È sfruttamento economico e non autodeterminazione sessuale: la Consulta salva la legge Merlin

La sentenza della Corte costituzionale n. 141/2019 è una pronuncia importante. Le questioni di legittimità nei confronti di alcune norme incriminatrici della legge Merlin, sollevate nell’ambito di un giudizio sulla intermediazione di escort dei cui servizi avrebbe beneficiato l’ex Presidente del Consiglio Berlusconi, sono state dichiarate infondate. In particolare, la Corte ha escluso che l’attività di prostituzione possa essere configurata come una manifestazione del diritto inviolabile alla libertà sessuale, considerandola invece l’esercizio di un’attività economica assoggettata ai limiti previsti dalla costituzione.
Per inquadrare meglio le questioni i giudici si sono avvalsi dell’argomento comparativo, ricostruendo le politiche legislative sulla prostituzione adottate da diversi stati a partire dall’Ottocento. A un originario modello regolamentarista, che tollerava la prostituzione nelle case chiuse punendo le condotte di terzi solo in caso di coazione nei confronti dei soggetti più deboli o di palese sfruttamento, sottoponendo contestualmente le prostitute a incisive forme di controllo, ha fatto seguito in molti paesi un modello abolizionista, che considerava la prostituzione un’attività degradante per la persona e negativa per la società, stabilendo per un verso la non punibilità della prostituta e del cliente ma tracciando per l’altro un’area penalmente rilevante per i terzi che avessero agevolato, supportato o sfruttato in vario modo il mercato prostitutivo. È a un tale modello, il cui nome evoca chiaramente le lotte per l’abolizione della schiavitù, che si ispira anche la legge n. 75 del 1958 proposta dalla senatrice Lina Merlin. Una visione più moraleggiante ha invece ispirato le leggi, vigenti in diversi stati degli USA e da alcuni definite proibizioniste, che hanno sottoposto a sanzione penale sia la prostituta che il cliente. Negli ultimi venti o trent’anni i modelli si sono ulteriormente differenziati: alcuni paesi (extraeuropei ma anche europei, tra cui l’Olanda e la Germania) hanno adottato politiche cd. neo-regolamentariste, incentrate sulla libertà contrattuale e sulla regolamentazione degli effetti collaterali dell’impresa prostitutiva in un’ottica di riduzione del danno, anche attraverso la reintroduzione di registrazioni e rigidi controlli. Altri, in linea con le indicazioni emergenti da alcuni atti normativi internazionali ed europei, hanno invece inteso rafforzare il modello abolizionista esprimendo un giudizio sfavorevole con riguardo al comportamento non della prostituta ma del cliente e contemplando per quest’ultimo una sanzione penale: è il caso di alcuni paesi scandinavi e più recentemente della Francia. Tale modello viene denominato, a seconda delle prospettive, neo-abolizionista o neo-proibizionista (la Consulta usa il secondo termine). L’analisi comparativa si chiude con il richiamo a due precedenti giurisprudenziali del Tribunale costituzionale portoghese e del Consiglio costituzionale francese, che hanno avallato leggi ispirate rispettivamente al modello abolizionista e a quello neo-abolizionista.
Ora, se da una parte è indubbiamente pregevole lo sforzo dei giudici costituzionali di allargare lo sguardo a esperienze straniere con il fine di contestualizzare meglio quella italiana ma altresì di ricercare tendenze comuni, dall’altra parte ci si può interrogare sull’effettiva neutralità della classificazione adoperata dalla Corte, almeno con riferimento ad alcune delle categorie prospettate: ad esempio, parlare di proibizionismo o di neo-proibizionismo (anziché di neo-abolizionismo) implica che si è già assunta una certa posizione valutativa. Si può inoltre dubitare che il lessico proibizionista, nato con riferimento al consumo di alcolici e poi esteso a quello di sostanze stupefacenti, possa essere efficacemente esteso – se non per sottolineare una analoga impronta moralistica – al “consumo” di condotte umane e segnatamente di una prestazione sessuale (per una classificazione parzialmente diversa v. il contributo di Daniela Danna, Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione in Ead., S. Niccolai, L. Tavernini, G. Villa, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, VandAepublishing, Milano, 2019).
A ogni modo, l’esame comparativo ha ribadito l’inserimento della legge n. 75/1958 nell’ambito del modello abolizionista. La legge fu concepita dalla proponente Lina Merlin, socialista umanitaria, come una normativa di attuazione dei principi costituzionali di eguaglianza, libertà, certezza del diritto e giustizia economica. La legge Merlin ha inteso riscattare le donne prostitute, considerandole pari cittadine e partecipi di un progetto di convivenza comune; al contempo ha cercato di impedire sia le vessazioni che il modello regolamentarista aveva consentito alle forze di pubblica sicurezza di compiere contro le prostitute (di qui l’abolizione delle case chiuse) sia gli abusi legati al mercato della prostituzione (di qui la previsione dei reati di cui all’art. 3 della legge, da interpretare in maniera alternativa piuttosto che cumulativa). Il bene oggetto di tutela di queste ultime norme non era più, come nel codice Rocco, la pubblica moralità, ma la giustizia e l’etica del mercato (in questo senso v. il saggio di Silvia Niccolai La legge Merlin e i suoi interpreti, in Né sesso né lavoro, cit.). Su tale questione si è comunque aperto il dibattito tra gli interpreti: mentre nei decenni successivi all’entrata in vigore della legge è prevalsa una lettura in continuità con il modello regolamentarista previgente, negli anni recenti si sono affacciati orientamenti – fatti propri anche dal giudice a quo – secondo cui il bene tutelato dalle norme incriminatrici della legge n. 75/1958 è la libertà sessuale, orientamenti che spingerebbero, in presenza di consenso da parte di chi si prostituisce, a far cadere tutte le fattispecie di reato. Un altro filone giurisprudenziale, richiamato nella sentenza 141, ha invece ravvisato il bene protetto da quelle norme nella dignità oggettiva dell’individuo che offre prestazioni sessuali e cioè, nella stragrande maggioranza dei casi, della donna (la prostituzione maschile ha numeri molto inferiori e l’argomento dignitario è riferibile anche ad essa, mentre quella dei trans segue logiche in parte diverse).
La Consulta ha condiviso quest’ultimo approccio. Anzitutto essa ha escluso dai parametri conferenti l’art. 2 Cost. e quindi la libertà sessuale. Questa è bensì un diritto inviolabile, ma solo se ha per contenuto l’esplicazione positiva di un libero desiderio o la protezione negativa rispetto a una coazione esterna, risultando quindi non pertinente il rifermento nell’ordinanza di rimessione al precedente della sent. n. 561/1987. Opportunamente i giudici hanno rovesciato le argomentazioni della Corte di appello di Bari e delle parti costituite in ordine alla libertà e volontarietà dell’offerta di prestazioni da parte delle escort: è molto difficile, teoricamente e praticamente, misurare il grado di libertà del consenso della donna che si prostituisce, poiché la manifestazione di volontà va compresa alla luce del contesto economico, sociale, affettivo e familiare in cui quella manifestazione è resa. Tale contesto rende sostanzialmente illusoria una concezione dell’autodeterminazione ridotta alla libertà di scelta tra opzioni che, lungi dall’ampliare il fascio di opportunità affinché la persona coinvolta conduca una vita piena e realizzata, la inchiodano a una condizione di marginalità. E ciò vale a prescindere dalle modalità e dai luoghi della prostituzione nonché dalle disponibilità economiche del cliente. Nelle parole della Corte: «anche nell’attuale momento storico … la scelta di ‘vendere sesso’ trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali».
Più corretto è quindi per i giudici un inquadramento della questione alla luce dell’art. 41 Cost., il quale nel garantire l’iniziativa economica privata fissa anche i relativi limiti: sicurezza, libertà e dignità umana. Con riguardo a quest’ultima i giudici ne affermano in questa specifica costellazione la portata oggettiva (o se si vuole istituzionale, distinta rispetto a quella soggettiva invocata dagli imputati nel processo a quo), da individuarsi con rifermento al «comune sentimento sociale in un dato momento storico». La dignità è quindi ricollegata all’effetto svilente e degradante della prostituzione, che consiste nella messa in vendita come merce della sessualità, la sfera più intima della persona. Non coglie del resto nel segno la tesi, prospettata dagli imputati, secondo cui questo approccio rievocherebbe l’immagine dello stato etico, poiché nelle democrazie pluraliste un fondamento di etica condivisa, eventualmente raggiunta “per sovrapposizione”, consente di sfuggire alla secca alternativa tra stato etico e relativismo indifferente ai valori. Il ragionamento della Corte colpisce anche la retorica del sex work, secondo cui quello della prostituta sarebbe un mestiere come un altro (anzi “il più antico del mondo”) e per questo meriterebbe il dovuto riconoscimento, quando in realtà un argomentare siffatto finisce per privare di senso il concetto stesso di lavoro come attività attraverso la quale ciascuno mira a sviluppare le proprie capacità e a inserirsi in condizioni di eguaglianza nella comunità politica (riflessioni sul punto in Luciana Tavernini, Quanto ci tocca la prostituzione?, in Né sesso né lavoro, cit.). Con questa prospettiva sarebbe stato peraltro coerente anche un riferimento esplicito al legame tra art. 41 comma 2 e art. 3 Cost., per quanto concerne sia la pari dignità sociale sia i compiti di trasformazione economica e sociale ai quali la Repubblica è chiamata ad adempiere. Si sarebbe così rimarcata la specifica dimensione sociale del principio di dignità nella costituzione italiana, all’interno della quale si muove del resto la legge Merlin, ridimensionando le preoccupazioni di chi teme che il limite della dignità oggettiva possa essere invocato – in futuro e in altri contesti – per veicolare visioni morali maggioritarie ed eccessivamente compatte.
La Consulta ha poi rigettato le censure formulate con riferimento ai principi di offensività del reato e di determinatezza e tassatività della norma incriminatrice, richiamandosi alla discrezionalità del legislatore penale (incensurabile in assenza di irragionevolezze manifeste o arbitri) e ricordando comunque il potere del giudice di valutare l’offensività in concreto del comportamento lesivo. Qui però si intravedono – oltre che sensibilità diverse all’interno del collegio – anche gli appigli per un eventuale cambiamento di rotta qualora in futuro il legislatore decida di adottare un modello di tipo neo-regolamentarista (sono stati depositati diversi progetti di legge in tal senso, accanto ad altri di impronta neo-abolizionista: cfr. Grazia Villa, Progetti di legge e proposte politiche sulla prostituzione in Italia, in Né sesso né lavoro, cit.). Una svolta siffatta potrebbe trovare un sostegno anche nella rassegna comparativa tratteggiata nella prima parte della motivazione, che pone apparentemente sullo stesso piano le diverse politiche sulla prostituzione (anche se si coglie un accento di disfavore per quelle di matrice “proibizionista”). Una svolta di questo tipo sarebbe però incompatibile con la concezione della legge Merlin come attuazione e svolgimento dei principi costituzionali più sopra ricordati, concezione che peraltro può contribuire a spiegare le differenze tra la soluzione italiana e quelle di altri paesi.
Da ultimo occorre ricordare come la sentenza 141/2019 prosegua l’itinerario che negli ultimi anni ha visto la Corte costituzionale precisare, in maniera più o meno articolata, il concetto di autodeterminazione (v. sent. 162/2014 e ord. 207/2018) e quello di dignità della donna (v. sent. 272/2017). Ma questo aspetto tocca questioni ulteriori e complesse che mi riservo di approfondire in altra sede.