Il multiculturalismo canadese e la “prova del velo”: prime riflessioni sulla pronuncia della Corte suprema canadese nel caso sul niqab

Il 20 dicembre 2012 la Corte Suprema canadese si è pronunciata sul ricorso di una cittadina di religione musulmana, N.S., relativo al diritto ad indossare il niqab (velo che lascia scoperti solo gli occhi) durante la testimonianza (R. v. N.S. 2012 SCC 72).

Il caso, che pone il Canada dinanzi al complesso confronto con uno dei principali elementi identitari dell’Islam, origina nel 2008 dalla vicenda che ha visto il giudice per le indagini preliminari dell’Ontario decidere fra la pretesa di N.S. di indossare il velo durante la deposizione e quella della sua controparte per cui tale abbigliamento avrebbe attentato al diritto alla difesa. Nello specifico, N.S. aveva denunciato uno zio ed un cugino per stupro e si apprestava a deporre contro di loro in sede di cross-examination dinanzi al giudice per le indagini preliminari quando, il 10 settembre 2008, gli accusati hanno presentato una richiesta affinché il giudice ingiungesse alla donna di non indossare il niqab durante la deposizione per evitare che esso ne celasse le espressioni facciali, inficiando così il diritto al full answer and defense, come definitosi in via giurisprudenziale (R. v. Stinchcombe, [1991] 3 S.C.R. 326). Per formulare la propria decisione, il giudice delle indagini preliminari ha deciso di procedere ad un colloquio informale con N.S., per capire il significato attribuito al velo, al termine del quale ha stabilito che la deposizione dovesse avvenire senza il niqab. Il giudice ha infatti ritenuto che la dichiarazione della donna di «sentirsi più a proprio agio» testimoniando con il velo, oltre al fatto che ella avesse già accettato di esporre il proprio volto senza niqab nella fotografia della patente di guida, indicassero che l’interpretazione di N.S. del precetto religioso che impone alle donne musulmane di coprirsi dinanzi agli uomini “potenziali mariti” non fosse particolarmente forte e ammettesse alcune eccezioni; per queste ragioni ha preferito non limitare il diritto alla difesa degli accusati e ha ingiunto alla donna di deporre senza velo.

N.S. ha fatto ricorso alla Superior Court of Justice, il 14 novembre 2008, sia con una richiesta di certiorari sia con un originating application for a Charter remedy, affinché l’ordine del giudice per le indagini preliminari fosse annullato e la Corte dichiarasse il suo diritto a deporre e a prendere parte all’eventuale processo indossando il niqab. La Superior Court ha annullato l’ingiunzione del giudice per le indagini preliminari pur rimettendogli la decisione finale con l’indicazione di approfondire in maniera puntuale (e non informalmente, come aveva fatto in precedenza) le convinzioni religiose della donna. In conseguenza, N.S. ha fatto ricorso alla Court of Appeal for Ontario il 29 maggio 2009 facendo esplicita richiesta di un order che le consentisse di rendere le proprie dichiarazioni indossando il velo. Pochi mesi dopo, il 12 agosto 2009, la stessa Corte è stata adita dalla controparte, che richiedeva il ripristino della decisione del giudice per le indagini preliminari. Il 17 marzo 2011, la Corte d’Appello dell’Ontario si è pronunciata all’unanimità rinviando nuovamente la decisione al giudice delle indagini preliminari (R. v. N.S., 2010 ONCA 670). All’origine della decisione della Corte d’Appello di non pronunciarsi nel merito si pone la convinzione che la possibilità di indossare o meno il niqab durante un processo o in fase di inchiesta preliminare non possa essere definita in termini generali ma debba essere valutata attraverso un analisi casistica, che, nel caso in questione, il giudice delle indagini preliminari è competente a svolgere e nella cui assenza anche la Corte d’Appello non ha sufficienti elementi per pervenire ad una decisione. Nell’opinione della Corte d’Appello dell’Ontario, quindi, il giudice per le indagini preliminari dapprima avrebbe dovuto considerare se la donna ritiene la prassi di indossare il velo come un obbligo del proprio culto, quindi avrebbe dovuto valutare se, nel caso in discussione, il niqab sia in grado di inficiare la testimonianza; di seguito, qualora emerga che sia la libertà di religione sia il diritto alla difesa sono chiamati in causa, il giudice avrebbe dovuto tentare formule di compromesso per salvaguardare entrambi i diritti e, solo nell’impossibilità di un tale bilanciamento, avrebbe dovuto far prevalere il diritto alla difesa chiedendo alla donna di non indossare il velo.

Ultima tappa di questa vicenda giudiziaria è stato l’appello di N.S. alla Corte Suprema, estremo tentativo di ottenere il riconoscimento del diritto ad indossare il niqab durante le testimonianze. Come detto, la Corte si è pronunciata il 20 dicembre 2012 (R. v. N.S. 2012 SCC 72).

In primo luogo la Corte, riprendendo una consolidata giurisprudenza (Syndicat Northcrest v. Anselem [2004] 2 S.C.R. 551), ha chiarito che il punto da stabilire risiede nella sincera convinzione di N.S. che indossare il niqab costituisca un ineludibile precetto religioso. Per la Corte Suprema, infatti, solo partendo da tale chiarimento, sulla scia di quanto già affermato in sede di appello, si potrà decidere di imporre l’assenza del velo qualora, mancando alternative perseguibili, ciò sia necessario per evitare di violare il diritto alla difesa della controparte e gli effetti positivi di tale imposizione non esuberino rispetto a quelli deleteri (par. 3). Pur non prendendo una decisione circa il diritto di N.S. di indossare il velo durante la deposizione e le testimonianze in sede di processo e rinviando tale scelta al giudice per le indagini preliminari, la Corte aggiunge alle considerazioni già svolte dalla Corte d’Appello rispetto alle lacune nell’analisi condotta da tale giudice un ulteriore elemento che merita di essere considerato. Se la Corte dell’Ontario aveva chiarito i termini del test che il giudice avrebbe dovuto effettuare, i giudici supremi hanno sottolineato che l’elemento determinante non risiede nella forza della convinzione religiosa della donna ma nella sincerità della stessa, che non parrebbe venire meno neppure in caso di precedenti rimozioni del velo (come invece si era precedentemente ritenuto con riferimento alla fotografia per la patente di guida). La Corte ha quindi invitato il giudice per le indagini preliminari a valutare se nel momento in cui la questione si pone, e non in passato, l’opinione della donna circa il carattere vincolante del niqab sia una sincera manifestazione di adesione ad un principio religioso. In questo caso, infatti, verrebbe in rilievo la libertà religiosa di N.S. e la necessità di operare un accorto bilanciamento con il diritto alla difesa degli accusati. Sul punto, peraltro, la Corte ha invitato il giudice per le indagini preliminari a chiedere alle stesse parti in causa di proporre soluzioni per una possibile accommodation affinché si possa perseguire la strada che già in molte occasioni ha consentito al Canada di superare i conflitti tra i vincoli derivanti da precetti religiosi e la tutela dei diritti delle altre parti coinvolte. Si è chiesto al giudice, pertanto, di favorire l’applicazione del c.d. approccio Dagenais/Mentuck finalizzato a rinvenire «reasonably available alternative measures» prima di prendere una decisione che avrebbe dovuto comunque considerare la proporzionalità fra gli effetti negativi e quelli positivi derivanti da una limitazione di uno dei diritti in causa (Dagenais v. Canadian Broadcasting Corp. [1994] 3 SCR 835; R. v. Mentuck, 2001 SCC 76).

Come già affermato nelle precedenti decisioni sul caso, infine, la Corte ha mostrato la propria consapevolezza rispetto alle conseguenze che la decisione del giudice per le indagini preliminari potrebbe comportare. Da un lato, infatti, si è sottolineato che una ingiunzione di non indossare il velo potrebbe scoraggiare la denuncia di reati da parte delle donne di religione musulmana, che vedrebbero nella necessità di non indossare il velo un serio limite alla possibilità di portare avanti le proprie denunce. Dall’altro, si è evidenziato come consentire la testimonianza con il velo ammettendo una violazione del diritto alla difesa potrebbe seriamente attentare alla credibilità del sistema giudiziario canadese, in quanto tale diritto rappresenta «a fundamental pillar without which the edifice of the rule of law would crumble» (par. 38). Per queste ragioni la Corte ha invitato il giudice per le indagini preliminari a motivare con attenzione la propria scelta, chiarendo che una decisione sul punto deve essere presa considerando gli elementi specifici di ogni caso, ad esempio la rilevanza che la testimonianza assume nello stesso e la posizione degli accusati al momento della testimonianza medesima.

Se la decisione della Corte Suprema non aggiunge molto a quanto già rinvenibile nelle pronunce precedenti sul caso, è interessante notare come il giudice Le Bel, nella propria opinione concorrente,  ponga apertamente una domanda sempre più ricorrente con riferimento ai simboli identitari dell’Islam: «Is the wearing of the niqab compatible […] with the constitutional values of openness and religious neutralità in contemporary, but diverse, Canada?» (par. 60).

Ancora una volta, dunque, il simbolo più rappresentativo dell’identità islamica è all’origine di chiare difficoltà di integrazione anche nel contesto multiculturale canadese, e non solo in quei contesti improntati all’assimilazionismo, com’è quello francese, dove la c.d. “questione del velo” è stata risolta con l’introduzione di un discutibile divieto. A dimostrazione di ciò si pone anche, fuori dalle aule di tribunale, il dibattito che ha interessato la Provincia del Québec. Nel marzo 2010, infatti, dopo l’allontanamento dalla classe di una studentessa che indossava il niqab, il Primo Ministro quebecois Charest ha proposto il Bill 94, in cui si faceva divieto di indossare quel tipo di velo in nome del principio di uguaglianza di genere. Il progetto di legge ha sollevato un intenso dibattito che ha coinvolto così fortemente la società civile al punto che, probabilmente nel desiderio di non creare fratture sociali in un periodo reso complicato anche dalla crescente crisi economica, il 20 maggio 2010 i lavori di discussione in Commissione sono stati sospesi a tempo indefinito ed il Primo Ministro ha dichiarato che in quella fase politica vi erano istanze più stringenti da discutere in via prioritaria.

Conferma le difficoltà di integrazione della minoranza musulmana in Canada anche il dibattito sull’applicazione del diritto sharaitico. Esemplificativa è stata la scelta della Provincia dell’Ontario di abrogare, mediante il Family Statute Law Amendment Act del 2006, le disposizioni che consentivano l’istituzione di Corti arbitrali religiose (ai sensi del Provincial Arbitration Act del 1991) a seguito dell’istituzione di una Corte arbitrale sharaitica da parte dell’Islamic Institute of Civil Justice nel 2003. Tale istituzione, infatti, aveva suscitato l’indignazione di numerosi gruppi, femministi in primis, secondo i quali l’applicazione del diritto musulmano avrebbe dato luogo ad una costante violazione dei diritti delle donne e, soprattutto, del principio di uguaglianza.

Gli esempi sinteticamente proposti mostrano come il modello del multiculturalismo canadese sia messo in crisi dalla difficoltà di integrare la comunità musulmana, i cui precetti fondamentali non paiono compatibili con il contesto giuridico e sociale canadese. Considerando, infine, l’assenza di una giurisprudenza pertinente e di un numero congruo di ricorsi da parte dei musulmani su questioni inerenti l’integrazione, si ritiene opportuno avanzare due ipotesi rispetto al ruolo che l’ordinamento canadese lascia all’autonomia privata. Se, infatti, pare difficile sostenere che il limitato numero di ricorsi debba farsi risalire ad un buon livello di integrazione della popolazione musulmana nel contesto canadese, più probabile potrebbe essere che la comunità islamica abbia scelto di sfruttare ampiamente i margini di autonomia privata ad essa riservata, di fatto applicando nella sfera privata quegli stessi principi che avevano tanto indignato la comunità dell’Ontario al momento dell’istituzione della Corte sharaitica. Ancora una volta, dunque, il multiculturalismo canadese apre il fianco ad una dura critica, ed i rapporti con la minoranza musulmana, a prescindere da quale sarà la decisione del giudice per le indagini preliminari nel caso sul niqab, mostrano quanto il ruolo del “ghetto” possa prevalere sulle reali chance di integrazione.