Diritti e culture: un’antologia critica

A quasi settant’anni dalla Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, redatta dalla Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani guidata da Eleanor Roosvelt, le riflessioni di taglio interdisciplinare, come l’antologia Diritti e Culture curata da Cammarata, Mancini e Tincani ed edita da Giappichelli, hanno l’indubbio merito di rafforzare e riattualizzare il discorso sui diritti umani. In una prospettiva di piena consapevolezza dell’irrinunciabile valore dei diritti umani, diventa fondamentale lo sforzo di riflettere sulle criticità, sulle sfide poste dalla globalizzazione al linguaggio dei diritti e sul contemperamento tra elementi e prospettive apparentemente oppositivi, tra diritti e culture, tra universalismo e relativismo. Sin dal 1948, anno nel quale è stata promulgata la Dichiarazione universale, lo scenario socio-politico internazionale è stato segnato da profondi mutamenti e, di conseguenza, quei diritti sanciti nel dopoguerra devono essere oggetto di un processo di critica, rivisitazione e riattualizzazione. Sono emerse infatti nuove categorie di diritti, il rapporto tra diritti e sviluppo è ormai centrale a seguito del crescente divario tra nord e sud del mondo nei processi di globalizzazione e diventa possibile superare lo storico conflitto tra diritti “universali” e differenze culturali. Il confronto con altre civiltà e culture acquista infatti sempre maggiore rilevanza, imponendo nuove forme e modalità di dialogo e comprensione dell’“altro”.

In tale prospettiva, le analisi contenute nei contributi di antropologi, sociologi e filosofi del diritto raccolti nell’antologia “Diritti e Culture” tendono a mettere in evidenza alcune tensioni, tradizionali o contemporanee, che caratterizzano il rinnovarsi del processo di affermazione dei diritti, offrendo allo stesso tempo delle potenziali soluzioni alle questioni che pongono, senza limitarsi a sollevare problemi e critiche. I saggi delle antropologhe Ellen Messer e Sally Engle Merry, dei sociologi del diritto Upendra Baxi e Boaventura De Sousa Santos e dello studioso di bioetica buddista Damien Keown, che compongono il libro, consentono al lettore di gettare uno sguardo alle sfide che il XX secolo pone ai diritti sanciti dalla Dichiarazione del 1948. Sfide che il discorso sui diritti umani deve vincere perché sia a tutti gli effetti universale e credibile. I contributi degli studiosi, raccolti nell’antologia, mettono così alla prova i diritti della Dichiarazione universale, ma offrono allo stesso tempo delle forme di riconciliazione. Ellen Messer lo fa partendo dall’antropologia come scienza, Sally Engle Merry dal concetto di cultura, Upendra Baxi dal linguaggio della globalizzazione tramite un paradigma di diritti che contempli la sofferenza umana. Boaventura De Sousa Santos propone invece una concezione post-laicista dei diritti umani attraverso il contributo delle teologie progressiste, mentre Damien Keown cerca di trovare un linguaggio comune ai diritti umani e alla cultura buddista.

Ad aprire l’antologia è lo Statement on Human Rights, il documento redatto nel 1947 dall’Executive Board dell’American Anthropological Association, sotto la guida dell’antropologo Melville Herskovits. L’Unesco all’epoca stava raccogliendo suggerimenti e pareri da inviare alla Commissione delle Nazioni Unite che si stava occupando della stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Lo Statement criticava le pretese universali della dichiarazione, difendendo strenuamente una prospettiva relativistica, condivisa da tutti gli allievi di Franz Boas, e si opponeva alla prospettiva individualistica della dichiarazione. Da una parte si rifiutava l’idea di un percorso evolutivo unilineare comune a tutte le culture e dall’altra si sosteneva una prospettiva che andasse oltre il rispetto della personalità del singolo individuo e valorizzasse le specificità delle varie culture. Gli antropologi della scuola di Boas vedevano nella dichiarazione un documento eurocentrico, intriso di valori e concetti esclusivamente occidentali, che avrebbe consentito di guardare con indulgenza a nuove forme di oppressione, sfruttamento e dominio di quei popoli e di quelle culture che avevano già subito la dominazione coloniale.

Ellen Messer, con il suo contributo Antropologia e diritti umani, propone un riavvicinamento tra l’antropologia e i diritti umani, valorizzando il contributo essenziale che gli antropologi e le loro ricerche etnografiche offrono al discorso dei diritti. Il percorso di evoluzione e cambiamento che dal dopoguerra a oggi ha investito sia la scienza antropologica sia il sistema dei diritti umani ha portato a una progressiva riconciliazione. Da una parte, il quadro dei diritti umani è mutato in un’ottica più includente nei confronti dei diritti collettivi, di alcuni diritti socio-economici e dei diritti allo sviluppo. Dall’altra, gli antropologi hanno risposto con un rifiuto di qualunque forma di relativismo estremo, riconoscendo la necessità di un’«ideologia universale». Messer ripercorre nel suo saggio questo percorso evolutivo. Delinea inizialmente le ragioni originarie dello scarso coinvolgimento degli antropologi nel campo dei diritti umani, addebitate principalmente al «fardello del relativismo culturale» e al maggior interesse per la dimensione collettiva dei diritti rispetto a quella individuale e difende infine il contributo prezioso degli antropologi per il linguaggio dei diritti. Contributo che si traduce «nell’analisi interculturale di concetti locali che riguardano i diritti umani, nell’analisi della retorica dei diritti, nell’analisi storica e culturale delle condizioni nelle quali diritti si espandono o si contraggono e nell’espansione di diritti socio-economici e culturali».

La riconciliazione tra antropologia e diritti umani viene spiegata nel saggio di Sally Engle Merry, in linea con le tesi di Ellen Messer, tramite una particolare accezione del concetto di cultura. L’antropologa statunitense sostiene che l’origine della contrapposizione tra antropologia e diritti umani, tra una prospettiva di relativismo culturale e una pretesa di universalità, risiede in un’errata ricostruzione del concetto di cultura, un concetto spesso frainteso perché considerato «reificato, delimitato e statico». In quest’ottica, la posizione degli antropologi sfocerebbe in un relativismo estremo che implica una tolleranza senza limiti di qualunque tipo di manifestazione o pratica culturale. Tuttavia, come sostiene Merry, la posizione dell’antropologia contemporanea non è arroccata nella difesa acritica di tutte le culture, bensì tenta di superare l’etnocentrismo affinché la dignità umana sia promossa e riconosciuta in tutte le società e le culture. Per fare questo, è necessario interpretare il concetto di cultura come «ibrido e dinamico», soggetto dunque a mutamento: è proprio su questo terreno fertile che l’antropologia e i diritti umani dovrebbero incontrarsi.

Il noto giurista indiano Upendra Baxi riflette sui rischi per il futuro dei diritti umani contemporanei, descritti in opposizione ai diritti umani moderni, in un contesto storico che sta assistendo a un forte cambio di paradigma che mette in pericolo le conquiste del movimento progressista dei diritti. Quelli che l’autore definisce «diritti umani moderni» sono costruiti su logiche di esclusione e di legittimazione della sofferenza che hanno fornito una giustificazione a fenomeni come la colonizzazione e il razzismo. Il paradigma dei diritti umani contemporanei tenta invece di riconoscere la «sofferenza umana» e di dar voce agli “ultimi” e agli “oppressi” secondo una logica includente. Nonostante alcuni rilievi critici, Baxi riconosce il sistema dei diritti umani contemporanei come l’unico strumento valido per opporsi a un paradigma emergente dei diritti umani, che, rispondendo a logiche di mercato, tenti di legittimare nuovamente la sofferenza umana.

La lotta contro la sofferenza umana ingiusta è alla base, per Boaventura De Sousa Santos, della costruzione del paradigma dei «diritti umani contro-egemonici», ossia quei diritti rivendicati ed elaborati da movimenti “dal basso” che si oppongono alla globalizzazione, al capitalismo e all’occidentalizzazione, le cui voci “altre” e rivendicazioni sono spesso ignorate. Il sociologo portoghese auspica a una dimensione dei diritti che tenga conto di queste esperienze per costruire un sistema di diritti umani che sia quanto più possibile universale e condiviso. Per raggiungere questo obiettivo, difende la validità di un «dialogo tra diritti umani e teologie progressiste per sviluppare pratiche di emancipazione realmente interculturali e maggiormente efficaci» nell’ambito di una concezione post-laicista dei diritti umani.

Il contributo di Damien Keown, ultimo saggio del libro, propone un tema centrale per l’antologia Diritti e Culture, essendo costruito intorno al macro-quesito dell’effettiva universalità del linguaggio dei diritti umani, affrontato però da una prospettiva molto specifica. L’autore indaga se e con quale estensione la filosofia dei diritti umani, di tradizione occidentale, possa conciliarsi con la dottrina buddista, chiedendosi se i concetti di “diritti” e di “diritti umani” siano contemplati dal buddismo e su quali principi possa eventualmente fondarsi una dottrina dei diritti umani, nonostante l’assenza della nozione di diritto soggettivo. Keown ritrova i principi della dottrina dei diritti umani nel Dharma, il concetto buddista che regola ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare. Secondo l’autore, la «preoccupazione per il bene umano» che è alla base della dottrina dei diritti umani è allo stesso tempo insita nel buddismo e nelle altre religioni.