Il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo e la sua (solo) annunciata discontinuità

Il nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo,  reso pubblico il 23 settembre del 2020 (COM(2020) 609 final), può essere visto come la conseguenza del mancato funzionamento, se non proprio del fallimento, della politica europea d’asilo e della sostanziale assenza di quella legata all’immigrazione regolare. Cinque sono i principali aspetti sui quali val la pena soffermarsi: l’approccio seguito dalla Commissione, l’effettiva applicazione del principio di solidarietà, la protezione internazionale, l’apertura di vie legali d’accesso e, infine, il ruolo delle relazioni coi paesi terzi.
In generale, l’approccio seguito dalla Commissione appare discontinuo rispetto alla passata legislatura, nel corso della quale si era principalmente limitata a coordinare e mediare le posizioni nazionali. Ora, almeno sul piano del metodo, sembra aver riassunto quell’azione propulsiva che negli ultimi anni era mancata, con un approccio complessivo alla materia che emerge anche dalla pubblicazione contestuale di tre raccomandazioni e diverse proposte di atti ad integrare il contenuto del Patto. Tuttavia, è evidente che questo non sia sufficiente ad accertare l’avvenuta discontinuità’ col passato, più volte ribadita dalla presidente von der Leyen.
L’auspicata novità non trova riscontro nella parte del Patto dedicata alla solidarietà tra Stati, prevista come noto dall’art.80 TFUE. Il testo sembra prefigurare un’evoluzione rispetto  al passato, grazie ad una nuova forma di esercizio di tale principio; tuttavia, si tratta di mera impressione, smentita dal proposto meccanismo di gestione dell’immigrazione e dell’asilo, ove continua a prevalere l’azione lasciata alla disponibilità degli Stati, prevedendo il ricollocamento dei migranti da uno Stato all’altro o, in alternativa, misure di sostegno economico, in sostituzione del primo.
Un testo che, nella sua complessità, richiama varie proposte del passato, o semplicemente prefigurate, probabilmente nel tentativo di garantirne l’approvazione in Consiglio.
Più in dettaglio, questa forma di solidarietà, oltre al possibile ricollocamento – che nella pratica interverrebbe solo in situazioni d’emergenza -, prevede il cosiddetto rimpatrio sponsorizzato, ossia il farsi carico economicamente da parte di uno Stato membro del rimpatrio di un cittadino, in posizione irregolare, che si trova in altro Stato membro; tuttavia, continueranno a rimanere onere degli  Stati di frontiera la gestione e l’ospitalità di coloro che arrivano per la prima volta sul territorio europeo.
Il mero sostegno economico non è sufficiente e non rappresenta una soluzione accettabile dal punto di vista della solidarietà nell’equa condivisione di responsabilità, che potrebbe verificarsi solo se si innestasse un meccanismo europeo di presa in carico sin dall’inizio dei cittadini non europei, al di là della loro posizione di regolarità. Infine, manca un strumento di sanzione nei confronti di quegli Stati che dovessero rifiutarsi di procedere al sostegno degli Stati di frontiera, sia attraverso il ricollocamento, che economicamente.

Nella parte dedicata alla protezione internazionale, sono due gli aspetti da sottolineare, il primo dei quali riguarda la procedura di frontiera – prevista in dettaglio dall’art. 41 della proposta di regolamento modificativo della direttiva procedure (COM(2020) 611 final)  – che collega il tema dell’asilo a quello dei rimpatri veloci. In tal caso, il legittimo interesse degli Stati membri a provvedere al rimpatrio rapido di coloro in posizione irregolare, rischia concretamente di configgere col rispetto dei diritti fondamentali degli interessati, ponendo in discussione la stessa procedura. Infatti, la velocità è normalmente nemica dell’esame accurato, non solo per coloro che necessitano di tempo per informare adeguatamente ragioni che li portano a scappare dal loro territorio d’origine o di residenza, ma anche per tutte le persone – non solamente richiedenti protezione internazionale – in posizione vulnerabile, che potrebbero vedersi negati i diritti ad esse riconosciute in quanto tali.
Il secondo aspetto riporta al criterio per l’individuazione dello Stato membro competente ad esaminare le domande di protezione internazionale. Come noto, attualmente si vede prevalere il criterio dello Stato di primo ingresso, pur se residuale sul piano teorico; posto in discussione durante le crisi siriana e libica, nei fatti comporta l’esposizione dei soli Stati alla frontiera esterna dell’Unione europea; anche i tentativi di ricollocamento, pensati a loro sostegno non sono stati caratterizzati da successo.
Per questo, la Presidente della Commissione europea aveva ribadito più volte l’intenzione di superare detto criterio; purtroppo, anche in tal caso, non la lettera del Patto ma quella del proposto meccanismo di gestione della migrazione e dell’asilo (COM(2020) 610 final) fa prendere atto che il descritto criterio non è stato superato: infatti, la proposta per la sua istituzione lo mantiene esattamente com’è oggi, non modificato dalle parti specifiche sulle operazioni S.A.R.
La protezione internazionale spicca anche nella parte sulle vie legali di accesso all’Unione, completata dalla Raccomandazione relativa ai percorsi legali di protezione nell’UE (C(2020) 6467 final), che pur dovrebbe andare oltre la necessità di un sicuro percorso per coloro in bisogno di protezione: appare evidente, infatti, che solo riconoscendo una forma sicura di accesso a tutti coloro che desiderano  recarsi sul territorio europeo – anche per ‘sole’ semplici ragioni di lavoro – si potrà contribuire alla riduzione del numero di vittime ed anche al contrasto dell’abuso del sistema di protezione internazionale. Infatti, la creazione di vie legali d’accesso per ragioni lavorative potrebbe portare anche alla riduzione delle domande di protezione internazionale, con l’effetto così di aiutare anche coloro che a tale protezione sarebbero titolati e diminuire la pressione cui sono soggetti i sistemi statali, soprattutto negli Stati di frontiera.
Rimane così inevasa la questione della garanzia  ad un accesso sicuro e regolare per ragioni diverse da essa, evitando di essere alla mercé di criminali; l’ipotizzato schema -incentrato sull’individuazione di talenti e la formazione di competenze- potrebbe costituire un buon inizio, ma solo se collegato al diritto di accesso al territorio.
Infine, quanto alla dimensione esterna della politica migratoria, è sottolineata l’importanza della collaborazione con i paesi partner quale elemento strategico, trasversale e funzionale alla realizzazione di tutti gli obiettivi indicati: si pensi alla necessità di collaborare tanto negli accordi di riammissione, che nella preparazione ed  individuazione di forme di accesso legale all’Unione europea, siano esse o meno relative alla protezione internazionale. In questo caso, il Patto sottolinea la volontà di guardare anche agli interessi degli Stati coinvolti, cosa non sempre avvenuta in passato quando si utilizzava la leva della superiore forza contrattuale europea a loro discapito. Il ricorso ad ‘accordi sartoriali’ dovrebbe prefigurare un nuovo corso attento alle esigenze di ogni singolo Stato. A dispetto di quanto dichiarato, però, non ci troviamo innanzi ad un nuovo approccio: fino ad ora gli Stati membri e l’Unione hanno concluso con gli Stati terzi degli accordi di riammissione fondati sullo scambio tra l’impegno contro l’immigrazione irregolare e la facilitazione nell’ottenimento dei visti, principalmente attraverso la liberalizzazione di quelli di breve durata, utili per una mobilità temporanea e non sempre funzionali alla ricerca di lavoro, che dovrebbe essere meglio sostenuta da un meccanismo automatico collegato all’immigrazione di lungo periodo.
La leva dell’utilizzo dei visti è prevista anche nel Patto e nemmeno costituisce novità prevedere degli accordi mirati; invece, rischia di rimanere il disequilibrio tra gli interessi considerati e lo stesso ricorso ai visti richiede un ripensamento per essere considerato appetibile. Tra l’altro, il rischio concreto è che si utilizzi questo sistema per creare una sorta di competizione tra Stati della stessa regione geografica, cosa auspicabilmente da evitare.
In conclusione, al grande lavoro quantitativo della Commissione, non corrispondono le auspicate e annunciate innovazione e discontinuità. Rimane l’approccio prevalentemente securitario, incentrato sui rimpatri, sulla forte limitazione dell’accesso al territorio europeo anche per quel che riguarda la protezione internazionale e con limitate ipotesi di accesso legale per ragioni diverse da questa. Inoltre, resta il punto critico del criterio dello Stato di primo ingresso con, al contempo, una solidarietà che – se forse non lasciata totalmente alla discrezionalità statale – rimane focalizzata sulla dimensione economica, prevedendo il ricollocamento solo in casi d’emergenza.
Rimane dunque la necessità di un approccio diverso, che guardi ad un sistema europeo di gestione delle domande, magari con la partecipazione attiva dell’istituenda agenzia dell’asilo; preveda reali vie di ingresso legali per lavoratori, in modo meno farraginoso e non limitato alla mobilità di breve durata; infine, che preveda un modello in cui il sistema di protezione internazionale unisca ai ricollocamenti e corridoi umanitari, la possibilità di arrivare nell’Unione in modo sicuro, ove la presentazione di domande di protezione sia sempre e comunque consentita.