad usi assai diversi, in applicazione di sue accezioni parimenti diverse, è sufficiente qui richiamare un caso recente che ha fatto molto discutere, quello Melloni, che ha portato ad una sensibile divaricazione di posizioni tra il tribunale costituzionale spagnolo, che non ha taciuto il proprio orientamento nel prospettare la domanda di rinvio pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia, e quest’ultima, che non ha esitato a schierarsi dalla parte del diritto “eurounitario” (e del suo primato), ancorché a mia opinione inteso in modo parziale e, a conti fatti, forzoso.
Qui, si ha una delle più vistose ed espressive testimonianze della tendenza, che – ahimè – sovente accomuna tutte le Corti, a falsare la ponderazione dei beni della vita per come salvaguardati dalle norme di questo o quell’ordinamento poste a reciproco confronto; la tendenza, insomma, a dare sempre e comunque la precedenza all’ordinamento di appartenenza, nell’assunto che in esso in ogni caso si situi la più “intensa” tutela. Con la Melloni il giudice dell’Unione dà mostra di non sapere o voler resistere all’impulso irrefrenabile di mettere al riparo la disciplina normativa dell’Unione stessa dalla eventualità del suo accantonamento sol perché in ambito nazionale la salvaguardia del diritto in gioco si considera essere maggiormente avanzata. Il punto è, però, che è lo stesso ordinamento “eurounitario”, in uno dei suoi principi fondamentali, di cui all’art. 4 del trattato di Lisbona, a volersi aprire agli ordinamenti degli Stati membri ed a far salvi i principi di struttura di questi ultimi[39]; ed è singolare – tale, perlomeno, ai miei occhi appare – la circostanza per cui del disposto normativo in parola non si faccia menzione alcuna nella risposta data dalla Corte di Lussemburgo al quesito postole dal giudice spagnolo.
Ora, non siamo ovviamente chiamati in questa sede ad approfondire il caso, verificando se nel merito la decisione adottata a Lussemburgo possa essere, o no, condivisa[40]. Nel metodo, però, il rilievo sopra avanzato circa il carattere parziale della prospettiva da cui la questione è stata vista è indicativo del fatto che la ricerca della norma o del sistema di norme da cui possa discendere la miglior tutela appare non di rado viziata in partenza, a motivo delle incrostazioni che l’avvolgono e ne condizionano il lineare svolgimento, riconducibili ad una sorta di “nazionalismo” o “patriottismo costituzionale” esasperato ormai seccamente respinto sia dal contesto politico-istituzionale che dai dati positivi vigenti[41]. Un “nazionalismo” che – se ci si pensa – non soltanto inquina la “leale cooperazione” tra le Corti ma – di più (e proprio per ciò) – incide pesantemente sulla salvaguardia dei beni della vita costituzionalmente protetti. E questo vale – è appena il caso qui di rimarcare – tanto quand’è la Corte sovranazionale a difendere a spada tratta l’ordinamento di appartenenza (e il suo incondizionato primato), quanto allorché siffatto atteggiamento, frutto di un preorientamento assiologicamente infondato, si riscontra in capo ad un giudice nazionale (e, segnatamente, al giudice delle leggi).
Il secondo punto sul quale vorrei rapidamente intrattenermi, dopo le cose appena dette, può esser sbrigativamente trattato. Ed è questo. Il criterio della tutela più “intensa” la nostra Corte lo spende – diciamo con franchezza – pro domo sua; nulla, però, può in partenza escludere che esso possa, perlomeno in qualche caso, valere a giustificazione della prevalenza del diritto convenzionale (e, in genere, del diritto di origine esterna, anche “eurounitario” dunque) rispetto allo stesso diritto costituzionale, per quanto la soluzione ideale, fin dove possibile da preferire, sia sempre quella conciliante, che riesce a comporre in unità i sistemi a confronto, pervenendo a loro sintesi armoniche al servizio dei diritti fondamentali. Il “sistema dei sistemi” – se così vogliamo chiamarlo[42] – è infatti quello che risulta da una rete di norme “viventi”, frutto di elaborazione giurisprudenziale, che si danno sostegno a vicenda, indipendentemente dalla loro origine o forma, e concorrono alla edificazione di una costruzione unitaria che, nella sua stessa struttura costitutiva, si rinnova incessantemente secondo le esigenze dei casi[43].

 

5. Se il giudice costituzionale sia il solo chiamato a stabilire dove si situi la più “intensa” tutela ai diritti ovvero se di ciò possano (o, ancora, debbano) farsi carico, il più delle volte, i giudici comuni, muovendo dall’assunto che la “graduatoria” delle tutele non implica di necessità un’antinomia tra le norme (convenzionali e interne) che la danno

Definire, sia pure in modo sommario, una tecnica, per ciò che essa è e quale operativamente appare, non equivale ancora a dire che essa sia appieno rispondente a modello, specie negli ingranaggi che presiedono alla sua messa in atto.
Si è infatti, ancora da ultimo, veduto come il nostro giudice costituzionale utilizza il canone della tutela più “intensa”. Dobbiamo ora fare ancora un passo avanti (o, forse, indietro…) e chiederci se il giudice stesso aveva (ed ha) titolo per farne un siffatto utilizzo.
Non escludo infatti che esso, in molti casi, possa (e debba) esser fatto ma non, appunto, sempre, per sistema, così come invece opina la nostra Corte.
Tento di spiegarmi. La Consulta, nel momento in cui si interroga a riguardo della norma (o del sistema di norme) in cui sta la più adeguata tutela sembra metodicamente muovere dall’idea che la risposta giusta offra ogni volta una soluzione ad una (presunta) antinomia. La “logica” è, insomma, di natura conflittuale, altrimenti non si spiegherebbe la ragione stessa dell’intervento del giudice costituzionale, che è giudice delle (potenziali) antinomie al grado più elevato di positività giuridica. Se infatti nessun conflitto dovesse aversi tra CEDU e legge o Costituzione, perché mai – a stare all’ordine di idee fatto proprio dalla stessa Corte –il giudice dovrebbe rivolgersi a quest’ultima?
Qui tuttavia il ragionamento svolto alla Consulta non sembra invero essere del tutto limpido e lineare. Perché, per un verso, mentre si è in concreto ammessa l’eventualità del conflitto di norma convenzionale con norma di legge, si è fin qui esclusa l’eventualità che lo stesso si abbia tra l’una norma e norme costituzionali, mai essendosi ad oggi assistito alla caducazione della prima ovvero alla dichiarazione della sua inidoneità ad integrare il parametro costituzionale. Per un altro verso, però, l’ordine di idee nel quale – come si diceva – si è disposto il giudice costituzionale è di tipo potenzialmente conflittuale; altrimenti si sarebbe dovuto rilevare la inammissibilità (non già l’infondatezza) della questione.
Ora, senza escludere per un aprioristico convincimento che la “logica” suddetta possa a buon titolo essere fatta valere in una data esperienza processuale, a mia opinione il più delle volte il raffronto tra le norme non porta di necessità all’esito dello scontro. E, invero, ragionare su quale sia la norma in grado di offrire la più “intensa” tutela equivale, in non pochi casi, a chiedersi dove si collochi, lungo una stessa retta, la tutela stessa, quale norma cioè presenti l’attitudine a portarsi ancora più in alto dell’altra (o delle altre) e vicino ai valori di libertà ed eguaglianza, nel loro fare “sistema” coi valori fondamentali restanti. Una eventualità che a me pare non possa essere a priori scartata neppure al piano dei rapporti tra Costituzione e legge, specificamente nel caso che quest’ultima si faccia cura di assicurare una protezione ancora più accresciuta di quella risultante dalla prima a bisogni elementari dell’uomo intensamente e diffusamente avvertiti. Per ricorrere ad un’immagine di cui mi sono già altrove avvalso, insomma, è come se due treni, che la Consulta vede correre lungo uno stesso binario in opposta direzione, si portino avanti lungo binari paralleli ed a velocità diverse, sicché uno di essi riesce ad arrivare prima alla meta o più lontano.
Ma allora, se la logica non è (o non è sempre) quella del conflitto, perché mai – mi sono già ripetutamente chiesto – non dovrebbe radicarsi in capo ai giudici comuni la competenza alla “misurazione” del grado della tutela?
Ammettiamo però pure, senza tuttavia concedere, che, messa alle corde e malgrado le formidabili risorse argomentative apprestate dalle tecniche di cui si è qui discorso, la Consulta si trovi costretta a rilevare l’irriducibile antinomia tra Convenzione e Costituzione. Ebbene, debbo qui nuovamente ripetere quanto ho già avuto modo di far osservare in altre occasioni, vale a dire che l’esito del giudizio non è necessariamente quello cui il giudice costituzionale fa usualmente luogo e che lo stesso giudice ha dichiarato possibile proprio con riguardo alle antinomie in parola, traducendosi nell’annullamento della Convenzione (rectius, nella legge che vi dà esecuzione) “nella parte in cui…”. Una soluzione, questa, astrattamente prefigurata fino alla sent. n. 311 del 2009 ma da lì in avanti non più prospettata, essendosi limitata la Corte a rilevare di esser pronta a dichiarare, in una congiuntura (peraltro, giudicata remotissima…) quale quella ora presa in considerazione, la mera inidoneità della norma convenzionale ad integrare il parametro costituzionale, e perciò – mi è parso di poter dire[44] – la “irrilevanza” della norma stessa per la definizione del caso. Con il che la CEDU – se ci si pensa – viene ad essere “non applicata” nel singolo caso, non già sanzionata con effetti generali: esattamente così come potrebbero fare i giudici comuni, ove se ne desse loro l’opportunità.
Stando così le cose, parrebbe che la CEDU, per la sua peculiare natura e funzione, si sottragga alla regola valevole per tutte le fonti assoggettabili al giudizio di costituzionalità[45]. Ma se così è, è da chiedersi se convenga tener fermo quest’anomalo regime che vede preservata la cognizione della Corte per un verso e, per un altro verso, svolto il giudizio presso di questa nelle forme e con gli effetti propri dei giudizi comuni o non piuttosto giovi riportare questi casi alla sede propria di questi ultimi.
In realtà, a riguardo della efficacia generale ovvero particolare delle pronunzie concernenti la Convenzione come oggetto occorre intendersi. Perché laddove il sindacato è svolto dal giudice comune, l’efficacia della sentenza che lo conclude resta comunque circoscritta al caso, mentre i verdetti del giudice delle leggi esprimono una naturale attitudine alla loro “universalizzazione”, proiettandosi oltre le singole vicende processuali nel corso delle quali sono emessi.
Qui, per vero, si dovrebbe fare un lungo discorso a riguardo delle pronunzie di rigetto, usualmente considerate idonee ad esprimere un’efficacia solo inter partes. Al di là delle aporie di costruzione esibite da questa comune credenza[46], sta di fatto che la stessa Corte costituzionale tende a confermare l’esito di precedenti pronunzie reiettive laddove non siano aggiunti motivi nuovi o, ad esser più precisi, laddove non si abbia un diverso quadro normativo e/o fattuale, una diversa “situazione normativa”, come a me piace chiamarla, che giustifichi il mutamento di giurisprudenza. D’altro canto, la Corte non potrebbe dare quelle certezze di diritto costituzionale in senso oggettivo, che stanno a base della sua istituzione, ove le fosse consentito di mutare radicalmente avviso pur in presenza di un contesto normativo e fattuale immutato[47].
È interessante notare che questa vocazione alla “universalizzazione” è dalla Consulta riconosciuta altresì in capo alle pronunzie della Corte di Strasburgo, a conferma di quella tendenza alla “costituzionalizzazione” che connota le Corti europee, di cui poc’anzi si diceva.
Si rammenti al riguardo quanto si dice nella ord. n. 150 del 2012[48], con la quale le pronunzie della Corte di Strasburgo sono state quodammodo assimilate alle fonti del diritto, sic
come idonee a giustificare la restituzione degli atti ai giudici a quibus che avevano sollevato questioni di costituzionalità la cui rilevanza appariva bisognosa di essere riconsiderata per effetto di un sopravveniente verdetto emesso a Strasburgo: né più né meno di ciò che – come si sa – usualmente si ha in presenza dello ius superveniens. Ancora, si tenga a mente l’importante riconoscimento di recente fatto in sent. n. 210 del 2013[49] a beneficio delle decisioni-pilota del giudice europeo. Insomma, tutte spie – a me pare – di un’attitudine delle pronunzie emesse a Strasburgo a portarsi oltre il caso; e sarà assai interessante osservare quali ulteriori sviluppi di questa tendenza potranno aversi, una volta che siffatti riconoscimenti dovessero avere ulteriore seguito in forme nondimeno ad oggi non prevedibili.
Così stando le cose, è da chiedersi come vada considerata una pronunzia – specie (ma non solo) della Corte di Cassazione – che fedelmente recepisca e faccia propria un verdetto di questa o quella Corte europea[50]. Può dirsi dotata di una efficacia in tutto e per tutto “particolare”? È, al pari di ogni altro verdetto giudiziale, suscettibile di ripensamento (magari da parte dello stesso giudice in un altro caso) né più né meno di come si reputi essere usualmente? O non piuttosto, facendo da specchio in ambito interno ad una decisione del giudice europeo comunque bisognosa di essere osservata[51], è da ritenere che per ciò solo esprima vincoli ultra partes?
Dal loro canto, le pronunzie dei giudici europei, ove attingano in una effettiva e copiosa misura, alle “tradizioni costituzionali comuni”, possono dotarsi di un titolo idoneo a tradursi in una garanzia rafforzata di “seguito” giudiziale ad esse conforme in ambito interno, apprestando dunque le condizioni più adeguate al loro radicamento ed alla loro diffusione nelle pratiche giudiziali nell’ambito stesso adottate.
Il “dialogo” intergiurisprudenziale – come si vede –, laddove si traduca in una convergenza e talora in una vera e propria immedesimazione di indirizzi, può rafforzare le pronunzie che ne sono espressione, a doppio verso di marcia.

 

6. Due succinte notazioni al piano della teoria della Costituzione e della teoria delle relazioni interordinamentali, e le loro possibili implicazioni nella pratica giuridica

Due soli punti restano rapidamente da toccare prima di tirare le fila del ragionamento svolto; e presentano entrambi straordinario interesse teorico, dal momento che – come si tenterà di mostrare – finiscono col riguardare in nuce la stessa teoria della Costituzione e la teoria delle relazioni interordinamentali.
Ovviamente, si tratta di questioni che si portano molto oltre il campo materiale qui specificamente coltivato e che, dunque, richiederebbero studi di ben altra portata rispetto a quello, dal limitato orizzonte culturale, che racchiude la riflessione che sta per chiudersi. Un cenno, tuttavia, in attesa di ulteriori approfondimenti, mi parrebbe comunque opportuno.
Il primo punto.
È fuor di dubbio che, come già si avvertiva nelle notazioni iniziali di questo studio, l’osservazione delle relazioni fra norme (e ordinamenti) rimanda alla previa opzione per l’angolo visuale dal quale essa si svolge; di modo che la questione della “intensità” della tutela – per restare al tema qui di specifico interesse – può, a buon titolo, diversamente porsi e risolversi a seconda che si adotti un punto di vista interno ovvero uno esterno.
Per noi, è fuor di dubbio che si debba dalla Costituzione partire ed alla Costituzione pur sempre tornare; ma la legge fondamentale della Repubblica va vista – come la stessa giurisprudenza, con opportuna insistenza, tiene a rimarcare – nel suo essere “sistema”, anzi: nel suo fare “sistema”, un sistema che si rinnova senza sosta a motivo della varietà dei casi e delle mobili combinazioni secondo valore da essi richiesti e che – qui è il punctum crucis – si rigenera parimenti senza sosta, facendosi fecondare dai materiali, normativi e soprattutto giurisprudenziali, che vengono ab extra (per ciò che ora più importa, dalla CEDU). La Costituzione, insomma, com’è stato felicemente detto da una sensibile dottrina[52], più che un atto è un processo; aggiungerei: un processo che non si perfeziona e coglie nella sua essenza ove si muova da una visione – come dire? – “curtense” della Costituzione e dell’intero ordinamento che su di essa si fonda. Di contro, la Costituzione non ha, in punto di principio, confini, dal momento che si apre al diritto internazionale e sovranazionale, seppure – si è tenuto a precisare – non incondizionatamente, accogliendo nel proprio seno e quodammodo metabolizzando i soli materiali offerti da altri documenti normativi ed esperienze giudiziali che si dimostrino in grado di servire ancora meglio la coppia assiologica fondamentale di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità).
Ora, i valori in parola possono caricarsi di sempre nuovi o rinnovati significati ed esprimere inusuali, complessive valenze. A questo fine, il “dialogo” intergiurisprudenziale, se opportunamente utilizzato, può rivelarsi uno strumento prezioso perché possano darsi le ottimali risposte di giustizia, alle pur difficili (e talora proibitive) condizioni obiettive di contesto.
Condicio sine qua non affinché questo avvenga è, tuttavia, la dismissione di un habitus mentale inveterato e purtroppo ancora assai diffuso che porta naturalmente molti operatori, in ambito sia interno che esterno, a chiudersi a riccio in se stessi, non riconoscendo che ordinamenti diversi da quello di appartenenza possano offrire materiali normativi e giurisprudenziali idonei ad innalzare il livello della tutela dei diritti ed a consentire perciò di dare una risposta alle domande di giustizia non poche volte maggiormente appagante di quella che potrebbe aversi facendo ricorso ai soli materiali disponibili presso il proprio ordinamento. Si tratta di un atteggiamento sterile ed anzi dannoso che – contrariamente alle intenzioni di chi lo tiene – non giova all’affermazione dell’ordinamento stesso, che è anzi penalizzato proprio nel suo essere “sistema”, in conseguenza del fatto che è messo da parte uno dei suoi principi fondanti, quello dell’apertura verso l’altro. Un rilievo, questo, che non vale solo per i giudici nazionali (e, segnatamente, per il giudice delle leggi), a motivo della esistenza del principio di cui agli artt. 10 ed 11 (e 117) cost., ma vale anche per le Corti europee, sol che si consideri che le Carte di cui esse sono garanti espressamente ritagliano – come si è rammentato – per sé un ruolo “sussidiario” rispetto a quello esercitato dagli operatori nazionali, con specifico riferimento ai casi in cui la tutela da questi ultimi apprestata si riveli complessivamente meno “intensa”.
Le Carte o, il che è praticamente lo stesso, le Corti – è questo il punto che qui pure mi sta particolarmente a cuore rimarcare – si esaltano nel momento stesso in cui si umiliano, riconoscendosi come “Carte-parziali”, non già “Carte-totali”, che dicono sempre tutto su tutto e lo dicono al meglio. La mancanza di umiltà, di contro, si ritorce contro se stessa, perché non di rado, a conti fatti, non consente l’ottimale realizzazione dei principi di libertà ed eguaglianza: un costo – non si perda mai di vista – che viene pagato sulla pelle degli esseri umani, specie di quelli più deboli ed esposti.
Il secondo punto concerne una vicenda di dimensioni amplissime e da tempo in corso, fatta oggetto delle più varie notazioni, alla quale – come promesso – riservo qui unicamente un cenno. Ed è che il “dialogo” intergiurisprudenziale può essere visto, a un tempo, come causa ed effetto del corposo ravvicinamento in atto tra common e civil law.
Diversi indici (due in particolare) avvalorano questa indicazione, peraltro espressiva di una generale tendenza delle relazioni interordinamentali.
Il primo è il rilievo in sé e per sé del c.d. “diritto giurisprudenziale” a fronte del c.d. “diritto politico” (o, per dir meglio[53], “legislativo”)[54]. In un contesto segnato da forti ritardi ed evidenti e gravi carenze manifestati dal legislatore nel farsi carico di una efficace tutela dei diritti fondamentali (non solo dei “nuovi”, specie di quelli maggiormente legati allo sviluppo scientifico e tecnologico, ma anche dei vecchi, essi pure bisognosi di rinnovate regolazioni al passo coi tempi), l’emersione dei giudici quali operatori istituzionali specificamente preposti ad offrire, pur nei limiti del ruolo che è loro proprio, la tutela stessa concorre in rilevante misura alla convergenza dei modelli, con una evidente propensione del civil ad orientarsi verso il common law, piuttosto che viceversa.
Il secondo indice è dato da quel riconoscimento come verum ius altresì del diritto giurisprudenziale operato dalla Corte di Strasburgo, cui si è sopra fatto cenno. È un importante riconoscimento, si è già detto, ma è solo un primo passo bisognoso di essere seguito da molti altri. E non si può qui far passare sotto silenzio il fatto che la Corte costituzionale sembra ancora oggi legata a vecchi schemi qualificatori che, a mia opinione, non avranno vita né lunga né quieta, quale quello che, in modo secco, distingue il diritto giurisprudenziale rispetto al diritto legislativo[55].
Ora, seppure questa distinzione (che, per taluno, è vera e propria contrapposizione) possa “tenere” (ancorché con affanno…) laddove si mettano a confronto pratiche giuridiche di diritto interno, di certo non ce la fa più a “tenere” – come si è tentato di mostrare – con riguardo alle espressioni “costituzionali”[56] della giurisprudenza, sia interna che europea.
7. Legislatore e giudici uniti nel servizio da apprestare ai diritti

Concludendo. La nota saliente, allo stato attuale dello sviluppo dei rapporti intergiurisprudenziali (segnatamente lungo il versante che collega il nostro giudice costituzionale alla Corte di Strasburgo), sembra essere data dalla flessibilizzazione dei rapporti stessi: un esito, questo, al quale conduce tanto l’indirizzo impresso ai rapporti stessi dal giudice delle leggi quanto quello manifestato dal giudice europeo. Vuoi circoscrivendo alla sola “sostanza” della giurisprudenza europea l’obbligo di vincolo fatto alle interpretazioni delle leggi conformi a Convenzione, vuoi ricorrendo all’idea di “sistema” e vuoi pure ricercando dove si appunta la più “intensa” tutela ai diritti (e, in genere, ai beni della vita) in gioco, il punto di equilibrio in cui trova posto l’ottimale bilanciamento richiesto dal caso appare essere estremamente mobile e con esso parimenti mobile l’equilibrio che di volta in volta si intrattiene tra le Carte di cui le Corti sono istituzionalmente garanti.
Quel che, nondimeno, è certo è che la flessibilità in parola concorre, per la sua parte, a rimarcare ulteriormente il ruolo di centralità dei giudici, di tutti i giudici, comuni e costituzionali (in senso materiale), a fronte del ruolo, condannato a restare sullo sfondo, del legislatore, se non altro per la elementare ragione che quest’ultimo esibisce, nelle sue concrete manifestazioni, una rigidità (o, quanto meno, una minore flessibilità) di movenze di quelle che connotano il quotidiano operare dei giudici.
Il legislatore non può, ad ogni buon conto, considerarsi sgravato dell’onere di fare tutta quanta la parte, di certo di non secondario rilievo, che gli compete. In altri luoghi[57] ho molto insistito sul bisogno, di vitale rilievo, di un recupero fattivo e costruttivo del ruolo del legislatore, specie per ciò che concerne il riconoscimento dei “nuovi” diritti fondamentali. Una disciplina, quella offerta dalle leggi, che nondimeno – per come qui son viste le cose – dovrebbe essa pure, fin dove possibile, connotarsi per una tangibile duttilità strutturale, dalle leggi attendendosi la produzione di norme di principio, che offrano un pugno di indicazioni essenziali, idonee a tracciare il solco entro il quale può impiantarsi e svolgersi il “diritto vivente”, per quindi rimettersi a soluzioni non meramente applicative bensì attuative e, se del caso, integrative dei giudici[58], che dalle leggi stesse ricevano perciò la “delega” per quelle operazioni di bilanciamento in concreto degli interessi meritevoli di tutela che solo nelle sedi giudiziali e in ragione dei casi possono essere a modo fatte.
Un sano modello di relazioni interistituzionali – per come ai miei occhi appare – è quello che vede rafforzato il ruolo del legislatore, per il fatto che esso entra in campo e non irrigidisce le discipline poste a presidio dei diritti, e parimenti rafforzato il ruolo dei giudici (ripeto: di tutti i giudici) senza il cui quotidiano servizio apprestato ai diritti stessi questi ultimi non potrebbero, in alcun caso o modo, trovare appagamento.
Una coraggiosa ma oculata produzione legislativa, così come un parimenti oculato “dialogo” intergiurisprudenziale, è la condicio sine qua non perché siffatto servizio, da aspirazione qual è, si commuti in realtà complessivamente apprezzabile.
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* Relazione al III Workshop di Diritto europeo ed internazionale, organizzato da Area Europa, Genova 15-16 novembre 2013.

[1] Non fanno nondimeno difetto anche studi a più largo raggio, che si propongono di verificare forme ed intensità del “dialogo” con Corti non europee (di recente, T. Groppi – A.M. Lecis Cocco-Ortu, Le citazioni reciproche tra la Corte europea e la Corte interamericana dei diritti dell’uomo: dall’influenza al dialogo?, in www.federalismi.it, 19/2013).

[2] Tra gli altri, segnalo qui particolarmente i contributi di S. Agosta, Bioetica e Costituzione, I, Le scelte esistenziali di inizio-vita, e II, Le scelte esistenziali di fine-vita, Giuffrè, Milano 2012, ma v. pure, utilmente, R. Conti, Le scelte morali e i diritti delle persone: il ruolo del giudice e del legislatore, relaz. all’incontro su La giustizia davanti ai temi eticamente sensibili, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Roma 25-27 settembre, in paper; P. Veronesi, Costituzione e bioetica, in AA.VV., Per una consapevole cultura costituzionale. Lezioni magistrali, a cura di A. Pugiotto, Jovene, Napoli 2013, 67 ss.; G. Repetto, Non di sola CEDU …”. La fecondazione assistita e il diritto alla salute in Italia e in Europa, in corso di stampa in Dir. pubbl.

[3] Per la verità, non s’è mai capito come stabilire senza soverchie incertezze il momento in cui sorge l’opinio ed a mezzo di quali indici essa si renda palese. Con ogni probabilità, la risposta può variare in ragione dei campi materiali e dei contenuti delle regole in parola. Non è, ad ogni buon conto, di tutto ciò che dobbiamo oggi discorrere né, prima ancora, dobbiamo dire se l’esistenza stessa dei canoni consuetudinari, che un’accreditata dottrina è portata ad escludere con specifico riguardo al piano costituzionale (R. Bin, L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Giuffrè, Milano 1996, 38 ss.), possa dirsi ormai provata (ragguagli possono, volendo, aversi dal mio Costituzione scritta e diritto costituzionale non scritto, Editoriale Scientifica, Napoli 2012).

[4] Su questa tendenza, richiamo qui solo (e per tutti) O. Pollicino, che ne ha fatto oggetto di studio ripetutamente e in modo approfondito: tra gli altri suoi scritti, v., part., Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Giuffrè, Milano 2010, nonché O. Pollicino – V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona,a cura di E. Faletti – V. Piccone, Aracne, Roma 2010, 125 ss. Dal mio canto, tra i contributi più recenti nei quali ho ripreso, con personali svolgimenti, questa indicazione teorica, può, volendo, vedersi il mio Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento “intercostituzionale”, in www.rivistaaic.it, 4/2013.

[5]Questo della uniformità negli usi concretamente fatti delle tecniche in discorso è un tasto dolente, toccato con opportuna insistenza dalla più sensibile dottrina (per tutti, R. Romboli, che ne ha ripetutamente discorso: tra gli altri suoi scritti, in Il diritto processuale costituzionale: una riflessione sul significato e sul valore delle regole processuali nel modello di giustizia costituzionale previsto e realizzato in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011, 2995 ss.), senza che nondimeno a conti fatti si riescano a sortire risultati sempre apprezzabili; eppure, proprio da qui dipende – se ci si pensa – lo stesso mantenimento della “giurisdizionalità” della funzione esercitata, sol che si consideri che, a differenza dei decisori politici (o politico-istituzionali), che possono a buon titolo dar vita col tempo ad atti fra di loro anche radicalmente antitetici per contenuti ed obiettivi (sempre che, nondimeno, sia fatta salva la loro intrinseca ed indisponibile ragionevolezza), i giudici – come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi – non possono fare altrettanto, ferme restando le condizioni oggettive di contesto (piace a me dire, la “situazione normativa”), venendo altrimenti meno al compito loro proprio di rendere prevedibili i loro verdetti e, con ciò, prestare il dovuto servigio alla certezza del diritto. Di qui si hanno, poi, conseguenze di non poco momento al piano della conformità ai precedenti, alle quali nondimeno non può farsi ora cenno alcuno e per le quali, con specifico riferimento al giudice delle leggi, può, volendo, vedersi il mio Il processo costituzionale come processo, dal punto di vista della teoria della Costituzione e nella prospettiva delle relazioni interordinamentali, inRiv. dir. cost., 2009, 125 ss., nonché in www.gruppodipisa.it, 28 dicembre 2010.

[6] È ovvio che anche i giudici comuni danno il loro concorso a siffatta, complessiva configurazione, delle loro sollecitazioni e suggestioni lo stesso giudice delle leggi tenendo variamente conto. È doveroso nondimeno riconoscere che il rilievo che la CEDU o il diritto dell’Unione possiedono in ambito interno in larga misura si deve proprio agli indirizzi al riguardo maturati presso la Consulta.

[7] Numerosi ed approfonditi sono, in particolare, gli studi dedicati da R. Conti al ruolo giocato dai giudici comuni, specie per ciò che concerne l’implementazione della CEDU in ambito interno (richiamo qui solo il suo noto saggio monografico su La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Aracne, Roma 2011, in aggiunta a CEDU, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, a cura diR. Cosio e R. Foglia, Giuffrè, Milano 2013, 166 ss., e, infine, a Le scelte morali, cit.). Da una prospettiva di più largo raggio, v., inoltre, utilmente, AA.VV., IL ruolo del giudice nel rapporto tra i poteri, a cura di G. Chiodi e D. Pulitanò, Giuffrè, Milano 2013 ed E. Ceccherini, L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice,in Dir. pubbl. comp. ed eur., II/2013, 467 ss.

[8] D’altronde, il termine – per ciò che più importa – ricorre più volte anche nel linguaggio di una crescente dottrina e giurisprudenza (v., ad es., i riferimenti a pronunzie della Cassazione in cui esso è presente che sono nella recentissima ord. della stessa Corte, sez. trib. civ., del 7 novembre 2013, n. 25035, punto 58).

[9] … a meno che, ovviamente, norme dell’Unione, pur astrattamente provviste dell’attitudine all’immediata applicazione, non siano sospette di violare i “controlimiti” ovvero siano urtate da leggi impugnate davanti alla Corte costituzionale col procedimento in via d’azione.

[10] Ord. n. 207 del 2013 e, su di essa, tra gli altri, i commenti di U. Adamo, Nel dialogo con la Corte di giustizia la Corte costituzionale è un organo giurisdizionale nazionale anche nel giudicio in via incidentale. Note a caldo sull’ord. n. 207/2013, in www.forumcostituzionale.it, 24 luglio 2013, pure ivi, B. Guastaferro, La Corte costituzionale ed il primo rinvio pregiudiziale in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale: riflessioni sull’ordinanza n. 207 del 2013, 21 ottobre 2013, nonché V. De Michele, L’ordinanza “Napolitano” di rinvio pregiudiziale Ue della Corte costituzionale sui precari della scuola: la rivoluzione copernicana del dialogo diretto tra i Giudici delle leggi nazionali ed europee, in www.europeanrights.eu, e G. Repetto, La Corte costituzionale effettua il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE anche in sede di giudizio incidentale: non c’è mai fine ai nuovi inizi, in www.diritticomparati.it, 28 ottobre 2013.

[11] Ragionano, da diversi angoli visuali, sui possibili scenari conseguenti all’entrata in vigore del protocollo R. Conti, Le scelte morali, § 5.1, e F. Vecchio,Le prospettive di riforma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tra limiti tecnici e ‘cortocircuiti’ ideologici, in paper.

[12] La Corte, nondimeno, non ci dice cosa potrebbe accadere nel caso di reciproca incompatibilità delle norme desunte a seguito delle interpretazioni suddette, in particolare se, per il solo fatto del diverso grado posseduto dalle fonti a raffronto, debba privilegiarsi quella “eurounitaria” rispetto a quella convenzionale.

[13] Qui si pone l’ardua questione relativa al modo con cui previamente individuare i principi fondamentali e farne quindi oggetto di peculiare interpretazione: ardua, sol che si pensi che i principi, in quanto essi stessi norme, appaiono il posterius dell’interpretazione, non il suo prius assiomaticamente posto. Di tutto ciò, però, in altro luogo.

[14] Anche su ciò, nondimeno, dovrebbero farsi non poche precisazioni, l’innovazione costituzionale sembrando consentita (e, anzi, auspicabile) laddove si volga ad offrire un’ancòra più adeguato servizio ai valori fondamentali che nei principi in parola hanno la loro più immediata e genuinamente espressiva trascrizione positiva. Solo che anche il riscontro di siffatta circostanza non è affatto agevole e rimanda alla previa individuazione dei criteri idonei ad assicurarlo senza soverchie incertezze.

[15] … e, segnatamente, quanto a queste ultime, determinandosi in modo “graduato”, in ragione – come si è fatto poc’anzi notare – del diverso posto da ciascuna Carta detenuto nel sistema.

[16] … avendo la Consulta escluso – ma il punto è, come si sa, fatto oggetto in dottrina di critiche severe e penetranti – che il diritto convenzionale possa godere della “copertura” dell’art. 11, siccome a suo dire esclusivamente valevole per istituzioni costituite allo scopo di salvaguardare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Eppure, la stessa giurisprudenza costituzionale, già a partire dalla sent. n. 349 del 2007, non ha mancato di definire la CEDU in termini di “realtà giuridica, funzionale e istituzionale” (punto 6.1 del cons. in dir.).

[17] Su di che, la densa riflessione teorica di G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2009.

[18] Contrari, tra gli altri, G. Gemma, Dignità Umana: un disvalore costituzionale?, in Quad. cost., 2/2008, 379 ss.; M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare,a cura di G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e del­l’egua­glianza,Jovene, Napoli 2009, 1060 ss.; G. Monaco, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative, in Pol. dir., 1/2011, 45 ss., spec. 69 ss.

[19] L’immagine è – come si sa – di G. Silvestri, che l’ha, ancora di recente, riproposta nel suo I diritti fondamentali nella giurisprudenza costituzionale italiana: bilanciamenti, conflitti e integrazioni delle tutele, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura, in corso di stampa, spec. al § 2.

[20] In questi termini se ne discorre in A. Ruggeri – A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol.dir., 1991, 343 ss.; hanno, tra gli altri, ripreso questa indicazione C. Drigo, La dignità umana quale valore (super)costituzionale, in AA.VV., Principî costituzionali, a cura di L. Mezzetti, Giappichelli, Torino 2011, 239 ss., e, ora, C. Salazar,I princìpi in materia di libertà, in AA.VV., Principi costituzionali, cit.

[21] … così come, invero, non mancano nelle pronunzie emesse a Strasburgo i riferimenti agli orientamenti della Corte dell’Unione, ciascuna Corte ritenendo dunque di avere bisogno dell’altra al fine della propria incessante rilegittimazione. La rete entro cui si svolge il “dialogo” intergiurisprudenziale si distende poi fino a comprendere anche gli indirizzi delle Corti nazionali (specie di alcune, la cui influenza culturale appare di non poco rilievo), dal “diritto vivente” attingendosi quelle “tradizioni costituzionali comuni” che, opportunamente ed originalmente rielaborate, entrano a comporre il patrimonio europeo – com’è stato felicemente chiamato (A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Il Mulino, Bologna 2002)– in fatto di salvaguardia dei diritti, un patrimonio in via di espansione e, però, pure di problematica, non di rado sofferta, tutela.

[22] Ragiona delle forme di possibile rilievo della Carta per effetto dell’adesione, da ultimo, L. Trucco, Carta dei diritti fondamentali e costituzionalizzazione dell’Unione europea. Un’analisi delle strategie argomentative e delle tecniche decisorie a Lussemburgo, Giappichelli, Torino 2013, 169 ss.

[23] Una pressione, in alcuni casi, rivelatasi soffocante, sì da indurre un’avvertita dottrina a ragionare di una vera e propria “aggressività” del giudice europeo: v., part., O. Pollicino, che ne ha ripetutamente discusso (a partire da Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009, 1 ss., e quindi in La Corte europea dei diritti dell’uomo dopo l’allargamento del Consiglio D’Europa ad Est: forse più di qualcosa è cambiato, in AA.VV., Le scommesse dell’Europa. Diritti, Istituzioni, Politiche, a cura di G. Bronzini – F. Guarriello – V. Piccone, Ediesse, Roma 2009, 101 ss., e, diffusamente, in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee, cit.).

[24] Riferimenti, ora, in E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, relazione alle VI Giornate italo-spagnolo-brasiliane su La protección de los derechos en un ordenamiento plural, Barcellona 17-18 ottobre 2013, in paper, § 3.

[25] Accenno, prima di andar oltre, solo ad una questione che non mi è dato ora di poter approfondire, vale a dire in cosa nei fatti la tecnica in discorso si distingua da quella del distinguishing, altra tecnica – come si sa – assai familiare alle esperienze processuali in genere (dunque, anche a quelle che vengono ad emersione al piano dei rapporti tra le Corti di cui qui specificamente si tratta). Dico nei fatti, dal momento che al piano teorico la distinzione è netta e di tutta evidenza. Con la seconda tecnica, infatti, una Corte rileva la diversità della questione su cui è chiamata a pronunziarsi rispetto a quella definita da altra Corte; nel caso nostro, il giudice nazionale, grazie al distinguishing, si libera di un precedente giurisprudenziale scomodo, da cui peraltro potrebbero discendere vincoli anche particolarmente stringenti (e questo vale – come si sa – anche con riguardo ai propri precedenti: sull’uso, assai raffinato, che il giudice costituzionale sa fare della tecnica dell’autocitazione, v., per tutti, A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996, spec. 160 ss. e AA.VV., Il precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Cedam, Padova 2008). Con la prima tecnica, di contro, si ammette che le questioni non sono diverse ma si circoscrive l’obbligo della osservanza alla sola “sostanza” di un indirizzo giurisprudenziale di altra Corte. Nei fatti, tuttavia, come si diceva, non sempre è agevole tenere separati i casi in parola. Mi parrebbe urgente una verifica sul campo, che non mi pare sia ad oggi stata in modo adeguato posta in essere.

[26] La verità è che qui il ragionamento diventa “circolare”, perché – a portare ai suoi ultimi e conseguenti svolgimenti il ragionamento fatto dal giudice costituzionale – la stessa conformità in parola andrebbe vagliata unicamente in relazione alla… “sostanza” della giurisprudenza europea.

[27] È chiaro che, a fare un uso corretto della tecnica in discorso, laddove si dimostri che un certo materiale giurisprudenziale messo a punto a Strasburgo entra a comporre la “sostanza” della giurisprudenza stessa, è a quest’ultimo che occorre far riferimento: la sua osservanza parrebbe, pertanto, essere indeclinabile, da parte di tutti (Corte costituzionale inclusa), salvo naturalmente il caso che esso appaia non compatibile con la Costituzione. Nei fatti, è però da mettere in conto l’evenienza che – “sostanza” o “non sostanza” – la selezione abbia luogo in applicazione della Grundnorm o del Grundwert di evitare, costi quel che costi, lo scontro. Quando poi quest’ultimo dovesse risultare imparabile, ecco che rimarrebbe pur sempre la risorsa dell’altra tecnica, di cui si dirà subito appresso.

[28] Non credo, invero, che la Corte abbandonerà la tecnica in parola, che a motivo della sua straordinaria duttilità si presta a molti usi, secondo occasionali convenienze. D’altronde, non ha bisogno di farlo: è sufficiente rimodulare di volta in volta il criterio della “sostanza”, facendolo ora espandere ed ora invece contrarre a fisarmonica in ragione dei casi. C’è però un rischio assai elevato che, proprio per effetto della duttilità stessa, si annida nella tecnica in discorso; ed è che, tenendola in piedi, possa aversene un uso a Strasburgo giudicato spropositato.

Ora, fino a quando tutto ciò dovesse esser opera dei singoli giudici, poco male perché vi si può sempre, in un modo o nell’altro, porre rimedio; le cose però si complicherebbero non poco se l’utilizzo malaccorto dovesse aversi da parte della stessa Corte costituzionale.

Gli scenari immaginabili sono molti, per quanto non risulta agevole prefigurare quale accomodamento possa aversi di una situazione di conflitto anche particolarmente aspro. Al piano teorico, poi, non è chiaro se il carattere irreversibile del giudicato costituzionale, a norma dell’art. 137, ult. c., cost., valga per ogni caso ovvero se – come a me è parso altrove di poter argomentare – esso pure si renda partecipe di operazioni di bilanciamento assiologicamente orientate, operazioni i cui effetti poi graverebbero sui giudici comuni, i “terminali” – come si è poc’anzi rammentato – delle esperienze di giustizia a tutela dei diritti, messi in croce – è proprio il caso di dire – da due pronunzie delle Corti, europea e costituzionale, reciprocamente inconciliabili.

[29] La qual cosa, peraltro, molte volte si è avuta nei campi più varî di esperienza, con riguardo a concetti indeterminati, fatti oggetto di continue ridefinizioni a mezzo di circonlocuzioni il più delle volte caratterizzate da somma vaghezza espressiva, come tali bisognose di essere senza sosta spiegate e rispiegate (si pensi – per fare solo i primi esempi che vengono in mente – alla nozione di “principi e criteri direttivi” delle leggi di delega o a quella di “principi fondamentali” delle leggi statali in materie di potestà concorrente, e via dicendo).

[30] Chissà, dunque, quante volte nelle aule giudiziarie si sono avute (e si hanno) discutibili o, diciamo pure, scorrette ricognizioni della “sostanza” in parola, senza che nondimeno il giudice delle leggi sia potuto (e possa) intervenire a porvi, sia pure in parte, rimedio.

[31] Ex plurimis, sentt. nn. 236 del 2011, 264 del 2012 e, più di recente, 170 e 202 del 2013.

[32] In dottrina, hanno particolarmente approfondito questo punto E. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 7/2010, 955 ss., spec. 961, e C. Pinelli, “Valutazione sistematica” versus “valutazione parcellizzata”: un paragone con la Corte di Strasburgo, in Giur. cost., 6/2012, 4228. Molto importante è al riguardo la già cit. sent. n. 264 del 2012, largamente annotata [tra gli altri, oltre allo scritto di C. Pinelli, appena cit., v. R. Caponi, Retroattività delle leggi: limiti sostanziali v. limiti processuali nel dialogo tra le Corti, in Giur. cost., 6/2012, 4232 ss. e, pure ivi, F. Bilancia, Leggi retroattive ed interferenza nei processi in corso: la difficile sintesi di un confronto dialogico tra Corte costituzionale e Corte europea fondato sulla complessità del sistema dei reciproci rapporti, 4235 ss., nonché, volendo, anche il mio La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 264 del 2012), in Consulta Online, 17 dicembre 2012].

[33] L’utilizzo del verbo “tendenzialmente” vuol dar conto di talune oscillazioni riscontrabili in giurisprudenza, specie in quella costituzionale, a conferma di quella fluidità di quadro di cui si venuti dicendo.

[34] A questo standard tuttavia sembra, perlomeno da un certo punto di vista, essersi sottratta Corte cost. n. 170 del 2013, non a caso prontamente segnalata in dottrina quale indicativa di un ravvicinamento alle posizioni della Corte EDU (di una “una tregua nel conflitto” tra le Corti ha discorso E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 2; una diversa lettura ne ha, però, dato C. Salazar, op. et loc. ult. cit.).

[35] Ne riferisce, ora, C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, relaz. al Convegno AIC su Spazio costituzionale e crisi economica, Padova 18 e 19 ottobre 2013, in www.rivistaaic.it, 4/2013, § 6.

[36] Ma v., ora, il caso deciso da Corte EDU, Seconda Sez., 8 ottobre 2013, ricc. nn.  62235/12 e 57725/12,
A.A. Da Conceição Mateus c. Portogallo e L. J. Santos Januário c. Portogallo, con la quale il giudice di Strasburgo fa salvi i tagli alle pensioni per il 2012 decisi in Portogallo, tagli che lo stesso tribunale costituzionale portoghese aveva giudicato incostituzionali tenendoli tuttavia fermi per l’anno suddetto; e ciò, in considerazione del fatto che sarebbe “stato raggiunto un ‘giusto equilibrio’ tra le esigenze di interesse generale della comunità e i requisiti di protezione dei diritti fondamentali dell’individuo” (punto 23). Pertanto, “alla luce dell’eccezionale crisi economica e finanziaria affrontata dal Portogallo nel periodo pertinente e data la portata limitata e la transitorietà della riduzione dei loro sussidi feriali e natalizi, la Corte ritiene che i ricorrenti non abbiano sopportato un onere sproporzionato ed eccessivo” (punto 29).

[37] Lo ha, ancora di recente, opportunamente rilevato E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 3. Per i modi con cui il criterio in parola può essere inteso, con specifico riguardo alla Carta di Nizza-Strasburgo, v., ora, L. Trucco, Carta dei diritti fondamentali e costituzionalizzazione dell’Unione europea, cit., spec. 159 ss.

[38] … ad es., in Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali,in www.rivistaaic.it, 1/2011.

[39] Sul principio di cui all’art. 4, cit., tra gli altri, B. Guastaferro, Beyond the Exceptionalism of Constitutional Conflicts: The Ordinary Functions of the Identity Clause, in Yearbook of European Law, 1/2012, 263 ss., e F. Vecchio, Primazia del diritto europeo e salvaguardia delle identità costituzionali. Effetti asimmetrici  dell’europeizzazione dei contro limiti, Giappichelli, Torino 2012.

[40] L’ho difesa (ma, appunto, unicamente nel merito) nel mio La Corte di giustizia e il bilanciamento mancato (a margine della sentenza Melloni), in Dir. Un. Eur., 2/2013, 399 ss., alle cui notazioni qui pure mi rifaccio. A giudizio di M. Iacometti, Il caso Melloni e l’interpretazione dell’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea tra Corte di giustizia e Tribunale costituzionale spagnolo, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, Osservatorio, ottobre 2013, nella pronunzia de qua va visto lo sforzo prodotto dal giudice dell’Unione nell’intento di bilanciare in modo adeguato il bisogno di rafforzare la cooperazione giudiziaria con la garanzia dei diritti al giusto processo ed alla difesa.

[41] Quanto a quest’ultimo aspetto, è bene mettere una volta di più in chiaro che, riguardati i rapporti interordinamentali sia dal punto di vista interno che da quello esterno, risulta confermata non già la chiusura di ciascun ordinamento in se stesso, ché sarebbe a tacer d’altro insensata, bensì la loro apertura, specificamente al piano della salvaguardia dei diritti fondamentali (v., ad es., gli artt. 53 sia della Carta di Nizza-Strasburgo che della CEDU, nonché gli artt. 10, 11 e 117, I c., nel loro fare “sistema” con gli artt. 2 e 3 cost.). Un’apertura di certo non illimitata bensì appunto – come si viene dicendo – teleologicamente orientata all’affermazione della più “intensa” tutela e da questa perciò condizionata.

[42] In questi termini ne ho, ancora non molto tempo addietro, discusso nel mio CEDU, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei sistemi”, in Consulta Online, 19 aprile 2013, le cui notazioni vanno integrate con quelle ora svolte.

[43] Mi corre a questo punto fare, ancora una volta, un richiamo alla felice, per quanto non sempre linearmente svolta, intuizione contenuta nella già cit. sent. n. 388 del 1999.

[44] … nel mio Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Giappichelli, Torino 2011, 149 ss., spec. 168 ss., e quindi in altri scritti.

[45] Sarebbe interessante chiedersi, ma in un luogo diverso da questo, se siffatta conclusione possa valere altresì per Carte diverse dalla Convenzione, ovverosia per ogni Carta internazionale dei diritti. Mi sembra però che – al di là delle pur indeclinabili esigenze di coerenza interna della ricostruzione teorica – possa, nei fatti (se non pure in punto di diritto), ostare a siffatta generalizzazione il peculiare rilievo della CEDU, l’essere provvista di un apparato sanzionatorio suo proprio (che ha, appunto, nella Corte di Strasburgo la sua massima espressione), con cui il nostro Stato (Corte costituzionale inclusa…) – piaccia o no – deve pur sempre fare i conti.

[46] … e che possono, volendo, vedersi nel mio Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990, spec. 95 ss., con le ulteriori precisazioni che sono in Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi – M. Cavino – J. Luther, Giappichelli, Torino 2011, 349 ss.

[47] … tanto più, poi, ove si dovessero ritenere sempre e comunque non rivedibili i propri verdetti, secondo la rigorosa lettura, ormai invalsa, dell’ultimo comma dell’art. 137 cost. Ma, su ciò, come avvertivo dianzi, non posso ora indugiare; mi limito solo a far notare al riguardo due cose.

La prima è che un siffatto modo di vedere le cose, per quanto assai accreditato e diffuso, in buona sostanza fa della Corte costituzionale una sorta di anomalo (e, a mia opinione, mostruoso) potere costituente permanente.

La seconda è che non è affatto vero – come invece si suol dire – che, ove le pronunzie del giudice costituzionale non si ponessero quale luogo e momento di “non ritorno” di una dinamica istituzionale altrimenti abbandonata a se stessa e condannata a non avere punti fermi dai quali tenersi e nei quali alfine trovare ricetto, verrebbe pregiudicato il bene sommo della certezza del diritto (qui, nella sua massima espressione, quale certezza del diritto costituzionale). Non è vero, infatti, per una duplice ragione: perché la certezza del diritto, che pure – si conviene – è valore prezioso ed irrinunziabile, è pur sempre soggetta a bilanciamento all’incontro con altri beni egualmente provvisti di dignità costituzionale e perché la stessa certezza del diritto resta una vuota formula ove non si converta nel vivo dell’esperienza in certezza dei diritti costituzionali e, dunque, come si è ripetutamente osservato, in primo luogo in garanzia effettiva di libertà ed eguaglianza, secondo quanto mostra di credere la stessa giurisprudenza costituzionale, ad es. laddove ha ammesso il carattere “cedevole” del giudicato interno a fronte di sopravveniente pronunzia della Corte EDU che accerti la violazione della Convenzione (sent. n. 113 del 2011 e, in dottrina, di recente e per tutti, V. Sciarabba, Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, Cedam, Padova 2013), e in altri casi ancora.

Sta qui, come si è tentato di mostrare in altri scritti, la ragione profonda che dà modo allo stesso principio di cui all’art. 137 di partecipare ad operazioni di bilanciamento secondo valore.

[48] Tra i suoi molti commenti, E. Malfatti, Un nuovo (incerto?) passo nel cammino “convenzionale” della Corte,e A. Morrone, Shopping di norme convenzionali? A prima lettura dell’ordinanza n. 150/2012 della Corte costituzionale, entrambi in www.forumcostituzionale.it, rispettivamente, 29 giugno e 19 luglio 2012; G. Repetto, Corte costituzionale, fecondazione eterologa e precedente CEDU “superveniens”: i rischi dell’iperconcretezza della questione di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 3/2012, 2069 ss.; V. Magrini, La scelta della restituzione degli atti nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 150/2012;B. Liberali, La procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti esterni alla coppia fra legislatore, giudici comuni, Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo;I. Pellizzone, Sentenza della Corte europea sopravvenuta e giudizio di legittimità costituzionale: perché la restituzione degli atti non convince. Considerazioni a margine dell’ord. n. 150 del 2012 della Corte costituzionale, tutti in www.rivistaaic.it, 3/2012; U. Salanitro, Il dialogo tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale in materia di fecondazione eterologa, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 636 ss.; R. Romboli, Lo strumento della restituzione degli atti e l’ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte Edu come ius superveniense la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in Consulta Online, 26 febbraio 2013, e pure ivi, S. Agosta, La Consulta nel gioco di specchi riflessi tra Corti sopranazionali e giudici comuni (in tema di protezione giuridica della vita nascente), 23 luglio 2012,nonché, volendo, anche il mio La Corte costituzionale, i parametri “conseguenziali” e la tecnica dell’assorbimento dei vizi rovesciata (a margine di Corte cost. n. 150 del 2012 e dell’anomala restituzione degli atti da essa operata con riguardo alle questioni di costituzionalità relative alla legge sulla procreazione medicalmente assistita), 12 giugno 2012. Infine, R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., 253 ss. e A. Bonomi, L’assorbimento dei vizi nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale, Jovene, Napoli 2013, spec. 140 s.

[49] … e, su di essa, per taluni primi commenti, F. Viganò, La Corte costituzionale sulle ricadute interne della sentenza Scoppola della Corte EDU,e Prosegue la ‘saga Scoppola’: una discutibile ordinanza di manifesta inammissibilità della Corte costituzionale, entrambe in www.penalecontemporaneo.it, rispettivamente 19 e 26 luglio 2013, e, pure ivi, G. Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitiorsopravvenuta: note sparse a margine di Corte cost. n. 210 del 2013, in www.penalecontemporaneo.it, 1 ottobre 2013.

[50] Com’è chiaro, va tenuto distinto il trattamento riservato alle decisioni delle due Corti europee, diverse per natura ed effetti. Nondimeno, qui pure la tendenza al ravvicinamento appare evidente e, a mia opinione, lo sarà ancora di più una volta perfezionatasi l’adesione da parte dell’Unione alla CEDU.

[51] È chiaro che, ove si neghi questa premessa, con essa cadrebbe anche la conseguenza racchiusa nell’interrogativo subito di seguito formulato nel testo; non credo però che le cose stiano così [il mio punto di vista a riguardo dell’annosa questione relativa alla efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo può, ora, vedersi nel mio Spunti di riflessione in tema di applicazione diretta della CEDU e di efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo (a margine di una pronunzia del Trib. di Roma, I Sez. Civ., che dà “seguito” a Corte EDU Costa e Pavan), in Consulta Online, 9 ottobre 2013; maggiormente articolato e problematico quello da ultimo manifestato da R. Conti, La Corte dei diritti umani e le unioni civili “negate” alle coppie omosessuali. Osservazioni a primissima lettura su Corte dir. Uomo, Grande Camera 7 novembre 2013, Vallianatos e altri c. Grecia, ric. N. 29381/09 e 32684/09, in corso di stampa in Quest. giust.].

[52] Sopra tutti, A. Spadaro, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua  evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quad. cost., 3/1998, 343 ss.

[53] Preferisco infatti distaccarmi dal sintagma ormai invalso (v., ad es., ancora di recente, AA.VV., La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: “casi difficili” alla prova, a cura di M. Cavino e C. Tripodina, Giuffrè, Milano 2012), sotto la spinta vigorosa degli studi di un’autorevole dottrina (sopra tutti, A. Pizzorusso, in molti scritti e, tra questi, di recente, Fonti del diritto2, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Disposizioni sulla legge in generale art. 1-9, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma 2011, e R. Romboli, del quale v., tra i molti suoi contributi, I diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, in Quad. 21/Seminario 2010, a curadell’Asso­ciazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Giappichelli, Torino 2012, 131 ss.), non riprendendo il termine “politico” che potrebbe far pensare, piuttosto che alle regole (legislative e, in genere, espressive di ius positum), a “regolarità” della politica, qui del tutto prive d’interesse.

[54] Se n’è, ancora di recente, discusso in occasione delle Giornate dedicate a La protección de los derechos en un ordenamiento plural, cit.

[55] V., part., la notissima sent. n. 230 del 2012, ampiamente annotata [ex plurimis, O. Mazza, Il principio di legalità nel nuovo sistema penale liquido, eV. Manes, Prometeo alla Consulta: una lettura dei limiti costituzionale allequiparazione tra diritto giurisprudenziale e legge, entrambi in Giur. cost., 5/2012, rispettivamente, 3464 ss. e 3474 ss.;F. Colombi, Gli strumenti di garanzia dei diritti fondamentali fra Costituzione e CEDU: riserva di legge e base legale. Riflessioni a margine di un obiter dictum di Corte cost. sent. 8 ottobre 2012, n. 230, in www.rivistaaic.it, 3/2013, e D. Falcinelli, “In nome della legge penale italiana”. Giudici d’Europa, custodi del diritto penale (appunti sulla sentenza della Corte costituzionale n. 230/2012), in www.federalismi.it, Focus Human Rights, 3/2013, nonché, volendo, i miei Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012), in www.diritticomparati.it, 15 ottobre 2012; Consulta Online, 16 ottobre 2012, e, pure ivi, Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum, 29 ottobre 2012].

[56] … nell’accezione materiale qui pure ripresa, che si fa riportare altresì alle Corti europee.

[57] … e, tra questi, da ultimo, in Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento “intercostituzionale”, cit.

[58] Diversamente, tra gli altri, M. Luciani, Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in www.rivistaaic.it, 3/2012, del quale v., ora, Legislatore e giudici nella protezione dei diritti fondamentali, relaz. alle Giornate su La protección de los derechos en un ordenamiento plural, cit., che vorrebbe circoscritta l’attività di chi somministra giustizia alla mera applicazione della legge (e degli atti normativi in genere).