Il crocifisso nelle aule scolastiche alla luce di Sezioni Unite 24414/2021. I risvolti pratici della libertà

Il 9 settembre 2021 le Sezioni Unite civili della Cassazione depositano la sentenza n. 24414 riguardante l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Lettura istruttiva. Lo è anche perché foriera di opportunità. Compresa quella di arginare gli effetti delle tensioni agonistiche e dei funambolismi verbali, come almanaccati in un dibattito ultraventennale.
I fatti di causa riguardano un istituto scolastico pubblico dove nel 2008, su iniziativa di due studentesse, il crocifisso è affisso sulla parete di una delle classi. Il professore Franco Coppoli manifesta disapprovazione: reclamando il rispetto della libertà di insegnamento e del principio di neutralità della scuola pubblica, rimuove il simbolo dalla parete durante la permanenza in aula.  Riuniti in assemblea, gli studenti si pronunciano a maggioranza a favore dell’affissione. Stimolano in tal modo l’ordine di servizio del dirigente scolastico che, impartendo la stabile fissazione del crocifisso, diffida formalmente il Coppoli “dal continuare in questa rimozione che sta creando negli studenti frustrazione, incertezza e preoccupazione”. Il docente non arretra: continua in “autotutela” a rimuovere il simbolo per riappenderlo al termine delle sue lezioni. Ne consegue l’irrogazione della sanzione disciplinare con cui il Coppoli è sospeso dall’insegnamento per un periodo di trenta giorni.
Dopo le decisioni del Tribunale di Terni e della Corte d’appello di Perugia, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione analizzano la questione iniziando dall’inquadramento normativo.
L’obbligatorietà dell’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica è prevista dagli artt. 118 e 119 dei rispettivi regi decreti del 1924 (n. 965) e del 1928 (n. 1297). È cioè imposta da atti privi di forza di legge, come rimarca l’ordinanza 389/2004 con cui la Consulta ha dichiarato inammissibile la questione di illegittimità costituzionale. Tuttora in vigore, i regi decreti sono applicabili alle scuole pubbliche di ogni ordine e grado.  Il crocifisso, d’altra parte, non può essere genericamente assunto quale emblema culturale.  È un simbolo religioso. E in ciò la Cassazione cerca di ripulire il discorso dagli opachi orientamenti dei giudici amministrativi (vedi TAR Veneto e Consiglio di Stato). Lo fa solcando la giurisprudenza della Grande Camera della Corte EDU, come definita dalla sentenza Lautsi del 2011, i cui contenuti sono stati peraltro equivocati dalle istanze giudiziarie inferiori.
In questo modo, le Sezioni Unite riannodano i fili essenziali della trama giuscostituzionale, focalizzando l’attenzione su aspetti tanto evidenti quanto esposti agli influssi di vecchi arnesi normativi e vaghe formule interpretative. Onde evitare che queste ultime continuino ad operare l’imprinting, si ribadisce senza indugi e infingimenti uno punto fermo nella vexata quaestio: l’obbligatorietà dell’esposizione del crocifisso è in contrasto con il principio supremo di laicità. Tanto più che l’obbligo è stabilito mediante fonti regolamentari il cui contenuto rinvia al carattere confessionista dello Stato, in vigore prima della irrimediabile rottura del 1948. La teoria del diritto la descrive come rivoluzione, nel senso tecnico e legale dell’espressione. La sua forza è tale da tracciare un solco profondo con il previgente regime confessionista. Lo fa dando vita alla Costituzione, il primo e il più eminente prodotto normativo dell’Italia laica e repubblicana.
Si piegano così le parole delle Sezioni Unite, per cui “la religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo; ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita”. La conferma giunge dagli orientamenti della Consulta che, delineando i profili del principio supremo di laicità, rimarca l’importanza della distinzione dell’ordine delle questioni civili da quello dell’esperienza religiosa. La laicità vuol dire innanzitutto equidistanza, quindi separazione, dello Stato rispetto alle religioni. Solo così può candidarsi a svolgere il ruolo di garanzia dell’eguale libertà di credenti (nella Chiesa cattolica), di diversamente credenti (nelle confessioni di minoranza) e di non credenti (laici, agnostici e razionalisti).
Sicché, non potendo procedere all’annullamento puro e semplice dei regi decreti, la Corte ne impone l’implicita disapplicazione al caso di specie. Ciò a sua volta si riflette nell’annullamento del provvedimento disciplinare contro il docente dissenziente. Ne deriva il parallelo con il precedente della IV Sezione penale del 1 marzo 2000 (n. 439), quando l’implicita disapplicazione della norma regolamentare portò all’assoluzione di uno scrutatore che aveva obiettato alla presenza del crocifisso nei seggi elettorali.
Il che, tuttavia, non si traduce nel divieto assoluto di affissione del simbolo religioso.
Sul punto è da dire che, appigliandosi alla corposa giurisprudenza statale e sovrastatale in tema di discriminazione diretta e indiretta sui luoghi di lavoro, le Sezioni Unite escludono la violazione della direttiva 2000/78/CE e del relativo decreto legislativo 216/2003. Nel dare recepimento alla volontà espressa dall’assemblea degli studenti in ordine alla presenza del crocifisso, la dirigenza scolastica non ha connotato in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica dell’insegnamento. Non ha aderito ai valori della religione cattolica, né ha costretto o indotto a svolgere e subire attività di insegnamento informate ai principi del cattolicesimo. Dallo sfondo argomentativo si staglia così la formula del crocifisso appeso al muro come simbolo essenzialmente passivo. Formula, questa, adoperata dalla nella citata pronuncia Lautsi cui le Sezioni Unite rinviano espressamente.
Resta che, seppur implicita, la disapplicazione dei regi decreti evidenzia il carattere non obbligatorio del crocifisso. Tanto che la sua presenza in aula si legittima solo nei termini della facoltativa esposizione. Deve essere voluto dalla comunità scolastica e non imposto autoritativamente come richiesto dalla norma degli anni Venti del secolo scorso. Se va o meno appeso sulla parete è in altre parole decisione che va democraticamente determinata. Ad imporlo sono i canoni dell’accomodamento ragionevole, così come mutuato da altre esperienze giurisprudenziali, non ultima quella afferente alla Corte Suprema del Canada.
Le Sezioni Unite dimostrano in tal modo un’insolita apertura agli orientamenti di giurisdizioni apicali di altri paesi occidentali. Lo attestano, fra gli altri, gli espliciti richiami alle decisioni del Tribunale federale svizzero e del Tribunale costituzionale federale tedesco.  Nel 1995, quest’ultimo dichiara incostituzionale il regolamento bavarese sull’obbligatoria esposizione della croce nelle aule delle scuole pubbliche elementari. Che l’istruzione statale non possa trascurare l’esercizio del diritto di libertà religiosa della maggioranza è cosa nota e pacifica. Ma è altrettanto evidente, precisa l’alta giurisdizione federale, che questo diritto incontra nel suo esercizio i limiti derivanti dalla tutela di altri beni costituzionalmente garantiti. In primo luogo, quelli rappresentati dai diritti fondamentali delle minoranze di credenti e di non credenti. Il criterio di risoluzione dei possibili conflitti andrebbe pertanto ricercato nel principio di una pratica e paritaria ponderazione, come tale rispettosa delle differenti situazioni giuridiche e non incline a una irragionevole difesa di privilegi.
Da notare che la decisione del Tribunale costituzionale ispira la legge bavarese del 23 dicembre 1995 (Bayerisches Gesetz über  das  Erziehungs-  und Unterrichtswesen,  BayEUG), nella quale si registra un preciso riferimento al tentativo di conciliazione che essere svolto dal dirigente scolastico. In caso di esito negativo, quest’ultimo ha il dovere di realizzare una regola ad hoc per il caso singolo. Una regola che rispetti la libertà di religione del dissenziente e operi, per quanto possibile, un giusto contemperamento delle convinzioni religiose e ideologiche di tutti i soggetti coinvolti.
Il 18 dicembre 2009, assieme ad altri Senatori della Repubblica, Stefano Ceccanti cerca di trapiantare in Italia questa soluzione. Lo fa presentando il disegno di legge A.S. 1947 che, tuttavia, non sarà mai approvato. Alla luce dell’esperienza bavarese, i suoi contenuti s’attestano nondimeno come utile e ulteriore tassello per chiarire i risvolti pratici della sentenza in commento.
Uno, in particolare, deriva dall’analisi dell’atteggiamento del dirigente scolastico che, nel caso di specie, non ha cercato un accomodamento ragionevole. Ha emanato l’ordine di servizio sulla base della decisione assembleare e, innanzi al rifiuto del Coppoli di rispettare le prescrizioni, ha chiesto di irrogare la sanzione. Lo ha fatto senza tenere conto delle posizioni del docente dissenziente, rimasto perciò estraneo al processo deliberativo.
Il dirigente non si è impegnato nella ricerca di una soluzione che, a detta delle Sezioni Unite, si articola “in scelte da effettuare caso per caso, alla luce delle concrete esigenze, nei singoli istituti scolastici, con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo del più ampio consenso”. Ma ciò è possibile solo se si parte dal basilare presupposto per cui la parete dell’aula nasce bianca. Se debba rimanere tale o accogliere il crocifisso è decisione da prendere con la partecipazione di tutte le componenti della comunità scolastica.
Per questi motivi, il dirigente scolastico ha precluso la via a soluzioni potenzialmente accomodanti, tra le quali non si esclude l’affissione sul muro della stessa aula, accanto al crocifisso, di un simbolo o di una frase capace di testimoniare l’appartenenza della nostra società al patrimonio della cultura laica. Né è stata discussa l’eventualità di collocare il crocifisso su una parete differente rispetto a quella che dà le spalle al docente. Lo stesso si dica dell’evenienza di spostarlo durante l’ora di lezione del dissenziente.
Dallo sfondo delle motivazioni riemerge così la fondamentale promessa del costituzionalismo liberale, per cui la maggioranza deve sempre impegnarsi nei confronti della minoranza a tutelare la sua identità e dignità. Lo deve fare nel quadro di una eguaglianza rispettosa delle diversità e avulsa da irragionevoli distinzioni, incluse quelle basate sulla nuda forza del numero. In merito all’affissione o meno del crocifisso, questo significa che non deve prevalere il principio maggioritario puro e semplice. In materia di diritti fondamentali la volontà della maggioranza non è mai decisiva come tale. Deve essere contemperata dal ruolo della dirigenza scolastica, chiamata a svolgere il ruolo di mediatore terzo e imparziale.
Se questo orientamento sia poi sufficiente a mettere una croce sopra all’annosa questione e deflazionare il contenzioso è tutto da verificare.
In effetti, dal quadro decisorio riaffiora quello che, parafrasando il titolo in inglese del fortunato libro di Sigmund Freud, possiamo definire come disagio della civiltà del diritto. Un disagio, va detto, salutare per la vita delle democrazie costituzionali. In quanto disagio, tuttavia, non è alieno da problemi pratici che, per dirla con Carlo Arturo Jemolo, sono i problemi della libertà. I quali, connessi con la questione del crocifisso, vengono cacciati dalla porta della cessata obbligatorietà per poi entrare – necessariamente – dalla finestra del procedimento di mediazione. Un procedimento che, come tale, non può svolgersi all’infinito e che, innanzi a posizioni non conciliabili, deve concludersi con una decisione. E non è detto che sia la più accomodante per tutti i diritti e gli interessi in gioco.
Le Sezione Unite ne sono consapevoli.
In caso di fallimento della mediazione, è bene adottare la soluzione “più armonica con i principi”, afferma la Corte. Ed è armonica con i principi la determinazione del dirigente che rifletta un equo contemperamento fra la tutela della libertà positiva di religione, e quindi di affissione del crocifisso, e la libertà negativa dei dissenzienti, compresa quella di incidere sul quomodo della collocazione del simbolo religioso. Il tutto deve essere svolto secondo i canoni della proporzionalità e conformemente alla natura chiaroscurale del bilanciamento fra i diritti e le libertà. Tanto più in un’epoca caratterizzata della diversità cultural-religiosa.
Ciò, a sua volta, riporta la mente ai non sempre agevoli tentativi di far coabitare sotto lo stesso tetto del principio supremo il favor libertatis (di cui agli artt. 2, 3 e 19 Cost.) e il favor religionis (desunto dagli artt. 7, 8 e 20 Cost.), propri dell’“attitudine laica dello Stato repubblicano” (Corte cost., n. 203/1989). Una coabitazione che sovente si traduce in disarmonica e turbolenta convivenza. Anche perché il favor religionis è fortemente condizionato da una tendenza elitaria, circoscritta in particolare alla Chiesa cattolica. Quando invece il favor libertatis spinge il principio di laicità verso l’eguaglianza delle opportunità, quindi verso il ragionevole accomodamento di tutte le istanze cultural-religiose.
Sotto questo aspetto, la novità saliente della sentenza del 9 settembre 2021 è rappresentata dal fatto che le Sezioni Unite cercano – per quanto possibile – di fare leva sul favor libertatis, spingendo il principio supremo di laicità sul suo côté pluralista e accogliente (quindi non escludente e assimilazionista come può essere un modello di Stato improntato alla laïcité de combat). Il che ridimensiona le tendenze elitarie del favor religionis, sotto le quali per troppo tempo si è giustificato il carattere autoritativo dei regi decreti e, quindi, l’obbligo generalizzato di esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.
I risvolti pratici di questa operazione impongono però di fare anche leva sulla recta ratio, dove rectitudo non significa asservimento a valori assoluti infallibilmente presupposti. La laicità è recta quando il valutante la utilizza con scandaglio critico, improntato a seri tentativi di falsificazione e a un severo processo conoscitivo per prova ed errore. Insomma, questa operaziona rinvia alla necessità di non porsi sopra la mischia dell’esperienza empirica. Né tanto meno va sottovalutata la quotidiana fatica di pacifica composizione di varie e conflittuali posizioni giuridiche, così come peraltro alimentate dall’umanità nell’età della diversità e dei diritti.
Con tutti i disagi – della libertà – che ciò può comportare.
In fondo, è questo l’aspetto più problematico, ma al contempo il più qualificante, della sentenza del 9 settembre 2021 delle Sezioni Unite. Accanto all’affermazione del carattere facoltativo dell’esposizione del crocifisso, i risvolti pratici di questa decisione si riverberano in un ventaglio di possibilità polivalenti, aperto a varie prospettive. Speriamo prevalgano le meno intransigenti.
Speriamo cioè prevalgano tendenze e atteggiamenti che, prendendo atto dell’incompatibilità fra obbligo del simbolo religioso e laicità dello Stato, si informino all’umile processo deliberativo sine praeiudicio melioris sententiae e probabiliter loquendo, nel senso ragionevole e quanto più accomodante della formula.