I controlimiti d’oltremanica e la sovranità di Westminster

Sulla strada dell’annunciato referendum per “uscire” dall’Unione Europea, la Corte Suprema del Regno Unito deposita una decisione che, pur priva di particolare impatto nel suo dispositivo, offre il fianco, nelle pieghe del suo reasoning, ad un ripensamento del rapporto tra fonti interne e fonti eurounitarie – ma che forse, a ben vedere, fa anche di più.

La vicenda concreta su cui interviene il giudizio è, invero, piuttosto complessa, e non rileva qui ricostruirla puntualmente. È sufficiente conoscere che si tratta di una controversia relativa ad una infrastruttura ad alto impatto ambientale, che, a detta del giudice Hale della stessa Supreme Court, avrebbe dimensioni tali da essere seconda soltanto all’impianto delle reti ferroviarie nel Paese nel corso del 19° secolo. Si tratta, senza scendere troppo nei dettagli, di una sorta di «alta velocità» (high speed rail link) che collegherebbe la città di Londra con il nord della Gran Bretagna, attraversando praticamente tutto, o quasi tutto, il Paese. L’inizio dei lavori risulta comunque condizionato ad una sorta di autorizzazione legislativa, per cui si sceglie di seguire il particolare iter legis noto come «hybrid bill procedure». Il carattere “ibrido” del provvedimento, e quindi del procedimento, sarebbe dato dal fatto che esso mutuerebbe alcune caratteristiche dei c.d. public bill e, parimenti, alcune note dei c.d. private bill, posto che – come nelle dichiarazioni dello Speaker – esso si risolve in «a public bill which affects a particular private interest in a manner different from the private interests of other persons or bodies of the same category or class». Si tratta, in estrema sintesi, di un procedimento “rinforzato”, che prevede diversi passaggi in commissione e una triplice lettura, con la possibilità, per i privati – o per le autorità locali – che vi abbiano interesse, di intervenire ed essere ascoltati.


In punto di diritto, la regiudicanda presenta in realtà diversi profili, pure egualmente interessanti, ma si intende qui concentrarsi in modo particolare sulla allegata incompatibilità tra la scelta della procedura legislativa rinforzata, con il disposto della direttiva 2011/92/EU, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati. In specie, i ricorrenti allegano la violazione dello scopo stesso della direttiva, che sarebbe – secondo la ricostruzione della Corte di Giustizia (cfr. e.g. C-43/10, Nomarchiaki) – quello di garantire che, per i progetti ad alto impatto ambientale, sia prevista una valutazione di questo (ex art. 2.1), preceduta da una opportuna fase informativa, quanto più completa possibile. L’obiettivo di garantire questo “consenso (altamente) informato” sarebbe, nell’ipotesi allegata, impedito dalla scelta del «hybrid bill procedure», che, pur trattandosi, come si è visto, di un procedimento “non ordinario”, sarebbe di fatto governato dalla forza politica di maggioranza e, quindi, dall’esecutivo. Non è un caso che la ricostruzione argomentativa dei ricorrenti faccia riferimento alla nota prassi dei Government whips.

Con la sua decisione in esame [R (HS2 Action Alliance Ltd) v Secretary of State for Transport (2014) UKSC 3], la Suprema Corte del Regno Unito conferma le sentenze di primo grado e secondo grado, concludendo nel senso del rigetto del ricorso. Nelle parole del giudice Reed, con cui concordano sei dei sette membri del collegio, non v’è dubbio che quello in esame sia un procedimento sostanzialmente legislativo, in cui «il ruolo del Parlamento non è meramente formale», poiché esso è richiesto di «prestare consenso ad un bill che può essere emendato nei suoi passaggi parlamentari, e non di procedere ad una mera ratifica formale di una decisione amministrativa già assunta». Nei diversi passaggi tra i corridoi di Westminster Palace, dunque, può pienamente svolgersi quell’attività informativa, conoscitiva, o consultiva, idonea a contribuire ad una effettiva valutazione dell’impatto del progetto, così come richiesto dall’art. 2.1 della direttiva 2011/92/EU.

D’altra parte – ed è qui che la questione assume un interesse specifico – è vero che la disciplina europea richiede che siano le autorità giurisdizionali degli Stati membri a valutare il rispetto degli obblighi che da quella direttiva discendono (cfr. C-43/10, Nomarchiaki, par. 90), ma è altresì vero, nel caso di specie, che il giudice nazionale deve limitarsi a valutare se quel processo informativo finalizzato alla valutazione dell’impatto sia in astratto praticabile nel procedimento che si è scelto di seguire, senza potersi spingere fino a valutare, nella fase successiva all’adozione del provvedimento, se quel processo sia stato adeguato. Diversamente, l’esito sarebbe disastroso: «that national courts should strike down legislation if they conclude that the legislature’s consideration of the information was inadequate». Qui, infatti, è l’art. 9 del Bill of Rights del 1689 che si impone: «Che la libertà di parola e di discussione o di stampa in Parlamento non deve essere impedita o contestata in nessuna corte o luogo fuori dal Parlamento». L’insindacabilità degli interna corporis acta, per intenderci. Per cui, come giustamente osserva pur incidentalmente il giudice Reed, se la direttiva del 2011 chiedesse ai giudici nazionali uno “scrutinio stretto”, fino all’esame della adeguatezza dei processi informativi interni alla «hybrid bill procedure», i termini della quesitone muterebbero, e non di poco: non si tratterebbe più di un’ipotesi di contrasto tra la scelta del procedimento legislativo e la direttiva 2011/92/EU, bensì tra la direttiva 2011/92/EU e l’art. 9 del Bill of Rights. Ipotesi esorcizzata dalla Corte, che, forse per tirarsene fuori, sembra presumere – con argomenti non sempre forti – che la direttiva in questione si limiti a richiedere un (tollerabile) “scrutinio stretto”. Ma sul punto tornano, nella loro opinion, i giudici Neuberger e Mance, cui concordano cinque giudici su sette, ed è qui che sembra aprirsi il varco ad una nuova sistematica del rapporto tra fonti eurounitarie e fonti nazionali.

La riflessione di Neuberger e Mance si innesta criticamente sulla ricostruzione classica, di cui in Thoburn v Sunderland City Council [2002] EWHC 195 (Admin), e già prima nel noto caso Factortame [R v Secretary of State for Transport Ex p Factortame (No.2) (1991) HL]. Lo schema è noto: il giudice nazionale è tenuto a disapplicare i domestic statutes che non possano essere interpretati in maniera conforme al diritto eurounitario, salvo che il Parlamento non disponga esso stesso che la fonte legislativa nazionale debba prevalere sulla norma comunitaria. Neuberger e Mance, nella loro ricostruzione, non parlano di “disapplicazione”, ma dicono che la fonte interna in contrasto sia “invalida”; il che, nonostante il commento critico di qualche primo commentatore, rende forse più precisamente il concetto, posta la riconosciuta natura costituzionale dell’European Communities Act del 1972, che “abilita” l’ingresso nell’ordinamento interno delle norme di diritto europeo. Ma comunque, quello che resta è che ad essere disapplicato (o ad essere invalido) siano tutti i domestic statutes, senza che sia possibile ipotizzare un regime differenziato per leggi costituzionali e leggi ordinarie, posto che tale distinzione è presente (anche in Thoburn, ma, in fondo) solo a fini meramente classificatori, che, nel farsi della norma e dei rapporti tra norme, lasciano il posto alla sovranità del Parlamento – tanto che questo può, con espressa volontà, sovvertire il principio della primauté del diritto comunitario, come visto sopra. Come dire che la sovereignty of Parliament si riprende lo spazio lasciato da una sovereignty of Constitution che non c’è.

A stretto rigore, dunque, pure se la direttiva 2011/92/EU avesse previsto uno “scrutino stretto”, configurando un’ipotesi di diretto contrasto con l’art. 9 del Bill of Rights, avrebbe dovuto questo finire per essere disapplicato, salvo un espresso intervento del Parlamento in senso contrario. Eppure, osservano i giudici Neuberger e Mance, l’art. 9 costituisce «one of the pillars of constitutional settlement which established the rule of law in England in the 17th century». Addirittura, Blackstone ebbe a dire che era da questo principio degli interna corporis che derivava l’intero diritto del Parlamento. E non serve qui immaginare che vi siano, nei documenti convenzionalmente costituzionali inglesi e nelle sue consuetudini, altre norme, di pari fondamentale forza. Un simile contrasto non potrebbe, dunque, essere risolto con l’applicazione del principio della primauté, posto che quando il Parlamento approvava l’atto che fonda tale primato, nel 1972, esso non poteva (o per lo meno non intendeva) abrogarli o autorizzarne la disapplicazione (par. 207). Così il primato si arresterebbe dinanzi a questi «fundamental principles of the rule of law», in una sorta di teoria dei controlimiti (Schranken-Schranken) à la inglese. E tutto questo, si noti, non nell’isolata ricostruzione proposta da qualche autore “orientato al Continente”, ma nell’argomentazione autorevole di due giudici della Suprema Corte, cui ne aderiscono altre cinque.

Così, l’opinion di Neuberger e Mance in R (HS2 Action Alliance Ltd) v Secretary of State for Transport non soltanto apre la porta ad una rimodulazione della sistematica dei rapporti tra fonti nazionali ed eurounitarie (in direzione certamente sempre più euro-scettica), ma – ed è questo forse il dato più interessante – costituisce l’epifenomeno di un generale disagio d’oltremanica a applicare ancora i classici schemi del costituzionalismo sui generis della tradizione inglese. Neuberger e Mance, infatti, non solo danno per acquisita la distinzione tra fonti ordinarie e fonti costituzionali (“constitutional instruments”, cfr. par. 207), ma si spingono addirittura fino ad ipotizzare l’esistenza di “fundamental principles” sottratti al principio del primato. E pensare che solo poco più di un secolo fa, Dicey poteva dire con tranquillità che «né l’Act of Union con la Scozia né il Dentists Act del 1878 hanno più titolo di altri per essere considerati “legge suprema”».

Ma a questo punto, spingendoci oltre, l’interrogativo diventa: e il Parlamento – che, come si è visto, può derogare al primato statuendo che sia la fonte interna a prevalere – potrebbe, al rovescio, con un proprio provvedimento, autorizzare la deroga di questi “fundamental principles” ad opera di una fonte europea? Il senso generale del discorso di Neuberger e Mance suggerirebbe una risposta negativa; e da ciò deriverebbe una compressione notevole, de jure e non solo de facto, del principio della sovranità del Parlamento come tradizionalmente intesa. Ma ancora, ad absurdum: una volta ammessi questa sorta di controlimiti – in relazione a “fundamental principles” che evidentemente son tutti ancora da individuare – resta sempre spazio per la possibilità del Parlamento, comunque, di “sospendere” l’efficacia del primato del diritto eurounitario? Se l’ipotesi di una simile deroga era costruita, come si è accennato, come contraltare alla mancanza di un regime differenziato tra fonti (convezionalmente) ordinarie e fonti (convezionalmente, ancora) costituzionali, ha senso che essa sia mantenuta una volta che questa mancanza è colmata (almeno dai counter-limits, quindi almeno riguardo ai principi costituzionali fondamentali)? La teoria dei controlimiti, in fondo, lascia che si riespanda una forma di sovereignty of Constitution, e questo non può lasciare sostanzialmente immodificate le forme della sovereignty of Parliament. Con buona pace del povero Dicey.