Il matrimonio che s’ha da fare: la Corte costituzionale dichiara illegittimo il divieto di contrarre matrimonio per gli stranieri in posizione irregolare

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 245 del 2011, ha dichiarato incostituzionale l’obbligo, per lo straniero che intenda contrarre matrimonio in Italia, di produrre “un documento attestante la regolarità del soggiorno” introdotto dalla legge n. 94 del 2009 tramite una modifica dell’art. 116 del codice civile. In precedenza, infatti, lo straniero che intendeva sposarsi in Italia era tenuto a presentare all’ufficiale dello stato civile il solo nulla osta rilasciato dalle autorità competenti del proprio paese di provenienza.

Ad avviso della difesa dello Stato, la novella apportata all’art. 116 c.c rispondeva all’esigenza di garantire il presidio e il controllo delle frontiere e di contrastare il fenomeno dei matrimoni di convenienza.

Tuttavia, secondo il giudice costituzionale, subordinare il matrimonio alla regolarità del soggiorno, incontra nel testo costituzionale due ordini di ostacoli.

In prima istanza la libertà di contrarre matrimonio rientra tra i diritti inviolabili dell’uomo trovando il proprio fondamento normativo negli articoli 2 e 29 Cost; pertanto le ragioni prospettate dal legislatore risultano recessive rispetto alla tutela del diritto in questione, atteso che una limitazione generalizzata per gli stranieri irregolari di contrarre matrimonio “rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti”. Come afferma la Corte in un altro passaggio, richiamando un proprio precedente, “i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sent. 249/2010)”.

In secondo luogo, la tutela assicurata alla libertà di contrarre matrimonio nelle carte internazionali sui diritti pone la novella in contrasto con l’art. 117, 1 comma. Attraverso lo schema della norma interposta, pertanto, la Consulta richiama l’art. 12 della CEDU nonché una recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (si tratta della sentenza del 14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom) che dichiarava contraria alle norme della Convenzione la normativa britannica che di fatto impediva il matrimonio degli stranieri irregolari.

Con la pronuncia in esame la Corte aggiunge un ulteriore tessera nella operazione di messa in discussione dell’apparato sanzionatorio predisposto attraverso i “pacchetti sicurezza” nel corso dell’ultima legislatura, i quali, progressivamente, hanno incontrato le censure sia da parte della giurisprudenza costituzionale (249/2010; 359/2010) che di quella sovranazionale (v. Corte di Giustizia del 28 aprile 2011, El Dridi, causa C-61/11 PPU). Inoltre il tema della immersione dei diritti fondamentali (anche dei non cittadini) in uno scenario multilivello, attraverso il richiamo alla sentenza della CEDU, accresce indubbiamente l’interesse per la pronuncia del giudice costituzionale.

Tra le diverse questioni su cui la sentenza della Consulta invita a soffermare l’attenzione, sembra meritare un rilievo non marginale la relazione tra godimento dei diritti fondamentali e irregolarità del soggiorno, resa particolarmente critica dai più recenti interventi normativi in materia. Infatti se è vero che “lo straniero (anche irregolarmente soggiornante) gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana” (198/2000; 148/2008; 61/2011)”, l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio italiano, da parte della legge n. 94/2009, e la conseguente criminalizzazione del migrante irregolare, ha acuito l’insicurezza e la precarietà di coloro che non dispongono di un titolo valido per il soggiorno. Come ha avuto modo di affermare la Corte costituzionale “la qualità di immigrato «irregolare» (…) diventa uno “stigma” che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, i cui comportamenti appaiono, in generale e senza riserve o distinzioni, caratterizzati da un accentuato antagonismo verso la legalità” (249/2010).

Il discorso sulla condizione giuridica degli stranieri irregolari, peraltro, apre a considerazioni di carattere più generale relative al nesso tra integrazione e diritti fondamentali dei non cittadini. Invero, la riflessione sull’esercizio di diritti in quanto diritti della persona, a prescindere dalla condizione di cittadino o dalla regolarità del soggiorno, sembra porre l’interrogativo se non sia quest’ultimo un itinerario di integrazione più solido, concreto e proficuo rispetto a quello su cui fanno tradizionalmente perno le politiche di immigrazione (ove l’integrazione in definitiva, si presenta come premio di buona condotta). In altri termini, rispetto alla politica del doppio binario che considera l’alternativa regolare/irregolare la chiave di lettura per aprire o negare percorsi di integrazione, una lettura del fenomeno migratorio orientata ad un principio di maggiore inclusione, suggerisce di ravvisare nel quotidiano e progressivo esercizio di quei diritti – che ragionevolmente consentano di prescindere dallo status civitatis o dalla regolarità del soggiorno – un itinerario più adatto alla costruzione di società complesse. È evidente che l’apertura verso una cittadinanza c.d. sostanziale non è un cammino privo di difficoltà e meriterebbe ben altri approfondimenti; tuttavia considerazioni, non certo inedite, relative alla labilità del confine tra migranti regolari e irregolari come alla insufficienza delle politiche finora perseguite per contrastare l’irregolarità, invitano a giudicare positivamente le aperture nel godimento dei diritti fondamentali da parte dei non cittadini, laddove ragionevolmente ciò sia possibile, in vista della impostazione di processi di integrazione fondati sui diritti anziché sugli status.