Fuoco sopra e sotto il Medio Oriente

La c.d. primavera araba spinge l’analista appassionato a gettarsi sulle fiamme del Medio Oriente prima del pensiero: chissà che non convenga subito abortire il freddo vocabolario da regime changes della transitology contemporanea per recuperare quel lessico rivoluzionario denso di colpi di Stato, di poteri costituenti in lotta contro quelli costituiti, di resistenza, di Rivoluzioni appunto. Prudenza scientifica consiglia, preliminarmente, di annegare la subitanea passione nel bagno freddo del dato “strutturale”. Col gergo proprio dell’analisi marxista delle relazioni internazionali, diremmo immediatamente che l’ondata di fermento della sponda sud del Mediterraneo segna innanzi tutto il fatale spiegarsi di una profonda crisi di non corrispondenza. Sul punto, Sergio Romano ci dice che in Africa del nord la curva della demografia e quella dell’economia avanzano a passo diverso, con la prima che, come differenza fra nascite e morti, cresce di 3 milioni e mezzo di persone l’anno (basti confrontare la cifra con l’Europa meridionale dove, ormai, le morti superano le nascite) e la seconda di modesta rilevanza se paragonata ai ritmi asiatici o sudamericani (Golini, Il Messaggero).

A questa discrasia delle variabili economico-demografiche, si aggiunge il mancato adeguamento delle forme politiche del quadrante mediorientale (inteso in senso ampio) rispetto ai movimenti profondi di questa struttura (già di per sé) spaiata: borghesie rissose e familistiche (inebriate di petrolio), importanti pezzi della società (di matrice tribale) che non diventano equivalenti pezzi dello Stato (residuo ricorrente di un passato coloniale che ha disegnato confini politici lungo i meridiani e i paralleli degli appetiti imperialisti) e poteri religiosi dediti al fratricidio confessionale e adusi alla repressione delle minoranze (soprattutto cristiane) hanno partorito sistemi non democratici che, oltre alla loro intrinseca fragilità, hanno, non di rado, rivelato un volto coercitivo dai lineamenti eccentrici.

Solo per stare ai regimi già rovesciati o comunque in aperta disgregazione, basti considerare che: Zine el-Abidine Ben Ali ha 75 anni ed era a capo dello Stato tunisino dal 1987; con riferimento all’Egitto, Hosni Mubarak, di anni ne ha 82 anni e, al comando dal 1981, si accingeva a completare il suo quarto mandato; infine, Muammar Gheddafi, guida della rivoluzione libica, ha 69 anni ed è al potere dal 1969. La crisi economica mondiale, ha comportato l’impossibilità per l’Europa di continuare a funzionare come valvola di sfogo dell’immigrazione mediorientale: l’approvazione di una serie di leggi restrittive in tal senso ha (ri)costretto nei propri confini flussi migratori che pure sono generati dalla penetrazione dei capitali europei in cerca di mercati della manodopera a basso costo in cui impiantare sistemi fiscali allegri (le famose “zone speciali” di cui è disseminata la parte centrale ed orientale del nostro continente). Questa compressione sociale ha fatto sì che la cronica precarietà costituzionale dei sistemi politici mediorientali abbia dunque incominciato un processo di decomposizione irreversibile delle proprie forme del potere. Si tratta ormai di vedere solamente quanto, come e per quanto tempo l’ondata di democratizzazione di huntingtoniana memoria si estenderà e durerà e se sarà seguita da un contro-movimento di reverse.

Nemmeno dal fronte sciita arrivano buone notizie dove, per limitarci a due soli esempi, Teheran e Hezbollah, che ormai decide le sorti del governo di Beirut, sono forse tra i pochi poteri dell’area a non temere l’effetto contagio ma che anzi vogliono approfittare dell’instabilità per creare una breccia nella piazza araba, tanto che « ormai potremmo abituarci all’idea di vedere gli incrociatori iraniani attraversare trionfalmente il canale di Suez » (Benny Morris su The National Interest).

Altrove, invece, sono le stesse divisioni confessionali, combinate evidentemente alla gestione inetta e corrotta dell’economica e a quella autoritaria della politica, a propagare l’epidemia della rivolta. Nel Bahrein violente manifestazioni si rivolgono contro un emirato che privilegia in tutte le posizioni di potere il 30% della popolazione sunnita a scapito del 70% di quella sciita. Il regime di Saleh, al potere nello Yemen da 32 anni, è sua volta minato dalla rivolta degli sciiti nelle regioni del nord, nonché da una radicata presenza del gruppo di Al Quaida, tant’è che gli Stati Uniti hanno deciso di concentrare qui l’attenzione e gli interventi economici ai militari per contenere il seme della rivolta, una tattica che in passato si è dimostrata pericolosa ma che, per ora, ha imposto un’accelerazione sulle dinamiche interne del regime: Saleh ha infatti rinunciato alle riforma costituzionale che gli avrebbe concesso di restare al potere oltre la scadenza naturale del 2013 – eccola la transizione, osserva sapientemente Raineri, il decollo della curva degli aiuti americani: nel 2006 4 milioni di dollari, nel 2008 22, nel 2010 310, nel 2011 appena cominciato la previsione è già di 250 milioni di dollari.

In Siria, un’altra minoranza dinastica, quella alawita Bashar al-Asad, l’attuale presidente siriano è un alawita, come suo padre Hafiz el Asad prima di lui), pur essendo il 15% della popolazione, controlla i vertici del potere politico e militare di una base sociale sunnita. Gli alawiti  (Alawī per mostrare la loro reverenza ad Alì, il cugino e genero del profeta Muḥammad, che pure (in termini di concessioni sul piano teologico) hanno pagato un duro prezzo per il successo politico, continuano a rappresentare una corrente scismatica invisa al resto di un mondo islamico insofferente ai loro eccessi sincretici. Al momento di firmare questo articolo, a seguito violente manifestazioni scoppiate nella città di Daraa e poi propagatesi nei centri di Banyas, Jassem, Inkhil e Homs, il governo siriano guidato dal premier Naji Otri ha deciso di lasciare: lo ha annunciato la televisione di Stato. Il Corriere della sera parla di svolta, aggiungendo però che non si sa se decisiva. Il fatto è che la strategia del regime baathista si ispira agli ultimi giorni del potere di Ben Ali e di Hosni Mubarak: solenni promesse di riforme accompagnate da repressioni la cui ferocia consente, almeno per ora, al regime di tenere e rende prematuro parlare di “rivolta siriana” (secondo le organizzazioni umanitarie, le truppe di Maher el Assad, fratello del Presidente Bashar el Assad, hanno fatto già centinaia di morti). Assad, al potere dal 2000, avrebbe accettato le dimissioni in blocco dell’esecutivo, per condurre il Paese verso una transizione democratica attraverso una serie di riforme tra cui l’abolizione dello stato di emergenza, in vigore dal 1963 e che di fatto priva i cittadini della maggior parte dei diritti.

Questa la cronaca, parziale almeno; un’altra testa è caduta in Africa, quella del cattolico Laurent Gbagbo, presidente della Costa d’Avorio sin dal 2000, confermato al potere da una recente controversa decisione della Corte costituzionale ivoriana che ha affermato che l’elezione di Alassane Ouattara dello scorso novembre sarebbe avvenuta solo attraverso violenze e intimidazioni, proclamando la vittoria di Gbagbo. I guerriglieri di Ouattara, universalmente riconosciuto come il candidato “democratically elected”, hanno raggiunto il bunker del rivale nel lussuoso quartiere di Plateau. Difficile stabilire quanto quest’ultimo episodio sia analizzabile nel prisma della “rivoluzione araba”, anche perché il cambio di regime è arrivato grazie ai missili di Parigi in preda, come dimostrato dalla vicenda libica, ad un sospettoso prurito belligerante (si dice dovuto al calo di popolarità del Presidente Sarkozy) e lo scontro ha avuto più il sapore di una resa dei conti fra due contendenti che si combattevano da un decennio. Alassane Ouattara, è infatti un ex funzionario del Fondo monetario internazionale, “slamico felpato” lo definisce il già citato Raineri, appoggiato da sempre da Jacques Chirac, poi sposato alla bionda e bianca Dominique dall’allora sindaco di Neuilly sur Seine, un certo Nicolas Sarkozy appunto.

Ad ogni modo, riepilogando il primo punto che il nostro diario intende fissare, si ritiene appunto che il subbuglio mediorientale sia generato, innanzi tutto, dalle reazioni in loco di forme politiche stressate dall’azione del mercato globale sugli assetti sociali e quindi giuridici della contemporaneità e, rievocando quel lessico rivoluzionario con cui si apriva il nostro discorso, di qui si spiega anche l’elemento di eccezionalità di queste proteste: l’assenza dei tradizionali slogan anti-occidentali, religiosi, socialisti o nazionalisti. Le piazze arabe hanno aperto le loro proteste con delle gioventù indifferenziate in cerca di lavoro, diritti e partecipazione politica: diplomati e laureati disoccupati che fino a ieri, per dirla con Il Foglio del 9 febbraio, erano considerati molli e “decadenti” come i loro coetanei occidentali, la generazione dello yogurt, senza interessi o aspirazioni, con i loro calzoni larghi, i capelli lunghi e l’orecchino. Insomma, riprendendo il brillante commento di Marco Belpoliti de La Stampa del 16 dicembre 2010 che faceva il punto sugli incidenti etnici e studenteschi scoppiati in varie periferie d’Europa negli ultimi anni, le nuove leve del Medio Oriente, magari in virtù del disincanto che i giovani appartenenti alle elite più internazionalizzate respiravano osservando le frustrazioni dei loro coetanei europei sconfitti nelle patrie dei diritti, sembravano destinati a rimanere perennemente intrappolati in quella terra di nessuno nella quale si compiono ininterrotte battaglie individuali, in quella rivolta che non diviene mai una rivoluzione e che non presuppone il ruolo cosciente di una classe ma che, al contrario, si disperde nei mille rivoli introspettivi di masse atomizzate. Il ruggito della banlieu parigina del 2005 (che l’istantanea della comunicazione contemporanea aveva iniettato nelle pieghe spirituali del Nordafrica) non aveva progetto. Dopo la fine delle ideologie, dopo la caduta del Muro di Berlino e il trionfo del pensiero unico, in Occidente come in Oriente, a New York come a Shanghai, la rivolta, osservava l’Autore, sospende il tempo storico e crea l’istantaneo; è il trionfo del presente contrapposto al futuro. Per i suoi teorici – Paolo Virno, uno dei filosofi italiani oggi più citati nel mondo, ma anche i francesi Alain Badiou e Jacques Rancière – la rivolta, che Belpoliti fa risalire alla crisi della democrazia rappresentativa delle democrazie occidentali, è l’analogo della catastrofe, del collasso cui ci ha abituato il nuovo capitalismo finanziario, l’unica risposta possibile a una società che non sembra più avere nessun fondamento certo, nessuna teoria con cui giustificare il proprio dominio, se non la coercizione, l’uso della forza o la seduzione del consumo.

Stavolta però, accanto a quella poesia rivoluzionaria che sembrava sopita in Occidente come nel resto del mondo, la primavera araba apre un fronte interno ai Paesi che ne sono stati toccati in cui nemmeno la fiammata della più violenta periferia europea avrebbe potuto far sprofondare il nostro continente: con la voragine apertasi sotto il suolo delle istituzioni nordafricane, ai movimenti spontanei che hanno animato la protesta rischia di subentrare lo spettro del fondamentalismo islamico. Come descritto limpidamente – con uno sguardo lungo sulle transizioni costituzionali della contemporaneità –  dal quotidiano dei Vescovi, Avvenire, la preoccupazione dei responsabili di politica estera della comunità internazionale, presa in contraddizione dalla rapida accelerazione impressasi agli eventi, è proprio quella di capire se la “rivoluzione dei gelsomini” di Tunisi è la Danzica del mondo arabo (sull’Herald Tribune Roger Cohen traccia appunto un paragone tra il movimento di protesta esploso nelle scorse settimane nel Maghreb e il sindacato polacco Solidarnosc nato nel 1980 sulle rive del Baltico e culminato nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino) o se nei paesi mediorientali che saranno complessivamente toccate dalla rivolta si assisterà ad una parabola simile a quella dell’Iran del ’79, dove la rivoluzione khomeinista rovesciò lo Scià per sostituirlo con la teocrazia degli ayatollah. Società governate dall’Islam, scrive Giulio Meotti, hanno l’esclusivo interesse ad una democrazia in chiave plebiscitaria: “una testa, un voto, una volta sola”.

Pertanto, s’impone immediatamente un’analisi del ruolo dei partiti islamici nei contesti che stiamo analizzando, e questo sarà il tema della seconda puntata di questa “rubrica” in cinque episodi che, da queste stesse colonne (trasferite nell’osservatorio privilegiato di Strasburgo), si concentrerà subito dopo sul ruolo dei militari nei percorsi di transizione costituzionale in oggetto, per poi passare ad una disamina del ruolo della Turchia nella regione (Paese evidentemente destinato a giocare un ruolo cruciale, non solo da un punto di vista diplomatico, ma proprio per aver sperimentato con cento anni di anticipo i medesimi dibattiti costituzionali cui volgiamo la nostra attenzione), e chiudere infine sulla guerra libica che, con l’approvazione della risoluzione ONU 1973 dello scorso 17 marzo che ha deciso l’imposizione di una no fly zone sui cieli di Tripoli, al momento, non ci offre che profili di diritto internazionale puro. Al momento, appunto…

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