Giustizia: ma il diritto alla libertà non conosce limiti

La Repubblica, 16 gennaio 2015

In tutto il mondo, in questi giorni, milioni di persone hanno proclamato “Je suis Charlie”. E questo non può essere l’esercizio retorico o strumentale di un momento. La rivendicazione della libertà d’espressione contro ogni forma di violenza è sacrosanta, ma terribilmente impegnativa.

Fino a che punto siamo disposti a riconoscerla anche a chi manifesterà opinioni estreme o fondamentaliste? Ieri il Papa ha indicato quello che gli sembra essere un limite insuperabile: le parole aggressive contro la religione altrui, contro qualsiasi fede religiosa.

Posizione ben comprensibile da parte del capo supremo della Chiesa cattolica. Ma essa non appartiene a quella laicità delle istituzioni che ha fondato, insieme alle altre libertà, anche quella di esprimere liberamente il proprio pensiero. Proprio qui la stessa libertà religiosa ha trovato il suo fondamento. Non è vero, quindi, che la laicità abbia guardato alla religione e alle espressioni religiose come “sottoculture tollerate”, considerate invece come parte di un contesto culturale nel quale tutte le opinioni, anche quelle sgradite, meritano rispetto. Un punto fermo, che non può essere travolto dalla concitazione che accompagna il nostro tempo difficile.

Riprendendo un discorso di Benedetto XVI, Papa Bergoglio è tornato sulle presunte colpe dell’Illuminismo. È bene ricordare, allora, che proprio lì ha le sue radici la frase attribuita a Voltaire (ma in realtà costruita da Evelyn Hall) infinite volte citata in questi giorni: “Non sono d’accordo con quel che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di farlo”. Una indicazione forte, che ci ha accompagnato tutte le volte che si era di fronte a regimi totalitari e autoritari e che non possiamo perdere di vista, perché libertà e diritti esigono una continua e intransigente difesa.

La letteratura da sempre ci racconta il futuro, e talvolta ci ammonisce sui suoi pericoli. Il secolo passato è stato segnato da due grandi distopie, da due utopie negative sui rischi dell’uso della biologia e della società della sorveglianza, consegnata a due libri. Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1-984 di George Orwell. Oggi altri due libri sono davanti a noi. Il cerchio di Dave Eggers ci parla di una società della trasparenza totale, resa possibile dalla costruzione di una grande impresa planetaria che si impadronisce della vita di tutti, nella quale si può riconoscere la proiezione nel futuro di una combinazione di Google, Facebook, Twitter. Ma le drammatiche vicende francesi hanno conferito una inquietante attualità a Sottomissione di Michel Houellebecq, che colloca in un futuro non lontano, nel 2020, la trasformazione della Francia in uno Stato islamico.

Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare appello perché il futuro comune sia sottratto a questo orizzonte pessimistico? Qui deve innestarsi la riflessione storica, che ci fa scoprire radici profonde e le connette con il presente. È stato commovente cogliere nelle parole prive di retorica del fratello del poliziotto musulmano assassinato il richiamo a libertà, eguaglianza, fraternità. Oggi la libertà è minacciata, le diseguaglianze ci sommergono, ma in questo momento la parola più difficile da pronunciare è “fraternità” o, come più spesso si dice, “solidarietà”. Ma solidali con chi, verso chi? Soltanto verso chi ci è vicino, costruendo così una solidarietà “escludente” ogni altro, che ci spinge verso identità oppositive, destinate ad alimentare conflitti sempre più acuti? Riflettendo sulla condizione europea, Jurgen Habermas aveva affermato che solo la solidarietà può liberarci dall’odio tra paesi creditori e paesi debitori. Mentre diverse forme di odio montano in maniera che a qualcuno pare irresistibile, la pratica difficile e impegnativa della solidarietà non è forse una via che sarebbe cieco abbandonare?

Questi casi, insieme ad altri altrettanto eloquenti che potrebbero essere richiamati, mostrano come le stesse concrete difficoltà presenti possano essere affrontate solo con una adeguata riflessione culturale. Voltaire e la triade rivoluzionaria – libertà, eguaglianza, fraternità – evocano direttamente l’Illuminismo, la sua lunga storia, i riconoscimenti e le trasformazioni di libertà e diritti che da lì hanno avuto origine. E proprio su questa eredità non da oggi ci stiamo interrogando, con un riflesso che cogliamo proprio in due tra i libri ricordati all’inizio. Houellebecq vede nell’abbandono delle premesse illuministiche, o nella impossibilità di restare ad esse fedeli, l’origine della sottomissione all’islamismo, della nuova servitù volontaria che ci attende nel futuro prossimo. All’opposto Eggers, in un libro di grana assai meno fine, vede nella società della trasparenza totale proprio un compimento dell’Illuminismo. E così, discussioni più analitiche a parte, entrambi indicano in quella radice culturale un nodo non ancora sciolto, e che davvero sembra che possa essere affrontato solo con un colpo di spada.

Il modo in cui Alessandro Magno recise l’inestricabile nodo di Gordio, come vuole la leggenda, ben può apparire oggi come metafora di un tempo in cui si contempla quasi esclusivamente il bene della decisione.

Decisione subitanea, immediata, magari non meditata, ma rapida e definitiva. E invece proprio i fatti di ieri e di oggi ci dicono che non può essere questo il modo per uscire da una situazione divenuta sempre più aggrovigliata e difficile, anche per l’assenza di adeguate politiche in Europa e negli Stati Uniti, e che non può essere affrontata richiamando in servizio logore parole d’ordine, con il solito crescendo va dallo sbaraccamento della tutela della privacy fino alla pena di morte.

Ha fatto bene il nostro ministro degli Esteri a dire di no alla proposta di rivedere il trattato di Schengen, negando il diritto di libera circolazione proprio nel momento in cui l’Europa ha massimo bisogno di tenere uniti tutti i suoi cittadini. E questa è la risposta giusta anche per evitare che, con l’argomento della lotta al terrorismo, si introducano non accettabili misure repressive. In modo assai sbrigativo si è detto che il 10 dicembre parigino rappresenta l’11 settembre dell’Europa. Ma, se così fosse, qualche lezione dovrebbe allora essere appresa dalle politiche americane successive a quella data, con i molti errori politici ormai comunemente riconosciuti: incauti interventi militari, difficoltà di liberarsi di eredità pesanti (i prigionieri di Guantánamo), trasformazione di iniziative antiterrorismo in strumenti di puro controllo politico (il cosiddetto Datagate).

Al tempo stesso, si sono fatte più nette le alternative concrete. Leggi speciali o radicali misure organizzative anche a livello europeo? Raccolte mirate e legittime di informazioni o pesca con lo strascico di masse di dati che si rivelano poi illeggibili? Ingannevoli rassicurazioni dell’opinione pubblica con restrizioni di diritti, alla prova dei fatti inutili e pericolose, o forme di collaborazione (oggi si parla di coordinamento tra i servizi di sicurezza dei diversi paesi)?

Siamo di fronte ad una situazione che non può essere affrontata come se si trattasse solo di una questione di ordine pubblico. E, come hanno opportunamente sottolineato Gustavo Zagrebelsky e Massimo Cacciari, non cediamo alla tentazione di parlare irresponsabile mente di guerra. La democrazia sfidata deve piuttosto recuperare quel pieno riconoscimento e quella legittimazione da parte dei cittadini che sono sempre stati la sua forza nelle situazioni estreme. So bene quanto sia difficile, soprattutto quando la violenza si manifesta nell’estrema sua forma di assassini e massacri, ricordare l’ammonimento che T. B. Smith rivolgeva ai suoi concittadini americani dicendo che “i mali della democrazia si curano con più democrazia”. Ma è comunque ineludibile la domanda che in queste situazioni dobbiamo sempre rivolgerci: può, per difendersi, la democrazia perdere se stessa?

Dovremmo sapere che la risposta è obbligata, ed è negativa. L’altra risposta, esplicita o implicita che sia, viene dalle menti deboli ed è terribilmente pericolosa soprattutto perché distoglie dalla ricerca dei mezzi legittimi e dalla riflessione politica e culturale che deve accompagnare ogni cambiamento d’epoca. Oggi serve un inventario intelligente e difficile di una storia che, con il trascorrere del tempo, si è fatta sempre meno europea, che si è liberata dello stigma di un colonialismo al seguito dell’affermazione dei diritti, e sta approdando ad un costituzionalismo globale che mette al centro il rispetto integrale della persona, della sua vita e della sua dignità, dunque radicalmente ostile ad ogni forma di fondamentalismo. Questa è la mobilitazione culturale di cui abbiamo bisogno, né regressiva né difensiva, per delineare i tratti di una politica democratica alla quale possa appartenere il futuro.