Il diritto all’asilo e la nebulizzazione dell’indirizzo politico: cosa racconta Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant?

La decisione della Corte Suprema nel caso Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant (588 U. S. __ (2019) ha guadagnato la dignità sostanziale di sentenza benché si tratti di un decreto di sospensione, privo di motivazione e, però, accompagnato da una brevissima dissenting opinion, firmata da Justice Sotomayor e condivisa da Justice Ginsburg.
La sospensione colpisce due ordinanze della corte distrettuale dello Stato della California, con le quali era stata bloccata l’applicazione della rule 16 luglio 2019 (84 Fed. Reg. 33829), adottata dal Department of Justice di concerto con il Department of Homeland Security. Il provvedimento normativo inibisce la presentazione di domande di asilo e di protezione internazionale agli immigrati che giungono alla frontiera meridionale degli Stati Uniti, avendo precedentemente attraversato il Messico ovvero altro paese terzo senza aver ivi richiesto rifugio. L’esecutivo, nella memoria di costituzione in giudizio in sede di ricorso presentato da un’organizzazione umanitaria, spiega la ratio della nuova regola in questi termini: la circostanza per cui gli immigrati non si premurano di richiedere asilo o analoga forma di protezione internazionale nei paesi che attraversano prima di giungere al confine testimonia che non si tratta di soggetti in fuga da situazioni di pericolo imminente, bensì di migranti economici che scelgono liberamente gli Stati Uniti come stato di residenza. La spiegazione non soddisfa la corte di distretto che adotta, in due occasioni, preliminary injunctions così arrestando l’applicazione della regola. Il governo appella la decisione presso la corte del Ninth Circuit e, a fronte del diniego di quest’ultima che decide di procedere nel merito, chiede alla Corte Suprema la sospensione delle due ordinanze di primo grado. Il collegio concede la sospensiva e consente in tal modo all’esecutivo di realizzare la nuova policy in materia di immigrazione.
La sospensione è insomma una vittoria per Trump, soprattutto ove si consideri che, da quasi due anni, la presidenza è costretta a difendere la disciplina dell’immigrazione in diverse sedi giudiziarie. Alcune corti di distretto hanno, per esempio, bloccato l’applicazione del travel ban, il decreto presidenziale che vietava l’ingresso a tutti i cittadini provenienti da sette paesi individuati come ricettacoli di estremismo e terrorismo, attraverso preliminary injunctions a effetti generali, applicabili cioè erga omnes. La questione ha generato uno scontro tra magistratura ed esecutivo, culminato in dichiarazioni di Trump dalle quali Justice Gorsuch, allora udito in Senato per la conferma della sua nomina, ha dovuto prontamente dissociarsi, onde assicurarsi la ratifica della designazione presidenziale. L’intervento della Corte Suprema ha infine risolto lo scontro. Secondo il Collegio il Presidente gode, infatti, del potere di vietare l’ingresso agli stranieri che egli reputi costituire un pericolo per gli interessi del Paese (Trump v. Hawaii, 138 S.Ct. 2392).
Archiviato il travel ban, l’Amministrazione si concentra ora sul diritto all’asilo. La decisione di concedere lo stay of proceedings si inserisce, dunque, in questo contesto e merita lo spazio per una riflessione per almeno due ragioni. La prima è di politica del diritto: la sospensione lascia supporre che la Corte intenda occuparsi della disciplina dell’immigrazione, inserendola nel docket del prossimo anno giudiziario se, come è assai probabile, la sentenza del Ninth Circuit dovesse essere appellata. La seconda ha invece a che fare con le questioni giuridiche sollevate dal caso, rispetto alle quali la Corte Suprema ha in realtà espresso solo una minima valutazione di merito: attraverso la decisione di restaurare il vigore del provvedimento normativo che quelle ordinanze avevano bloccato, infatti, i giudici supremi hanno dubitato l’esistenza del fumus boni iuris, ossia la plausibilità di una vittoria nel merito del ricorso avverso la legittimità della rule. In altri termini, per la Corte quel provvedimento non è patentemente viziato e, dunque, può restare in vigore nelle more del giudizio pendente davanti alla corte di circuito. Nulla di più si può ricavare sulla posizione della Corte, poiché non è escluso che un eventuale vaglio di costituzionalità conduca il collegio a conclusioni diverse. E ciò perché, a differenza della decisione Trump v. Hawaii, la vicenda in commento solleva un problema che attiene immediatamente ai diritti fondamentali, più che all’ampiezza dei poteri dell’esecutivo in materia di immigrazione.
A ben vedere, la rule adottata nel luglio 2019 riduce sensibilmente la titolarità del diritto all’asilo negli Stati Uniti. La circostanza è evidente se si consideri l’asylum statute (94 Stat. 105, codificata nel 8 U. S. C. §1158. See §1158(b)(2)(C)). Quest’ultimo prevede, infatti, che qualunque non cittadino possa chiedere asilo negli Stati Uniti, benché con talune puntuali eccezioni. Per esempio, la domanda di asilo può essere trasferita altrove o negata quando il non cittadino può essere ricollocato in un terzo paese sicuro. Inoltre, la legge sull’asilo chiarisce che l’eventuale normativa secondaria deve essere coerente con le previsioni della legge stessa. La nuova regola, invece, contempla un’eccezione generalizzata per tutti coloro che attraversano il confine meridionale degli Stati Uniti, a meno che essi non provino di aver infruttuosamente chiesto asilo in Messico o in altro paese del Sud America.
Dal punto di vista del diritto comparato, la regola si presta a essere letta come un esempio di trapianto giuridico decontestualizzato. Il diritto internazionale impone alle autorità nazionali competenti di procedere all’esame delle domande di asilo di coloro che ne facciano richiesta. Durante la procedura di esame, lo straniero è assistito da una serie di tutele e, soprattutto, ha il diritto di avere il proprio caso individualmente vagliato dallo Stato al quale chiede protezione. A ben vedere, la disposizione sull’escludibilità delle domande di asilo presentate da soggetti per i quali gli Stati Uniti non sono il paese di “primo approdo” ripropone la logica interna al cosiddetto sistema di Dublino, il quadro legislativo che coordina la gestione del fenomeno migratorio nell’Unione europea. Ora, in questo contesto, un Paese Membro può legittimamente declinare la propria competenza a decidere sulla richiesta di asilo o protezione internazionale del cittadino di paese terzo che abbia precedentemente raggiunto un altro paese europeo ove ha presentato o poteva presentare domanda di asilo. La finalità è quella di evitare una sorta di country shopping all’interno dell’UE, posto che si presume che le situazioni autenticamente meritevoli di protezione richiedano un’assistenza immediata e siano incompatibili con l’idea per cui il soggetto interessato abbia il tempo di scegliere il paese che più gli aggrada. Solo che questa logica regge perché l’Unione si propone di essere un ordinamento all’interno del quale la responsabilità per la gestione del fenomeno migratorio e per la tutela dei diritti è condivisa, sull’assunto dell’esistenza di un’integrazione politica delle comunità statali. Tanto è vero che il trasferimento dell’onere di esaminare le domande di asilo è pur sempre condizionato alla circostanza per cui il paese individuato in via sussidiaria offra effettive garanzie (in specie il diritto a chiedere asilo). Si tratta di una premessa di cui la rule del luglio 2019 non si cura affatto. In altri termini, nel quadro europeo, la previsione di ipotesi di esclusione dell’obbligo di procedere all’esame delle domande di asilo e protezione internazionale riflette un principio di coordinamento tra gli stati nell’obiettivo della responsabilizzazione di tutte le comunità politiche. Nel contesto americano, quella stessa previsione si traduce nell’attribuzione al migrante dell’onere di individuare prontamente le autorità competenti in uno dei paesi che attraversa, a prescindere dall’esistenza di effettivi strumenti per ottenere asilo o altra forma di protezione internazionale. In ultima analisi, la rule priva i migranti di un effettivo diritto di asilo, in aperta violazione del diritto internazionale.
Ora, questa Corte, incline a riconoscere al presidente un’ampia discrezionalità in materia di immigrazione e modestamente sensibile al diritto internazionale, potrebbe non prestare attenzione a questi profili. Tuttavia, la vicenda sottesa ad Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant verte anche su un’altra questione, assai più insidiosa per questo collegio. Infatti, la rule in questione è stata adottata, come rimarca la dissenting opinion di Justice Sotomayor, attraverso una unorthodox rulemaking procedure, ossia in assenza delle procedure consultive che la legge sul procedimento amministrativo richiede al governo federale e alle agenzie di esperire prima di emanare regolamenti e/o altri provvedimenti equiparabili. Curiosamente proprio la Presidenza Trump ha individuato nei procedimenti normativi eterodossi uno dei problemi essenziali del funzionamento dello stato federale. Nella prospettiva del Presidente, le agenzie e gli apparati burocratici amministrativi del governo sono responsabili per uno sviamento della definizione dell’indirizzo politico, compromesso dall’adozione di regole di attuazione o esecuzione di leggi secondo procedure informali, e per una mortificazione del ruolo del Congresso, posto che quelle procedure mirano ad aggirare il confronto parlamentare sui contenuti puntuali dei provvedimenti normativi. I membri repubblicani del Congresso sono del medesimo avviso e, infatti, sono due le proposte di legge all’esame dell’assemblea volte a limitare il ricorso a procedimenti di questa natura (v. N. Palazzo, G. Romeo, Who fears the big government? A coordinated attempt to downsize agencies’ power in the United States, in Global Jurist, 1, 2018). Il caso Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant evidenzia, dunque, una contraddizione interna alla linea politica del Presidente e del Congresso a maggioranza repubblicana.
La nuova regola sull’esclusione delle domande di asilo e di protezione internazionale non solleva, insomma, solo un problema di diritto dell’immigrazione. Essa apre spazi di riflessione anche sulla questione dell’equilibrio tra poteri all’interno di un sistema democratico. Con un atto normativo secondario, infatti, è stato praticamente riscritto il perimetro del diritto all’asilo negli Stati Uniti, deresponsabilizzando il Congresso. La circostanza manifesta un fenomeno evidente anche in altri settori: la nebulizzazione dell’indirizzo politico in una serie di provvedimenti normativi secondari di incerta natura, data l’assenza di procedure formalizzate per la loro adozione, e di oscura base giuridica, posto che la legislazione primaria impone invece congruenza a quei provvedimenti. Rispetto a questo tema, la tenuta del blocco conservatore, a difesa della rule, è da verificare, data anche la sensibilità di alcuni membri del collegio rispetto alla necessità di ridimensionare, nella sede dell’interpretazione, il peso delle regole prodotte dalle agenzie federali che costituiscono gli apparati burocratici del governo (v. per esempio lo statement di Gorsuch J. nel caso Scenic America v. Department of Transportation, 583 U. S. __ (2017)).
Il problema non è tutto americano. In Italia, la cosiddetta chiusura dei porti è avvenuta per il tramite di circolari ed email, la cui coerenza con il resto delle norme dell’ordinamento giuridico è apprezzabile solo nella sede del conflitto e, dunque, davanti al giudice. Ne risulta che la gestione dei flussi migratori è divenuta un terreno di scontro tra istituzioni politiche e magistratura. Le prime mostrano, talvolta, di concepire la gestione dell’immigrazione come il tema su cui si riflette la sovranità dello stato e tendono a operare un collegamento tra esercizio della sovranità e legittimazione democratica. Si tratta di un collegamento che non regge neppure sul piano teorico-dogmatico. In primo luogo, tra legittimazione democratica ed esercizio libero della sovranità c’è di mezzo la costituzione e il principio di costituzionalità. In secondo luogo, la legittimazione democratica può essere invocata, dalle istituzioni politiche di un ordinamento che si regge sul principio di legalità e sulla rule of law, solo ove il potere è esercitato nelle forme e secondo gli strumenti previsti dall’ordinamento. In questo senso, Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant non è solo un decreto di sospensione di due ordinanze, è una piccola manifestazione drammatica delle ricadute giuridiche di indirizzi politici caoticamente attuati perché di dubbia tenuta costituzionale e di incerto appoggio parlamentare.