“Fra lo scrittoio e la vita”: una critica al formalismo integrazionista in materia di diritti fondamentali

Recensione al volume di A. Schillaci, Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Jovene, Napoli, 2012, pp. 1-514

Credo si possa ormai affermare che, nel corso dell’ultimo decennio, il dibattito dottrinario italiano sia stato quasi completamente monopolizzato dal tema dei rapporti tra ordinamenti e Corti europee e che una giovane generazione di studiosi si sia dedicata, con passione ed originalità, ad affrontare le problematiche connesse alla tutela multilivello dei diritti fondamentali (se si vuole, questo blog è la prova più evidente di quanto appena affermato).

E’ all’interno di questo “orizzonte di senso”, quindi, che la giovane dottrina italiana è stata educata ed ha affinato la propria metodologia scientifica, rinnovando il bagaglio concettuale fornitole dai suoi maestri, contaminandolo con gli sviluppi istituzionali e dogmatici provenienti dal livello sovranazionale. A mancare forse era ancora una ricostruzione più ampia delle evoluzioni del costituzionalismo europeo degli ultimi decenni, una storia dei concetti giuridici e delle tecniche argomentative delle Corti interne che, utilizzando i parametri di giudizio provenienti dall’ “esterno”, andavano poi – attraverso, come è stato detto, una “integrazione silente” – a ridisegnare la fisionomia degli ordinamenti nazionali, sia sotto il versante legislativo, sia sotto quello giurisprudenziale.

Il libro di Angelo Schillaci (Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Jovene, Napoli, 2012, pp. 1-514) prova a colmare egregiamente questa lacuna della giovane dottrina giuspubblicistica italiana che, pur caratterizzata da una notevole innovazione metodologica, spesso appare un pò troppo focalizzata sulla contingenza, sul caso specifico, sulla singola questione giurisprudenziale.

L’obiettivo del lavoro è chiaro sin dalle prime pagine: partendo dall’assunto condivisibile che “una lettura solo formalistica dell’integrazione del parametro di giudizio rischierebbe di perdere di vista il contesto in cui tali operazioni avvengono” (p. 5, quello cioè dei processi di integrazione sovranazionale, con specifico riferimento alla tutela dei diritti fondamentali), l’autore si prefigge di dimostrare “l’insufficienza del paradigma esclusivista come strumento euristico idoneo alla piena comprensione dell’incidenza delle relazioni tra ordinamenti sulla costruzione del parametro di giudizio in materia di diritti” (p. 6). A voler essere affrontata, insomma, in una prospettiva diacronica, è la questione radicale della frontiera tra “interno” ed “esterno” nella costruzione del parametro di giudizio delle Corti nazionali, come questa frontiera sia stata teorizzata nel corso dei secoli dalla dottrina gius-filosofica, come si sia consolidata e divenuta egemone nella scienza giuridica moderna e come, invece, sia stata messa in discussione (se non in crisi) nel corso degli ultimi cinquant’anni.

La strada è stretta ma ambiziosa: “Le due posizioni di massima introversione e di massima estroversione rinviano ad assetti rigidi, esclusivi, che determinano rispettivamente la negazione dell’alterità e dell’identità” (p. 26). Al contrario, ad avviso dell’autore, questa relazione tra alterità e identità deve essere sottoposta ad un vaglio critico, bisogna cioè mettere in tensione questi due poli e calarli nella realtà delle concrete istanze di giustizia, sostituire approcci trascendentali “con realizzazioni pratiche fondate su valutazioni critiche di tipo comparativo, tentando di costruire un percorso di arricchimento mutuo, di progressiva condivisione, che si apre in senso cooperativo senza annullare l’alterità e senza disperdere identità e alterità in un superiore indistinto” (pp. 26-27).

Il volume si snoda in un percorso teorico denso e complesso, che parte affrontando il problema storico dell’elaborazione del diritto internazionale (da Grozio fino ad Heller, passando per Jellinek e Preuß), per poi soffermarsi sulle virtù e i limiti tanto delle dottrine dualiste, quanto di quelle moniste. E’ soprattutto il monismo kelseniano l’oggetto critico dell’analisi dell’autore, il quale sottolinea come l’adesione da parte del filosofo austriaco al primato del diritto internazionale in chiave oggettivistica sembrerebbe, nella prospettiva della dottrina pura del diritto, l’unica in grado di conservare e garantire la coerenza dello Stufenbau e dei suoi postulati di autonomia, unità e sostanziale astrazione della sfera del dover essere. Ma questa ricostruzione, ad avviso di Schillaci, paga un prezzo altissimo, tutto ai danni del soggetto e dell’individualità: “la riduzione della concezione oggettivistica ad assoluto non solo impone, sul piano delle relazioni tra diritto interno e internazionale, di sottrarre ai singoli stati il carattere di «unità definitive e supreme», ma deve coerentemente condurre alla stessa dissoluzione della personalità in un «elemento dell’ordinamento giuridico», in una «personificazione di un ordinamento giuridico parziale»” (p. 169, nota 71). Accogliendo la prospettiva helleriana, invece, l’autore ritiene che la contrapposizione tra monismo e dualismo non si debba più giocare sulla maggiore coerenza logica della prima teoria a discapito della seconda: questo perché è la realtà (rectius la storia costituzionale) ad essersi, nei fatti, orientata verso il pluralismo istituzionale, la molteplicità di norme fondamentali e la possibilità di conflitti. E’ la storia costituzionale, insomma, che ha prodotto “una fitta trama di relazioni, che chiede di essere compresa, dimostrando che l’unità, lungi dall’essere un dato di logica evidenza, da elevare a presupposto della conoscenza in generale, e della conoscenza giuridica in particolare, è realtà complessa, articolata, compito di integrazione” (p. 199).

La seconda parte del volume di Schillaci si sofferma sulle esperienze costituzionali concrete e, in particolare, sull’integrazione internazionalistica del parametro di giudizio nell’esperienza spagnola e in quella italiana. Per quanto riguarda la Spagna, ad avviso dell’autore l’articolo 10, secondo comma della Costituzione denoterebbe l’emersione di una clausola di “diritto costituzionale internazionale” che non si occupa dell’adeguata disciplina giuridica delle relazioni tra ordinamenti, ma che si interessa esclusivamente dell’effettività e dell’adempimento degli obblighi internazionali. L’articolo 10, secondo comma, insomma, “inserisce la Costituzione spagnola in un sistema di protezione dei diritti fondamentali aperto ed integrato con l’ordinamento internazionale, recependo… gli orientamenti della prassi internazionale, e precorrendo gli esiti più avanzati del costituzionalismo multilivello” (p. 431).

Nell’esperienza costituzionale italiana, invece, l’autore registra – a seguito delle sentenze “gemelle” del 2007 –  una serie di rigidità (da parte della Corte costituzionale) e, allo stesso tempo, una serie di disagi (da parte dei giudici comuni), nel modo in cui si è letta la nuova clausola di “diritto costituzionale internazionale” da parte della Consulta (ossia l’articolo 117, primo comma della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001). L’apertura dei processi di integrazione multilivello, infatti, ad avviso di Schillaci, coincide con l’apertura delle dinamiche di interpretazione della Costituzione, condivise attraverso la cooperazione tra giudici comuni e Corte. Il problema, pertanto, non è quello di scegliere rigidamente tra gli uni o l’altra, bensì consiste nel “chiedersi quale attitudine, nella Corte costituzionale come nel giudice comune, favorisca la piena operatività di un sistema di protezione dei diritti orientato in senso cooperativo” (p. 479).

Il lavoro di Angelo Schillaci, in conclusione, è un lavoro importante, una disamina critica, attenta e scrupolosa del lungo percorso evolutivo del sistema costituzionale multilivello europeo, un lavoro che in qualche modo potrebbe essere considerato come “definitivo” nella propria ricostruzione “sistematica”, se non fosse che in questo ambito – è l’autore stesso a ricordarcelo più volte nel corso dell’esposizione – simili pretese devono essere fermamente respinte. Proprio perché opera sul piano storico e della “esperienza giuridica”, una ricerca simile, per sua natura, rifiuta aggettivi riconducibili a quel metodo formalistico ed astratto del quale Schillaci ha fatto emergere tutti i limiti e le incongruenze.

Tuttavia, bisogna riconoscere che la prospettiva dell’integrazione e della cooperazione tra ordinamenti nel “sistema” multilivello europeo rischia di scivolare nella neutralizzazione dei conflitti che, soprattutto negli ultimi anni, sono emersi in tutta la loro portata e che difficilmente potranno essere risolti tramite la via giurisprudenziale. Infatti, la centralità delle Corti e delle giurisprudenze dell’ultimo decennio se, da un lato, deve essere apprezzata ed esaltata per le dinamiche cooperative e sinergiche che ha prodotto, dall’altro, sembra ormai dimostrare il proprio carattere suppletivo rispetto alle dinamiche politico-istituzionali che, invece, fanno registrare criticità difficilmente risolvibili, se non veri e propri processi di arretramento della cultura giuridica del Vecchio continente, soprattutto in materia di diritti sociali.

In questa ottica, quindi, non mi sembra condivisibile la ricostruzione che l’autore fa della cd. “teoria dei controlimiti” che, nel corso degli anni, avrebbe manifestato “una sempre più marcata virtualità integrativa, determinando la progressiva presa di coscienza, a livello europeo, della rilevanza centrale delle identità costituzionali nazionali nella costruzione del processo di integrazione” (p. 343). L’idea che i controlimiti oggi vengano assunti – rispetto alla loro originaria funzione integrante “su basi oppositive” –, come un ulteriore strumento giurisprudenziale in grado di sprigionare sempre più forti “implicazioni cooperative”, non sembra – ad avviso di chi scrive – essere suffragata neppure dalla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca che pure ha assunto posizioni molto esplicite al riguardo.

L’impressione, al contrario, è che all’orizzonte si stiano delineando imponenti ostacoli allo spontaneo moto centrifugo delle giurisprudenze delle Corti, ostacoli che ancora una volta confermano l’impossibilità di risolvere le criticità strutturali soltanto attraverso il ricorso alla giurisprudenza. Questa spinta fortissima che le Corti hanno dato al processo di integrazione europeo, infatti, sembra oggi destinata a rallentare: il processo di integrazione e cooperazione giurisprudenziale degli ultimi trent’anni, infatti, resta comunque legato al rilancio dei valori europei da parte delle istituzioni politiche. Integrazione e cooperazione giurisprudenziali, ad avviso di chi scrive, restano comunque subordinate a dinamiche progressive istituzionali: le une non si danno se le altre non si innescano. Cooperazione giurisprudenziale e integrazione istituzionale, insomma, stanno insieme, vanno di pari passo, simul stabunt, simul cadent. Ma al di là dei percorsi (più o meno accidentati) che istituzioni e Corti europee imboccheranno nel prossimo futuro, non si può negare che la strada che le ha condotte sino ad oggi, sia stata segnata da quelle virtù cooperative che l’autore ricostruisce egregiamente in questo suo importante lavoro.