Il costituzionalismo e la rappresentanza presi sul serio. A proposito del volume di Francesca Romana Dau “Costituzionalismo e rappresentanza. Il caso del Sudafrica”

«Il concetto moderno di rappresentanza non può porsi mai a fondamento degli ordinamenti liberal-democratici, che presuppongono l’affermazione della tolleranza, il pluralismo delle opinioni, la pacifica coesistenza di una pluralità di gruppi sociali in un medesimo contesto territoriale. Al contrario, il principio democratico crea un’autorità in «contrappeso al pluralismo dei gruppi di potere sociale ed economico», assumendo «il popolo (demos) come totalità politica», che supera e trascende «le divisioni pluralistiche». In questa prospettiva, la Costituzione «cerca di dare all’autorità la possibilità di unirsi direttamente con questa volontà politica generale e di agire come custode e difensore dell’unità costituzionale e della totalità del popolo». Sul fatto che questo tentativo riesca, si basano stabilità e durata di un regime politico effettivamente democratico.

Lo afferma, senza esitazioni, Carl Schmitt nel suo celebre Der Hüter der Verfassung del 1931. Passano due anni e quel tentativo produrrà un esito tra i più mostruosi della storia umana, annunciato dalla salita al potere dell’ex caporale dai baffi ridicoli, per l’occasione vestito comme il faut – cilindro, abito a code e ghette – foriero d’una terrificante catastrofe (come ben evidenzia Franco Cordero nel suo Leviathan contro Dike, in Micromega, 2006, n. 5, pp. 53 ss).

Non contento, nel 1971 il filosofo tedesco calca la mano, affermando che un regime specificamente liberale, in cui vige lo Stato di diritto, «porta a mitigare e indebolire il potere dello Stato in un sistema di controlli e ostacoli»: una tendenza che «non è essenziale alla democrazia in quanto forma politica, forse le è addirittura estranea». Cosicché, in neolingua schmittiana una «dittatura è possibile solo su un fondamento democratico». Detto altrimenti, il «liberalismo snatura la democrazia e la democrazia distrugge il liberalismo» (C. Schmitt, Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1972, in Premessa all’edizione italiana). E viene qui da ricordare quel calembour che lo scultore Marino Mazzacurati sfoggiò per un filosofo idealista passato poi al marxismo: “Il Platone d’esecuzione”. Che Schmitt non era purtroppo il solo; né la discendenza si può dire finita.

In ogni caso, questi passaggi del pensiero dell’autorevole politologo tedesco – qui solo sommariamente evocati – si imprestano a essere considerati come il prologo alle discussioni che, soprattutto dopo la terribile esperienza della seconda guerra dei trent’anni del 1914-1945 (come definita in particolare da G. Steiner, In Bluebeard’s Caste. Some Notes towards the Redefinition of Culture, New Haven, Yale University Press, 1971) hanno interessato l’assetto delle contemporanee democrazie costituzionali in merito a principio di rappresentanza. Un dibattitto che, nel panorama costituzional-comparatista italiano, è stato troppo spesso trattato con toni cupi e in chiave recessiva. In esso si inserisce ora il lavoro di Francesca Romana Dau (Costituzionalismo e rappresentanza. Il caso del Sudafrica, Milano, Giuffrè, 2011), capace di mettere in moto ciò che, nei romanzi di Agata Christie, Hercule Poirot chiama “le cellule grigie”. E lo fa esaminando l’evoluzione dell’ordinamento sudafricano, laboratorio costituzionale di grandi sperimentazioni, giustamente elevato a caso archetipo, paradigmatico.

Il volume si articola in sei capitoli densi e di facile lettura, nonostante i contorti aspetti tecnici sottostanti all’analisi, che l’Autrice disbroglia con attenzione e chiarezza, rendendoli accessibili anche per i non addetti ai lavori. Nel primo vengono in rilievo i principali istituti della democrazia rappresentativa sudafricana, per la quale si evidenza la correlazione esistente tra meccanismo di formazione della rappresentanza e visione generale della società (così come sottolineato da F. Lanchester, Gli strumenti della democrazia. Lezioni di Diritto costituzionale comparato, Milano, Giuffrè, 2004).

A differenza di quanto affermava C. Schmitt, l’affermazione di un demos unitario non è il presupposto per la dissimulazione delle differenze sociali. Piuttosto, esso diventa un mezzo per la loro esaltazione. E questo perché il principio di eguaglianza, pilastro delle democrazia costituzionali contemporanee, comporta anche la tutela del diritto alla differenza: il divieto di trattamenti discriminatori nei confronti di una o più diversità. Ed è oltremodo significativo che questo elemento venga sottolineato nel contesto giuspolitico del Sudafrica post-apartheid, mirabilmente descritta con la locuzione di raimbow nation: una «nazione plurale», capace di portare alla luce i «limiti del pensiero liberale che considerava l’omogeneità sociale e il consenso politico come prerequisiti essenziali per il radicamento di un regime democratico, mentre vedeva le divisioni sociali come fattori di instabilità e di continui capovolgimenti» (p. 3).

Consapevole dell’impossibilità di eliminare le differenze (ideologiche, culturali e religiose) presenti nel corpo sociale, se ne ribalta completamente la prospettiva. Invece che vederle sotto l’ottica del conflitto, della battaglia da vincere, il costituente sudafricano le considera in termini di dissenso politico. Se per un certo liberalismo il disaccordo è considerato come patologico, un prezzo da pagare per conseguire l’accordo e l’armonia, per l’ordinamento sudafricano il disaccordo diviene fisiologico: non un problema ma, se vogliamo, un’opportunità. In una compiuta democrazia costituzionale deve essere assicurato un consapevole e pacifico confronto fra esperienze umane d’altra (anche opposta) ispirazione. Motivo per cui, in questo scenario effettivamente – ossia concretamente – democratico (una democrazia non autofagica, ovverosia diversa da quelle che si sono affermate nella prima metà del secolo scorso), la Costituzione cerca di limitare il potere delle maggioranze contingenti, contribuendo all’affermazione di un «demos sociale, sostrato umano dello Stato» (p. 2): un’entità composta di vari elementi, ciascuno a suo modo connesso, ma al contempo dotato di una storia propria, di una vita separata.

La sfida è insomma imponente, tale da far tremare i polsi al più virtuoso e duttile dei costituzionalisti. Ma non per questo bisogna rinunciarvi. Ovvero arrendersi alle prese di posizioni di chi considera la democrazia rappresentativa incompatibile con uno Stato liberale sociale di diritto. L’esperienza del Sudafrica degli ultimi venti anni sta lì a dimostrarlo. E questo nonostante le contraddizioni e le difficoltà – che pure sussistono – frutto, a loro volta, di un lungo passato di diseguaglianze complesse e stratificate.

Il secondo capitolo analizza la dinamica dell’estensione dei diritti di partecipazione politica, evidenziando i punti di maggior rilievo nel dibattito circa la concezione del voto nel nuovo Sudafrica. Si scopre così che in questo Paese l’introduzione del suffragio universale non ha segnato solo la transizione da uno Stato monoclasse a uno pluriclasse, ma anche il cambiamento da un regime monocolore a uno multicolore (p. 56).

Ora, è facile in questo caso registrare il peso determinante esercitato dalla storia costituzionale antecedente – che la Costituzione è anche un prodotto degli eventi storici contingenti – come del resto si evidenzia già nel Preambolo della Carta del 1996: «We, the people of South Africa, Recognise the injustices of our past; Honour those who suffered for justice and freedom in our land; Respect those who have worked to build and develop our country …». Gli esiti, tuttavia, risultano peculiari rispetto a realtà statali con un passato di dominazione colonialista non dissimile da quello sudafricano.

In India, ad esempio, il processo di decolonizzazione ha visto l’affermarsi di meccanismi legali di azioni positive (affirmative actions) – individuate anche con gli evocativi appellativi di protective discrimination, reverse discrimination o compensatory discriminations – così come codificate nella Parte XVI (artt. 330-342) della Carta del 1950, con la quale alcune “classi” diventano le destinatarie di “disposizioni speciali”. In questo ambito, la battaglia in favore delle categorie svantaggiate si lega alla necessità di un loro maggior coinvolgimento nella struttura del potere statale. Le considerazioni di carattere socio-economico (la povertà, l’ingiustizia sociale) si intrecciano così con quelle di ordine politico (l’esclusione dei più deboli dai centri di potere): non separati o distinti, questi due elementi risultano ordinariamente e intimamente connessi, trovando una sintesi ideale nella c.d. reservation policy (politica delle quote) in materia elettorale. Che, non a caso, costituisce l’aspetto centrale delle disposizioni contenute nella Parte XVI della Costituzione indiana.
In Sudafrica, invece, l’insieme degli strumenti inseriti dalla dottrina nel novero dei meccanismi di discriminazione positiva è stato sovente utilizzato come «tecnica più o meno esplicita di discriminazione diretta o indiretta, finalizzata alla definizione di una rappresentanza diseguale e separata» (p. 57). Ciò spiega il particolare significato attribuito al diritto di voto che, stando alle parole del Chief Justice Chaskalson, «rappresenta un diritto prezioso», tale da «essere attentamente rispettato e protetto». Senza però dimenticare che in passato proprio questo diritto è stato utilizzato come “arma legale” per legittimare e «consolidare la supremazia dei bianchi e per lasciare ai margini la maggioranza delle persone nel nostro [Sudafrica] paese» (p. 61). Ne discende l’enfasi posta sulla titolarità individuale del suddetto diritto (one person, one vote), che trova una sintesi ideale nelle parole pronunciate da Nelson Mandela quando, nella sua autobiografia, affronta la questione del fondamento dell’autonomia: «tutti sono liberi di esprimere la propria opinione e tutti sono uguali in quanto cittadini» (p. 107).
Di fronte alla diseguaglianza sostanziale, l’eguaglianza dei cittadini si realizza «nella democrazia politica attraverso il principio dell’eguaglianza formale del voto» (p. 109). Ciò spiega l’orientamento della Corte costituzionale che, intervenendo sul tema, ha collegato in modo indissolubile la titolarità del diritto di voto alla dignità dell’uomo, coinvolgendo anche il «principio di eguaglianza della rappresentanza» (p. 109), fino a solcare le tematiche legate al sistema partitico (Capitolo III, pp. 119 ss.).

Siamo innanzi agli snodi dei fenomeni di tipo storico, sociale e politico che hanno dominato l’evoluzione costituzionale in questo Paese, a partire dalla problematica razziale, attenuata solo in parte dalla vocazione universalistica dell’African National Congress; vero e proprio ruling party nel periodo successivo all’apartheid. D’altra parte, il peculiare contesto politico-istituzionale, nonché l’influssi e le pressione dell’ambiente, hanno contribuito in modo decisivo «nel dare l’imprinting ai partiti sudafricani», profondamente influenzati dalle ideologie della denominazione e delle resistenza, ossia dallo scontro tra i gruppi dominanti e gruppi dominati (p. 127). Si arriva in tal modo al quarto capitolo del volume in commento, incentrato sugli elementi “tecnici” della rappresentanza, così come determinati dal sistema elettorale e dalla legislazione elettorale di contorno. A porsi in rilievo è ancora una volta la necessità di stabilire un differente approccio – rispetto al periodo coloniale – del principio di eguaglianza, nel senso formale e sostanziale della formula.
Un approccio che obbliga a riconoscere la libertà in misura eguale: a trattare le persone tanto as equals quanto equally (per dirla con Ronald Dworkin), tenendo conto delle differenze, sovente riconducibili a identità e appartenenze culturalmente e religiosamente connotate. Ne deriva l’importanza rivestita dagli strumenti tecnici della rappresentanza che, in una società profondamente divisa e reduce da un violento conflitto, assumono un’ulteriore valenza: quella di mezzi chiave «per ristabilire e mantenere l’equilibrio tra i gruppi», sancendo regole condivise per «l’accesso e l’alternanza al potere, e per la conseguente ripartizione delle risorse» (p. 182). Si è così in grado di scorgere una doppia valenza nel costituzionalismo sudafricano, basata, da un lato, sui limiti e le garanzie da opporre al potere statale in difesa delle sfere di autonomia e dei diritti fondamentali degli individui e, dall’altro, sull’effettiva partecipazione delle diverse comunità alla costruzione e alla gestione di quel potere. Di qui il ruolo svolto dai partiti, concepiti come strumenti di mediazione del rapporto di rappresentanza fra corpo elettorale e istituzioni rappresentative. Un punto, questo, fondamentale dell’indagine, su cui l’Autrice focalizza giustamente la sua attenzione, evidenziando peculiarità e problematiche della “clausola anti-defezione”: le sue implicazioni nell’ordinamento sudafricano e nei sistemi legali di recente democratizzazione.
Si tratta del principio costituzionale di cui all’art. 47 della Costituzione, lì dove si afferma la sanzione della perdita del seggio in Assemblea nel caso in cui l’eletto cambi gruppo parlamentare durante la legislatura (p. 211). Sotto questo profilo, l’analisi si sviluppa facendo ricorso a una efficace metafora, che vede la rappresentanza politica come un triangolo costruito su tre lati formati: 1) «dal contenuto costituzionale del mandato parlamentare; 2) dal sistema elettorale; e 3) dal sistema partitico» (p. 213). Ne discende un criterio di indagine multidimensionale, in grado di esaltare le caratteristiche del principio di rappresentanza, così come desunto dalla combinazione dei suddetti fattori.
Si scorge in tal modo come il costituente post-apartheid abbia voluto conferire una precisa definizione della rappresentanza, delimitandone i confini normativi entro la formula della representative theory of the imperative mandate: il pubblico rappresentante assume qui le vesti di un delegate e non di un trustee (p. 216). Ciò che pone non pochi problemi rispetto a materie c.d. eticamente e religiosamente sensibili, rispetto alle quali i singoli parlamentari invocano sovente il vote of conscience, opponendosi alle direttive del Chief Whip del partito di riferimento. Lo testimonia la complessa vicenda legata all’approvazione del Civil Union Act 2006, dalla quale emergono le profonde connessioni che si «vengono a creare fra la disciplina del mandato e il sistema delle fonti» (pp. 217 ss.).
Di più, l’analisi della clausola anti-defezione consente all’Autrice di cogliere un altro importante aspetto del costituzionalismo sudafricano, suscettibile di riflessioni che vanno al di là di quel specifico contesto normativo. In altre parole, la disciplina dello status del singolo deputato è tale da «coinvolgere profili più ampi», compreso quello della forma di governo, oggetto principale del sesto (e ultimo) capitolo dell’opera. Questo s’incentra in particolare sul ruolo dell’opposizione politica e del potere giurisdizionale (a cominciare dall’istanza apicale), stimolando una differente interpretazione del principio di separazione poteri, considerato da molti come la “norma di riconoscimento di una democrazia costituzionale” (come sostiene, fra gli altri, L. Ferrajoli).
Quanto al primo punto, l’affermazione costituzionale dello statuto dell’opposizione porta a evidenziare come la separazione dei poteri non rilevi più nella classica contrapposizione fra Esecutivo e Legislativo, bensì nel dialettico confronto fra maggioranza e minoranza parlamentare (p. 268). Oggi, infatti, il senso della separazione fra il Parlamento e Governo – che servì ad affrancare la produzione legislativa dall’assolutismo regio, sottoponendo quest’ultimo alla supremazia del diritto – ha perso gran parte della sua operatività. Nei regimi Parlamentari il potere esecutivo e quello legislativo sono entrambi legittimati dalla rappresentanza politica: il primo è generalmente vincolato al secondo da un rapporto di fiducia, mentre il Capo del Governo di solito è anche il leader della maggioranza in Parlamento. Il rapporto tra questi due poteri si esprime così in una comunanza di destini: se il Governo non si sottomette alla volontà (maggioritaria) del Parlamento, deve necessariamente dimettersi; allo stesso modo, se il l’Assemblea ritiene che l’attività governativa non sia più in linea con i propri orientamenti politici, induce il l’Esecutivo alle dimissioni. Un esempio, questo, paradigmatico di quanto i due poteri, più che organicamente separati, siano, in realtà, funzionalmente e ordinariamente condivisi, e assieme operano nel quadro delle regole – del gioco – pre-stabilite in Costituzione. Regole che, per gli stessi motivi, sono sottratte al volere di maggioranze contingenti e ideologicamente orientate. In questo senso, il costituzionalismo s’identifica «anche come scienza della limitazione del potere» (come sostiene M. Luciani), con riguardo non solo alle forme, predisposte a garanzia dell’affermazione della volontà della maggioranza, ma anche ai modi di attuazione del suo esercizio.
Insomma, in una democrazia costituzionale si consente e si preserva il dissenso, istituzionalizzato nella figura dell’opposizione politica la quale, a sua volta, assurge a organo della sovranità popolare altrettanto vitale quanto il Governo. Ragione per cui, come affermava già nel 1947 G. Ferrero, “sopprimere l’opposizione significa sopprimere la sovranità del popolo”.
È il grande dilemma che il costituzionalismo del secondo dopoguerra ha tentato di risolvere mediante la proclamazione dei diritti fondamentali, la cui istituzione è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità e uguaglianza saranno rispettate. Motivo per cui, nel costituzionalismo contemporaneo dignità ed eguaglianza si pongono alla base della convenzione costituente (la Costituzione), coinvolgendo anche la forma di governo: non sono negate né dissimulate come avviene invece nei regimi assolutistici, compresi quelli che si esprimono con «la nuda forza della società» o l’«ideologia della volontà generale» (come ha ribadito di recente G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 115 ss., riprendendo alcune riflessioni di R. Dworkin e P. Häberle).
Al contrario, utilizzato per descrivere l’autonomia e l’indipendenza del Giudiziario, il principio della separazione dei poteri non solo conserva la sua originaria valenza ma, anzi, rafforza la sua importanza. Si tratta pur sempre di una separazione concepita entro la classica tripartizione dei pubblici poteri (Legislativo, Esecutivo e Giudiziario), ma che col tempo ha accentuato la funzione di garanzia della giuris-dizione.

Nell’odierna formula dello Stato di diritto l’autonomia e l’imparzialità del giusdicente diventano consustanziali all’applicazione della legge, alla soddisfazione dei diritti fondamentali (costituzionali) e al rispetto del principio di eguaglianza. Tutti elementi che, attualmente, definiscono le “qualità essenziali” (secondo la nota formula di Charles Mcilwain) di un ordinamento costituzionale, i suoi “caratteri permanenti” (per dirla con A. Barbera). Da cui la tendenza a rivalutare il momento giurisprudenziale del diritto, configurato come una fonte – concorrente e strumentale – di produzione giuridica: la giurisdizione diventa essa stessa l’espressione di una source del diritto, incidendo sulla concreta operatività dei principi di separazione e di divisione dei poteri.
Anche perché in una società pluralista, come quella africana, la regolamentazione giuridica non può avvenire solo per norme, come in una società monoculturale e monoreligiosa, in quanto i comportamenti degli individui sono frutto di valutazioni differenti, quindi non sempre prevedibili. Spetta dunque ai giudici il compito di individuare e rimuovere gli ostacoli sulla via dell’eguaglianza (comprese quella razziale e religiosa), tutelando al contempo le differenze (soprattutto quelle basate sul grado di pigmentazione della pelle). Una funzione, quella dei giudici, e in particolare delle Corti apicali, che trova una sua giustificazione anche rispetto alla nozione di legge: norma generale e astratta la quale, proprio per queste sue qualità, dopo che è stata promulgata, perché “viva” deve essere applicata – vale a dire interpretata – in relazione ad un caso particolare. La norma di legge diventa così una variabile del significato della massima contenuta nel testo, che tiene conto dei principi affermati in Costituzione.
Ciò spiega l’affermazione di F. R. Dau, per la quale il sistema di pesi e contrappesi previsti dall’ordinamento sudafricano si perfeziona «con la previsione di un organo tradizionalmente di controllo, la Corte costituzionale, che si presenta come un attore protagonista nel concreto dispiegarsi del processo costituente. L’istituzione di un’istanza giurisdizionale di controllo e di sindacato delle leggi e dei diritti fondamentali era il corollario della rivoluzione costituzionale operata con la transizione dalla parliamentary alla constitutional supremacy» (p. 277).
Da notare che nella quotidiana fatica della giurisprudenza, l’istanza apicale sudafricana attinge spesso al comparable foreign case law: alle scelte normative e agli orientamenti giurisprudenziali di altri ordinamenti statali, utilizzati spesso come ausilio argomentativo al proprio quadro decisorio. Operazione espressamente legittimata dall’art. 39 (c. 1) della Carta, lì dove si afferma che, «When interpreting the Bill of Rights, a court, tribunal or forum must consider»: «(B) international law; and (C) may consider foreign law». In questo modo, mediante anche l’opera della Corte costituzionale, l’esperienza giuspolitica sudafricana diventa un attore importante nell’odierno processo di Denationalization of constitutional law (come lo definiscono G. De Burca, O. Gerstenberg, in Harvard International Law Journal, 2006, vol. 47, n. 1), che procede verso l’affermazione del c.d. “costituzionalismo destatalizzato”: una sorta «“city of judges and rights”», dotata di un suo «space, its own laws, different from those of other legal institutions».
Un luogo del costituzionalismo «where judges are the only inhabitants, and rights the central issue» (come ben evidenzia Maria Rosaria Ferrarese nel suo When National Actors Become Transnational: Transjudicial Dialogue between Democracy and Constitutionalism, in Global Jurist, 2009).

Come si può notare, il problema della «rappresentanza politica non investe solo la definizione degli elementi tecnici dei sistemi elettorali e della legislazione elettorale di contorno, ma coinvolge appieno la dimensione procedurale e amministrativa delle votazioni», assumendo «il valore di garanzia nel concreto realizzarsi del diritto fondamentale del singolo di autodeterminarsi nella sfera politica» (p. 306). Un orientamento, questo, antitetico al sistema di pensiero “organicista e storicista” (come lo definiva KR. Popper), per il quale «l’attività (politica) del rappresentante» è spesso ridotta a «una mera rappresentazione di qualcosa che non c’è» (G. Azzariti, Lo Stato costituzionale schmittiano, in AA.VV., Scritti in onore di Gianni Ferrara, Torino, Giappichelli, 2005, p. 177). Vero è che la rappresentanza politica, quanto più si avvicina al principio di “rappresentazione”, tanto più si determina entro l’ambiguo schema oppositivo presenza/assenza del rappresentato. Ma essa non potrà mai giungere a escludere completamente il soggetto che rappresenta nella sua materiale esistenza.
Un motivo in più per leggere il volume di F. R. Dau che, con questa lodevole vicenda editoriale, costituisce un antidoto alla proliferazione degli incantesimi verbali, come quelli coltivati attorno al principio di rappresentanza, nelle sue più o meno timide varianti.