La Catalogna tra secessione e Costituzione

La questione ‘che cos’è un popolo?’ ha messo a dura prova studiosi di ogni genere. Giuristi, filosofi, sociologi, antropologi, storici ed altri ancora hanno cercato, infruttuosamente, di dare sostanza ad un concetto, quello di ‘popolo’, fin troppo fumoso. Comunque la si voglia affrontare, quella del popolo rimane una questione magmatica e tuttora in grado di scaldare gli animi dentro e fuori gli ambienti accademici. Sul piano politico-giuridico, la questione del ‘popolo’ e dei suoi diritti è riemersa con veemenza negli ultimi anni in ambito europeo in relazione alla crescita di movimenti secessionisti che hanno scosso le fondamenta di alcuni ordinamenti nazionali, su tutti il Belgio, il Regno Unito e la Spagna. La questione indipendentista ha costretto ad un ripensamento della forma di Stato di quei Paesi ed ha portato in alcuni casi alla definizione di nuove forme di regionalismo pensate ad hoc. Per capire meglio la connessione tra popoli, regionalismo e secessionismo è necessario premettere brevemente in che modo la categoria ‘popolo’ viene intesa dal punto di vista giuridico. Il popolo assume rilevanza sia sul piano costituzionale che su quello internazionale. Nel primo caso con esso si individua il soggetto che, negli ordinamenti democratici, riveste la sovranità. Per il diritto internazionale, invece, i popoli sono destinatari principalmente di quello che la Carta ONU ha definito come il ‘diritto all’auto-decisione’, che richiama a sua volta la self-determination di wilsoniana memoria. Tale principio consisterebbe nel diritto di ciascun popolo di poter scegliere liberamente il regime politico al quale sottoporsi. La scelta del regime è intesa pertanto sia in senso ‘interno’ sia in senso ‘esterno’, ovvero sia in relazione alle forme del regime che si vuole porre in essere, sia in relazione al Sovrano cui si intende sottostare. Nella prassi ONU il principio di autodeterminazione si è rivolto primariamente ai popoli coloniali, affermandosi pertanto nella sua accezione ‘esterna’, ovvero quale diritto di un popolo sottomesso da una potenza straniera di liberarsi da quel giogo e di definire un ordinamento indipendente dalla Madrepatria. L’autodeterminazione dei popoli ha finito così per costituire la base del processo di decolonizzazione, concretizzandosi nella definizione di nuove entità statuali e contribuendo alla costituzione di uno ‘State-oriented international system’ (Pavkovič & Radan). Ciò non è bastato a stabilire sul piano giuridico una diretta consequenzialità tra principio di autodeterminazione e statualità, posta l’incompatibilità del primo con il principio dell’integrità territoriale degli Stati (Tancredi). In altre parole, il riconoscimento del principio dell’autodeterminazione non ha comportato un riconoscimento, a livello internazionale, di un ‘diritto alla secessione’. Per il diritto internazionale i popoli non sottoposti a condizioni di ‘dipendenza’ assimilabili a quelle proprie dei popoli coloniali non avrebbero il diritto di rompere l’unità dello Stato di cui fanno parte in nome del principio di autodeterminazione, se non in forza di un diritto alla secessione riconosciuto dallo Stato stesso.

È in tale quadro che si inseriscono le questioni secessioniste europee di cui si è accennato ed è in tale quadro che va affrontata in particolare la questione del referendum sull’indipendenza della Catalogna previsto per il primo ottobre 2017 (1-O). La proposta di referendum, che rappresenta l’ennesimo tentativo in tal senso della Generalitat de Catalunya dopo il fallimento della proposta del 2014, è stata votata dal Parlamento catalano il 6 settembre u.s. Il quesito del referendum è stato formulato nel seguente modo: ‘Volete che la Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di repubblica?’ e ad esso si potrà (ma il condizionale è d’obbligo) rispondere con un Sì o con un No. Secondo i sostenitori del referendum l’esito dello stesso dovrebbe avere carattere ‘vincolante’ poiché lo stesso è ‘sostenuto a larga maggioranza politica e sociale dal popolo della Catalogna’. La nuova proposta di consultazione referendaria, voluta fortemente dal Presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, ha scosso nuovamente in profondità l’ordinamento spagnolo, già provato dall’attentato terroristico del 17 agosto u.s. a Barcellona. Il governo centrale, dopo aver tentato inutilmente di bloccare dapprima il processo costituente avviato dalle autorità catalane nel 2015, ha risposto all’ennesimo tentativo indipendentista con la forza, inviando agenti della Guardia Civil nella Generalitat catalana ed arrestando 14 tra funzionari ed esponenti del governo catalano.

Questo braccio di ferro rappresenta forse l’apice di una contrapposizione tra Madrid e Barcellona che va ben al di là dei tentativi referendari catalani avanzati negli ultimi anni. La storia costituzionale spagnola moderna può essere vista invero come l’attuazione continuativa di due processi strettamente integrati tra di loro, ovvero quello di democratizzazione e quello di regionalizzazione. Il costituente spagnolo del 1978 aveva dovuto affrontare infatti una duplice necessità: evitare l’implosione dello Stato dopo la caduta del regime franchista e ripristinare al contempo gli spazi di autonomia già riconosciuti nel corso della Seconda Repubblica. La Catalogna aveva goduto di uno Statuto di Autonomia fin dal 1932 ma l’avvento del regime franchista eliminò ogni forma di autonomismo (Ysàs). Dopo la morte del Caudillo, avvenuta il 20 novembre 1975, il ripristino del sistema democratico sarebbe avvenuto congiuntamente al ripristino del sistema delle autonomie, anche per stabilire una cesura con il centralismo del regime. Il processo di transizione verso la democrazia, avviato formalmente con la Ley para la Reforma política del 1976, si concluse con il referendum di ratifica della nuova Costituzione spagnola (CE) nel dicembre 1978. L’art. 2 CE racchiude in sé le basi del compromesso raggiunto tra le forze di sinistra (c.d. Platajunta) promotrici del ripristino delle autonomie, e le forze governative di destra, maggiormente preoccupate di mantenere l’unità nazionale. L’art. 2 CE riconosce infatti, accanto al principio di ‘indissolubile unità della Nazione spagnola’, anche il ‘diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni che la compongono’. Il Titolo VIII (artt. 137-158) della CE introduce differenti procedure per la costituzione delle Comunità autonome (CC.AA.) e per l’adozione dei relativi Statuti, stabilendo così un sistema di tipo asimmetrico. Tale asimmetria si è concretizzata in un primo momento anche mediante il riconoscimento di una ‘specialità’ per alcune nazionalità storicamente consolidate. La Seconda Disposizione Transitoria della CE stabilisce infatti che per quei territori che in passato avevano sottoposto a referendum, con risultato affermativo, progetti di Statuto di autonomia vi sia la possibilità di elaborare i rispettivi Statuti di autonomia in conformità al dettato dell’art. 151 CE. Quest’ultimo prevede la c.d. via veloce dell’autonomismo, la quale consente di accedere direttamente a tutte le materie non espressamente riservate allo Stato oltre a quelle elencate all’art. 148 CE (Viver Pi-Sunyer). Catalogna, Paesi Baschi, Galizia e Andalusia hanno avuto così immediatamente accesso ad un insieme di competenze ben più ampio rispetto alle altre CC.AA., anche se la CE ha previsto comunque che le CC.AA. istituite secondo la via lenta, passati cinque anni dalla loro costituzione, avrebbero avuto comunque accesso all’intero comparto residuale. La differenziazione temporale per l’accesso alle competenze non ha impedito così un progressivo livellamento tra le varie CC.AA., livellamento realizzato mediante una serie di riforme degli Statuti introdotte tra il 1983 ed il 1992. Ciò ha visto sminuire il carattere di ‘specialità’ rivendicato soprattutto dalla comunità catalana e da quella basca sulla base dei cc.dd. hechos diferenciales ed è in tale prospettiva che si è inserito il processo di riforma dello Statuto catalano del 2006.

Lo Statuto del 2006 è stato oggetto di una lunga battaglia legale tra Madrid e Barcellona dinanzi al Tribunale Costituzionale (TC). Il TC ha provveduto, con la sentenza n. 31 del 28 giugno 2010, ad uno svuotamento degli obiettivi prefissati dal legislatore statutario catalano, ridimensionando inoltre il Preambolo dello Statuto che aveva riconosciuto del carattere di ‘nazione’ per la Catalogna (Andretto). Il TC ha ribadito che nello Stato spagnolo non si ammette che una sola ‘Nazione’ in senso costituzionale e che la Catalogna costituisce soggetto di diritto istituito in conformità con la CE e non è destinataria di poteri ‘sovrani’. Particolarmente incidente è stata poi l’interpretazione costituzionalmente orientata offerta dal TC in riferimento alle competenze esclusive della Comunità catalana in materia di referendum. Il TC ha stabilito infatti che la materia del referendum è oggetto di specifica riserva statale in relazione alla sua istituzione, alla sua regolamentazione e alla sua convocazione.

Quattro anni più tardi da quella sentenza, un TC completamente rinnovato nei membri sarebbe tornato proprio sulla questione sovranista e referendaria, definendo però un nuovo approccio giurisprudenziale nell’ambito del c.d. ‘derecho a decidir’. Il 23 gennaio 2013, in seguito al fallimento del negoziato avviato col Governo Rajoy sull’adozione del c.d. ‘Pacto fiscal’, il Parlamento catalano aveva approvato la Risoluzione 5/X, ovvero la ‘Declaración de soberanía y del derecho a decidir del pueblo de Cataluña’, in base alla quale si stabiliva di dare effettività all’esercizio del ‘diritto a decidere’ per i catalani sul proprio futuro politico in accordo coi principi di legittimità democratica, trasparenza, dialogo, coesione sociale, europeismo, legalità e partecipazione. Il governo centrale impugnò la Risoluzione 5/X dinanzi al TC sulla base del disposto dall’art. 161, c. 2 CE. Tale impugnazione aveva sollevato però a sua volta una serie di questioni, la prima delle quali, preliminare ad ogni altra, relativa all’ammissibilità del ricorso. Il TC aveva da sempre stabilito che l’impugnazione era ammissibile solo se le Risoluzioni adottate dagli organi autonomici avessero rispettato il carattere perfetto o definitivo (anziché endo-procedimentale) dell’atto e l’idoneità della risoluzione stessa a produrre effetti giuridici (Ibrido). Nonostante il Parlamento catalano avesse richiesto l’inammissibilità del ricorso poiché, a parere di quest’ultimo, la Risoluzione non era produttiva di ‘effetti giuridici’, il TC ha optato per la decisione opposta. Il TC si è pronunciato nel senso in cui il ‘carattere assertivo della Risoluzione impugnata, che stabilisce l’avvio del processo per rendere effettivo l’esercizio del diritto di decidere non consente di ritenere limitati i suoi effetti sul terreno strettamente politico, in quanto richiede il compimento di un’attuazione concreta suscettibile di un controllo parlamentare previsto per le risoluzioni approvate dal Parlamento catalano’. L’effetto giuridico della Risoluzione starebbe pertanto nella possibilità di ritenere la stessa come attributiva di competenze inerenti a sovranità superiori a quella da cui deriva l’autonomia della Generalitat. La Risoluzione implica poi un effetto giuridico anche nel senso in cui abiliterebbe il Parlamento catalano ad attivare una ‘funzione di controllo’. Una volta stabilita l’ammissibilità del ricorso, il TC è andato nel merito della Risoluzione, valutandone in particolare l’art. 1 e la sua clausola finale. Secondo l’art. 1 della Risoluzione 5/X, ‘il popolo della Catalogna ha, per ragioni di legittimità democratica, carattere di soggetto politico e giuridico sovrano’; nella clausola finale si stabiliva invece che ‘il Parlamento della Catalogna esorta tutti i cittadini e le cittadine ad essere protagonisti attivi nel processo democratico di esercizio del diritto a decidere del popolo della Catalogna’. Per quanto attiene l’art. 1, il TC si è pronunciato per l’incostituzionalità, ritenendolo in contrasto con gli artt. 1 c. 2 e 2 CE nonché con gli artt. 1 e 2, c. 4 dello Statuto di Autonomia della Catalogna. Diverso è stato l’approccio del TC sulla clausola finale. Il TC ha cercato di dare un’interpretazione conforme al ‘derecho a decidir’, stabilendo che tale diritto non può autorizzare la convocazione di un referendum sull’indipendenza della Catalogna. Il diritto a decidere del popolo catalano non si inserisce infatti nell’alveo della ‘sovranità del popolo catalano’ ma si lega invece ai principi di legittimità democratica, di pluralismo e di legalità. La conformità a Costituzione del diritto a decidere starebbe allora nella facoltà del Parlamento catalano di presentare alle Cortes un progetto di revisione costituzionale che abbia ad oggetto proprio la convocazione di un referendum sulla indipendenza. Non solo: riprendendo il paradigma canadese del ‘giusto negoziato’, il TC spagnolo ha stabilito che nel caso in cui le istituzioni catalane intendano richiedere alle Cortes l’avvio di un processo di riforma costituzionale che conduca alla convocazione di un referendum sull’indipendenza della Catalogna, queste ultime sono obbligate a considerare tale proposta. In tal senso, il TC ha immesso il c.d. ‘derecho a decidir’ nell’alveo della ‘revisione costituzionale’, optando per una visione proceduralizzata del processo di autodeterminazione.

Nonostante la sentenza del TC, il Parlamento catalano ha preferito evitare la via ‘costituzionale’ e cinque mesi dopo la sentenza ha adottato la legge n. 10/2014 sulle ‘Consultazioni popolari non referendarie e altre forme di partecipazione cittadina’. La legge configurava una forma di consultazione popolare ‘non referendaria’ che ha aperto un dibattito in merito al significato di ‘referendum consultivo’. Secondo il Consiglio di garanzia statutaria catalano, l’istituto del referendum consultivo non poteva essere assimilato a quello del referendum ex art. 23 CE, in primo luogo perché non faceva riferimento al ‘corpo elettorale’ ma bensì ad un insieme della cittadinanza più esteso che includeva i maggiori di 16 anni e i cittadini dell’Unione Europea o di Stati terzi che avessero risieduto in modo legale e continuativo in Catalogna per almeno tre anni e che risultassero iscritti nel registro della popolazione catalana. Sul piano sostanziale il Consiglio di Garanzia aveva poi sottolineato che ‘non esistono temi che sono vietati all’opinione dei cittadini’ e che ‘la Generalitat può decidere di conoscere l’opinione cittadina su di un tema, come premessa o come supporto alle iniziative che competono alle istituzioni catalane’. Tuttavia, la Legge è stata impugnata in tempi rapidissimi dinanzi al TC che si è pronunciato per la sospensione di efficacia della norma. Ciò non ha impedito tuttavia l’attivazione di una ‘votazione spontanea’ tenutasi il 9 novembre 2014. La consultazione, priva di efficacia, è stata gestita da volontari ed ha visto una maggioranza schiacciante dei partecipanti votare a favore dell’indipendenza. L’invalidità della consultazione non ha impedito comunque l’avvio di un nuovo processo indipendentista a partire dalle nuove elezioni catalane del 2015.

Il 27 ottobre 2015, ovvero il giorno dopo le elezioni parlamentari catalane o ‘plebiscitarie’ che dir si voglia (Ferraiuolo), i gruppi parlamentari di Junts pel Sí e CUP hanno avanzato in Parlamento una proposta di risoluzione per l’instaurazione di un processo per la creazione di uno Stato catalano (c.d. Declaración de ruptura del 9-N). Tale Risoluzione è stata poi approvata il 9 novembre ma il 2 dicembre il TC si è pronunciato per l’incostituzionalità. Il 28 gennaio 2016, il Parlamento catalano ha dato vita invece alla ‘Commissione di studio del processo costituente’ la quale ha terminato i propri lavori nel mese di luglio. La Commissione ha stabilito undici punti nei quali si riconosce tra l’altro il ‘diritto a decidere’ del popolo catalano e la legittimità per il popolo catalano dell’avvio di un processo costituente ‘proprio, democratico, cittadino, trasversale, partecipativo e vincolante’.

Il 19 luglio 2016, ovvero il giorno dopo l’approvazione delle conclusioni della Commissione, il TC ha richiesto però al Parlamento catalano di dichiarare ‘inammissibile’ il lavoro della Commissione, poste le similitudini tra le conclusioni della Commissione e la Dichiarazione del 9-N. Tuttavia, il 6 ottobre 2016, il Parlamento catalano ha approvato una nuova Risoluzione nella quale si sollecitava il Governo catalano a celebrare un referendum ‘vincolante’ sull’indipendenza catalana entro il settembre 2017. Allo stesso modo il Governo è stato invitato a portare avanti il processo costituente approvato nel luglio dello stesso anno. Il 14 febbraio 2017 il TC ha però annullato nuovamente la Risoluzione adottata dal Parlamento catalano. Quest’ultimo ha continuato tuttavia nel suo intento indipendentista ed il 9 giugno 2017 ha ufficializzato la data per la celebrazione del referendum sull’indipendenza per la Catalogna, fissandola al 1° ottobre 2017 (1-O). Il 28 agosto la maggioranza indipendentista al Parlamento catalano ha presentato il progetto di legge denominato “Legge di transitorietà giuridica e fondazionale della Repubblica”, il cui obiettivo principale è quello di garantire la sicurezza giuridica e la successione ordinata tra le amministrazioni e la continuità dei servizi pubblici in quello che viene definito processo di transizione della Catalogna verso l’indipendenza e la costituzione di uno Stato catalano. La legge è stata approvata l’8 settembre con 72 voti a favore e 11 astensioni. Tale legge entrerebbe immediatamente in vigore in caso di vittoria del Sì al referendum del 1-O. Il 6 settembre 2017 i gruppi indipendentisti hanno invece approvato la c.d. ‘Legge sul referendum di autodeterminazione vincolante per l’indipendenza della Catalogna’, una legge che regolerebbe invece la celebrazione del suddetto referendum. La legge stabilisce che il popolo della Catalogna è un soggetto politico sovrano e come tale esercita il diritto a decidere liberamente e democraticamente la sua condizione politica e che il Parlamento della Catalogna è il rappresentante della sovranità del popolo catalano. Ad una settimana circa dal (possibile) voto, la tensione rimane dunque molto alta.

La reazione violenta di Madrid al nuovo processo indipendentista inscenato dai catalani dovrebbe far riflettere sulle condizioni di salute della democrazia spagnola. Vero è che lo Stato è il detentore del monopolio dell’uso della forza, ma è pur vero che le difficoltà dimostrate dal Governo nella gestione dei processi separatisti fanno emergere piuttosto una intrinseca debolezza dello Stato spagnolo, che pure avrebbe tutti gli strumenti costituzionali per poter procedere ad una soluzione pacificata della questione catalana o di qualsiasi altra questione indipendentista. Su un piano più ampio, questioni sull’ammissibilità della secessione e sui rischi di una eccessiva parcellizzazione degli ordinamenti giuridici dovrebbero essere affrontate in una chiave maggiormente moderna, trattandosi di questioni vecchie anche per giuristi di cent’anni fa. Bisognerebbe piuttosto ripensare i modelli organizzativi generali, convincendosi che lo Stato non può più permettersi di permanere nella condizione latente in cui ad oggi versa.