La Corte di giustizia marca la distanza tra il diritto dell’Unione e la CEDU e offre un puntello alla giurisprudenza costituzionale in tema di (non) applicazione diretta della Convenzione (a margine di Corte giust., Grande Sez., 24 aprile 2012)

Nel titolo dato a questa succinta riflessione sono descritti i due versanti lungo i quali può dispiegarsi l’indicazione di principio data dal giudice dell’Unione con la decisione ora annotata: quello dei rapporti tra l’Unione stessa e la CEDU e l’altro dei rapporti tra quest’ultima e il diritto interno, due versanti che poi finiscono con l’incontrarsi “a valle”, dal momento che è pur sempre nello stesso ordinamento interno che finiscono con lo scaricarsi talune tensioni che dovessero registrarsi “a monte”, al piano dei rapporti sovranazionali.
La pronunzia presenta non poco interesse sotto più profili; qui, mi soffermerò su uno solo di essi, quello evocato dal titolo stesso a riguardo della vessata questione concernente l’applicazione diretta della CEDU da parte dei giudici, per il caso che leggi nazionali vi contrastino. Sul punto, su cui a mio modo di vedere le Corti (quelle europee e quelle nazionali, Corte costituzionale in testa) dovranno tornare, specie a seguito della prevista adesione dell’Unione alla CEDU, non indugerò qui né a riassumere il pensiero del giudice delle leggi, a tutti noto, né gli argomenti addotti da quanti in esso, in maggiore o minor misura, non s’identificano: si va, infatti, dalla opinione di coloro che vorrebbero che ogni caso di antinomia sia risolto direttamente ed esclusivamente dai giudici comuni all’opinione di chi si dichiara dell’idea che alcuni casi possano essere trattenuti ai giudici stessi ed altri invece portati alla cognizione della Consulta (indicazioni in quest’ultimo senso possono, volendo, aversi dal mio Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in www.giurcost.org, 21 aprile 2012). Mi limiterò solo a ragionare sulle possibili implicazioni connesse alla presa di posizione del giudice dell’Unione e, perciò, su taluni scenari che potrebbero anche a breve delinearsi per effetto di essa, specie nella prospettiva dell’adesione dell’Unione stessa alla Convenzione.

Inizio col dire che la sentenza è estremamente avara d’indicazioni a sostegno della tesi preferita, nondimeno risolutamente affermata. La cosa, francamente, si fatica a comprendere, specie se si pensa quanto la questione sia stata (e sia) animatamente discussa, con argomenti plurimi ed ora più ora meno persuasivi addotti a beneficio dell’una e dell’altra tesi.
Il punto, trattato ai parr. 59-62, è assai sbrigativamente (e, a mia opinione, incertamente) fissato, dichiarando il giudice dell’Unione di dover rispondere negativamente alla domanda pervenutagli in sede di rinvio pregiudiziale dal tribunale di Bolzano circa l’obbligo che l’art. 6 TUE imporrebbe ai giudici nazionali di disapplicazione delle norme di diritto interno in conflitto con la CEDU. Il giudice “eurounitario” – come a me piace chiamarlo – muove, infatti, dall’assunto che l’art. ora cit. non disciplini i rapporti tra CEDU e ordinamento interno, non determinando pertanto “le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale” (62). La conclusione è piana: l’art. 6 “non impone” la disapplicazione di tale norma accompagnata dalla contestuale applicazione in sua vece della norma convenzionale (63).
La Corte non dice perché la Convenzione non sarebbe stata “comunitarizzata” in virtù del richiamo ad essa fatto dal disposto suddetto, così come invece si avrebbe secondo una ricostruzione teorica diversamente orientata, né si avventura in ragionamenti, assai complessi, che invero non aveva la convenienza di svolgere, anticipando conclusioni di cui potrebbe un domani pentirsi, a riguardo di ciò che potrebbe aversi una volta giunta a compimento la prevista adesione dell’Unione alla CEDU. Non sappiamo, dunque, se la ipotizzata “comunitarizzazione” resterà ugualmente esclusa malgrado l’adesione stessa o se, di contro, le cose a seguito e per effetto di essa cambieranno.
Dalla prospettiva della Corte, al di qua della sponda v’è dunque il diritto “eurounitario” ed al di là il diritto convenzionale, mentre manca ad oggi il ponte che le unisca, un ponte che – come si diceva – potrebbe non essere edificato pur dopo l’adesione suddetta. E, invero, con ogni probabilità, il giudice dell’Unione non gradisce che esso sia costruito: forse, per il timore di perdere il controllo in via esclusiva esercitato sul modo con cui il diritto dell’Unione è gestito sia in ambito sovranazionale (e, segnatamente, da parte delle istituzioni dell’Unione stessa) e sia in ambito interno, ad opera degli organi chiamati a far “uso” contemporaneamente del diritto “eurounitario” e del diritto convenzionale.
La Corte, insomma, vuol riservarsi – è questa l’ipotesi interpretativa che sento di dover ora affacciare, forse invero caricando di eccessive valenze le scarne e fin troppo reticenti affermazioni della decisione annotata – il potere di valutare di volta in volta se e come portare ad effetto la Convenzione, quale perciò la “misura” della sua possibile incidenza sulle dinamiche produttive ed applicative del diritto dell’Unione (e, di riflesso, dello stesso diritto nazionale al primo funzionalmente connesso).
D’altro canto, è chiaro che l’indirizzo che verrà ad affermarsi a livello di Unione circa l’applicazione diretta della CEDU da parte dell’Unione stessa non potrà che riprodursi a cascata, in modo diretto ed immediato, in ambito nazionale, obbligando gli operatori di diritto interno a conformarvisi a pena di violare un obbligo “eurounitario”. È bensì vero che siffatto indirizzo non può che valere per i soli campi materiali coltivati dal diritto dell’Unione, non pure al di fuori di essi, laddove resta integro il dominio degli Stati. In astratto, dunque, potremmo immaginare persino il caso opposto a quello sopra ragionato: che la Corte possa un domani cambiare idea e dichiararsi favorevole all’applicazione diretta della CEDU e che, ciononostante, questa non sia considerata possibile in ambito interno (per capirci, dalla nostra Corte costituzionale) al di fuori della sfera di competenze di cui l’Unione è dotata. Si tratterebbe, però, di un’ipotesi, sì, astrattamente formulabile ma a triplice titolo remota: una prima volta, perché il verso di marcia è – come si sa – marcato nel portare vieppiù in alto, al piano sovranazionale, competenze ad oggi trattenute, sia pure in parte, in capo allo Stato ed alle sue articolazioni interne; una seconda volta, poi, perché non può negarsi che, in una congiuntura quale quella qui immaginata, si avrebbe una spinta formidabile e pressoché irresistibile nel senso dell’imitazione da parte dei giudici nazionali dell’opzione fatta a Lussemburgo; infine, una terza volta, perché già oggi è questo – come si sa – l’indirizzo accolto proprio dal nostro giudice delle leggi, che pertanto ne risulterebbe ulteriormente rinsaldato dall’opzione fatta dalla Corte dell’Unione.
Come si diceva, tuttavia, nessun segno è ad oggi dato di vedere che avvalori una lettura quale quella ora presa in esame, mentre la stessa decisione qui annotata sembra risolutamente e speditamente incamminarsi nel verso opposto.
La Corte, nondimeno, dà qui testimonianza di estrema cautela. Pronunziandosi nel senso che l’art. 6 TUE “non impone” l’applicazione diretta della CEDU, ovviamente neppure esclude l’opposta evenienza, qualora così dovessero orientarsi i giudici nazionali. Il trattato dell’Unione – fa capire la Corte – è, insomma, “neutrale”, silente e, a conti fatti, pilatesco circa il modo con cui ciascun ordinamento nazionale si pone davanti alla Convenzione, quale la tecnica processuale bisognosa di esser messa in atto allo scopo di farne valere il rispetto da parte delle leggi, se quella dell’applicazione diretta o l’altra del ricorso al giudizio del tribunale costituzionale. Ovviamente, trattandosi di rinvio pregiudiziale attivato da un giudice italiano, la Corte sapeva bene qual era (ed è) l’orientamento al riguardo patrocinato dal nostro giudice costituzionale, al quale tuttavia opportunamente non è fatto, né doveva farsi, espresso richiamo.
In tal modo, il giudice dell’Unione si mostra rispettoso di tutto ciò che fa l’identità costituzionale degli Stati membri dell’Unione stessa, non solo al piano sostantivo (dei valori e dei principi e canoni di diritto in genere a mezzo dei quali i valori stessi s’inverano nella pratica giuridica) ma anche al piano processuale (delle tecniche che stanno a base delle relazioni interordinamentali al fine di assicurarne il lineare ed armonico svolgimento). Resta, ad ogni buon conto, da stabilire in quanta parte la salvaguardia del “margine di apprezzamento” degli Stati – per adattare al piano delle relazioni con la Corte dell’Unione uno schema, come si sa, forgiato per altri ambiti di esperienza – si debba al bisogno, di sicuro intensamente avvertito dal giudice di Lussemburgo, di mantenere quello “stacco” tra il diritto dell’Unione stessa e il diritto convenzionale, di cui un momento fa si diceva.
La Corte era ben consapevole del fatto che, affermando l’obbligo di applicazione diretta della CEDU da parte dei giudici nazionali, questo avrebbe potuto risolversi in non pochi casi nella implicita disapplicazione diretta dello stesso diritto “eurounitario” anticonvenzionale. D’altro canto, anche l’opposta soluzione favorevole al riconoscimento dell’obbligo di “non applicazione” diretta, oltre a rivelarsi assai problematicamente praticabile a fronte del tenore letterale del disposto dell’art. 6 TUE che nessun segno contiene a suo sostegno, avrebbe potuto pregiudicare la fluidità e mobilità di svolgimento delle relazioni tra Unione e CEDU; e questo – come si diceva – non appariva conveniente né per il presente né per il prossimo futuro delle relazioni stesse. Lasciando invece impregiudicata la questione, la Corte, da un canto, si è riservata di tornare a decidere sopra di essa in altra occas
ione e di prendere partito a seconda dell’andamento delle cose; da un altro canto, poi, ha scaricato sullo Stato la responsabilità di una scelta su cui potrebbe comunque aver modo di pronunziarsi, qualora la scelta stessa dovesse interferire sul rispetto del diritto dell’Unione.
Nulla poi esclude l’ipotesi che la Corte abbia inteso mandare un messaggio – per dir così –quodammodo “subliminale” ai protagonisti delle trattative volte all’adesione dell’Unione alla CEDU affinché siano essi a decidere delle sorti della CEDU, nei suoi complessi rapporti col diritto dell’Unione stessa. Un’ipotesi che invero la laconicità espressiva del trattato parrebbe avvalorare e che però non è avvalorata dalla decisione qui annotata, che nessuna sicura indicazione dà né in un senso né nell’altro, sicché ogni supposizione al riguardo rischierebbe comunque di forzare il pensiero della Corte.
La partita è, insomma, appena cominciata e non resta che seguirne i possibili, prossimi sviluppi. Per ciò che, in conclusione, se ne può dire, l’impressione è che, una volta di più, i giudici nazionali (anche costituzionali!) corrano il rischio di restare emarginati da un “gioco” che sembra svolgersi sopra le loro teste, prendendo piede al piano delle relazioni tra le Corti europee. E, tuttavia, anche con riguardo alla questione ora rapidamente trattata così come per ogni altra coinvolgente le relazioni interordinamentali, i giudici nazionali (Corti costituzionali in testa) possono (e devono) fare la loro parte, orientando a mezzo di indirizzi chiaramente delineati e fermamente e diffusamente osservati gli svolgimenti della giurisprudenza delle Corti europee. E, invero, viene difficile da pensare che, qualora dagli ambienti nazionali dovesse venire un’indicazione largamente e vigorosamente patrocinata nel senso dell’applicazione diretta della CEDU, la Corte dell’Unione possa efficacemente contrastarla, resistendo alla pressione esercitata “dal basso”. Il fatto è che, come si sa, da un canto, siffatta pressione (dal nostro e da altri ordinamenti) non è venuta, mentre, dall’altro, ancora più consistente e in qualche caso praticamente irresistibile è stata (ed è) la pressione esercitata “dall’alto”, le Corti europee avendo già in molte occasioni sollecitato mutamenti d’indirizzo dei giudici nazionali, di cui si è quindi avuto puntuale riscontro.
Quello del “dialogo” è, ad ogni buon conto, un metodo delle relazioni intergiurisprudenziali del quale – è ormai provato – non può farsi a meno, al di là delle innegabili carenze ed anche qualche non rimossa ambiguità di cui è avvolto il termine (ed il concetto che esso evoca), delle quali si ha peraltro testimonianza nelle sue concrete e varie manifestazioni. E nel “dialogo” non c’è un prius o un posterius, il primato piuttosto dovendo essere ricercato e non di rado a fatica (e comunque solo in parte) raggiunto al piano culturale, ancora prima (o piuttosto) che a quello positivo.
Qui, però, il discorso vorrebbe portarsi oltre l’hortus conclusus di questa succinta riflessione e deve pertanto essere subito e senza esitazione troncato. Quel che solo può dirsi, con specifico riguardo alla questione ora nuovamente trattata, è che di essa avremo sicuramente modo di tornare a discutere, dal momento che la stessa Corte con la decisione annotata non chiude a possibili, originali sviluppi della propria giurisprudenza, anche per il modo con cui le altre Corti, a partire da quella di Strasburgo, reagiranno alla pur sfumata e cauta presa di posizione oggi adottata dal giudice dell’Unione.