La Corte EDU come contrappeso: alla ricerca di sinergie tra Convenzione, Carta Sociale e OIL. (1)

La dottrina Viking e Laval della Corte di giustizia ha già causato conseguenze rilevanti tanto nell’ordinamento svedese che in quello del Regno Unito, tutte di segno negativo per i diritti sindacali in quei Paesi; si tratta di conseguenze che non hanno preoccupato solo i sindacati ma anche il Comitato sull’applicazione delle Convenzioni e Raccomandazioni OIL, che si è mostrato contrario alla dottrina della Corte di giustizia. Sebbene il Comitato Europeo sui Diritti Sociali, che vigila sull’applicazione della Carta sociale europea, non sembra essersi ancora pronunciato sul punto, la dottrina Viking e Laval va probabilmente a scontrarsi anche con gli orientamenti pregressi di detto Comitato.


La Corte EDU, dal canto suo, non ha ancora avuto modo di pronunciarsi sul punto (né su questioni affini a quelle dei casi Viking e Laval); ciononostante, la situazione attuale ha suggerito a molti, tra giudici e accademici, di riporre fiducia nella giurisprudenza CEDU, quale correttivo alla dottrina della Corte di giustizia. Ciò perché, a partire dal caso Demir (2008), la Corte di Strasburgo si sarebbe convertita ai diritti sindacali abbandonando il precedente self-restraint, così da riconoscere finalmente che il diritto alla contrattazione collettiva (caso Demir) e quello di sciopero (caso Enerji Yapi, 2009) costituirebbero un elemento essenziale del diritto a dar vita e iscriversi ai sindacati per tutelare i propri interessi ex art. 11 CEDU. Nella CEDU, pertanto, tali diritti sindacali costituirebbero il cuore della tutela, mentre le libertà economiche potrebbero al più rivestire il ruolo di limiti a tali diritti fondamentali, da interpretarsi restrittivamente. Il che varrebbe a invertire la logica della Corte di giustizia, la quale sembra aver messo al centro le libertà economiche e relegato ai margini i diritti sindacali, specie quello di sciopero.

Non è questa una visione troppo ottimistica? Non ci stiamo dimenticando che la giurisprudenza CEDU viaggia su un doppio binario, di alti principi e di tecnica casistica, ove il distinguishing offre una facile via di fuga dinanzi a situazioni imbarazzanti?

Nessuno dei casi decisi dalla Corte EDU in favore dei sindacati e dei lavoratori ha a che fare con questioni di “economia transazionale”, ancora meno con questioni di diritto dell’UE. Conoscendo la deferenza mostrata dalla Corte EDU nei riguardi della Corte di Giustizia (v. caso Bosphorus, 2005), è assai difficile immaginare uno scontro giurisprudenziale diretto che aggredisca la dottrina Viking e Laval. I casi recenti della “svolta” di Strasburgo, per quanto importanti, si limitano a smantellare divieti anacronistici nei confronti dell’attività sindacale in alcuni settori del pubblico impiego; fra l’altro, nel tanto celebrato caso Demir, la Turchia aveva già modificato la legislazione contestata al momento della decisione; qualcosa di simile era accaduto nel precedente caso Wilson del 2002, ove la Corte aveva sì mostrato coraggio nel riconoscere i diritti sindacali, ma dove aveva a che fare con una legislazione inglese approvata dai conservatori dieci anni prima e che i laburisti al governo stavano già modificando.

L’unico caso di mia conoscenza ove la Corte EDU si è trovata a bilanciare diritti sindacali con beni cari al diritto dell’UE, come la concorrenza, non è proprio incoraggiante: nel ‘99, l’Antitrust svedese aveva invalidato una clausola di un contratto collettivo tra sindacato dei trasportatori e associazione degli editori di giornali, un anno dopo che il supremo giudice del lavoro svedese aveva dichiarato la legittimità della stessa clausola, il cui scopo era quello di impedire il dumping sociale vietando agli editori di ingaggiare trasportatori autonomi esterni al sindacato. Nel giudizio di Strasburgo la Svezia ha sostenuto che l’Antitrust aveva dato applicazione alla legge sulla concorrenza che rappresentava uno strumento cruciale per l’economia di mercato in Svezia e un prerequisito per l’entrata della stessa Svezia nell’UE. La Corte EDU si limitò a dichiarare, con riguardo all’art. 11, che il ricorso dei sindacati era inammissibile, con una motivazione che lascio a voi giudicare:

«Mentre la Corte riconosce l’importanza dei contratti collettivi come strumenti di tutela degli interessi degli iscritti al sindacato, l’art. 11 della Convenzione non garantisce un diritto dei sindacati a conservare un accordo collettivo in una particolare materia per un periodo indefinito di tempo. Agli occhi della Corte, l’oggetto del ricorso non è tale da far insorgere alcuna questione ai sensi dell’art. 11» (dec. Swedish Transport Workers’ Union del 2004).

Altro caso interessante ma forse poco incoraggiante è il caso Gustafsson del 1996, ove il ricorrente era un imprenditore della ristorazione che aveva subito un boicottaggio da parte di altri imprenditori (fornitori, ecc.), per non aver applicato un contratto collettivo. Se è vero che la Corte EDU riconosce che nel caso specifico non era stata violata la libertà negativa di associazione, nonostante che il ricorrente avesse subito danni economici a causa del boicottaggio, la Corte aggiunge che il ricorrente non aveva dimostrato la sua affermazione per cui le condizioni contrattuali offerte ai suoi dipendenti erano più favorevoli di quelle del contratto collettivo, con ciò quasi anticipando il test di giudizio formulato dalla Corte di Giustizia in Viking e Laval.

Ho volutamente tratteggiato fin qui un panorama a tinte grigie. Ma quello che va ancora investigato della giurisprudenza della Corte è l’aspetto più saliente che accomuna l’evoluzione che ha condotto la giurisprudenza di Strasburgo verso una crescita di tutela dei diritti sindacali. Si tratta della connessione che la Corte instaura con la Convenzione e altri strumenti di tutela internazionale ed europea di tali diritti, quali le Convenzioni OIL e la Carta sociale.

Agli albori della giurisprudenza CEDU, l’esistenza della Carta sociale (di 11 anni posteriore alla Convenzione) aveva paradossalmente inibito l’interpretazione evolutiva dell’art. 11 e di altri articoli potenzialmente aperti alla garanzia di diritti sociali, con un argomento che più o meno suona così: se gli Stati del Consiglio d’Europa hanno concepito uno strumento di “soft law” come la Carta sociale per la tutela dei diritti sociali e sindacali, rifiutando di affidarli alla supervisione della Corte, non può la stessa Corte surrettiziamente farli rientrare nello sistema “hard law” della Convenzione (National Union of Belgian Police del 1975; Swedish Engine-Drivers’ Union del 1976; ma, con i dovuti distinguo, v. anche Schmidt and Dahlström del 1976).

Da allora le cose sono cambiate: il primo overruling sull’art. 11 e la libertà sindacale è il caso Sigurdur, del 1993, ove la Corte, per garantire la libertà negativa di non appartenere a un sindacato, si appoggiò sulla specifica “giurisprudenza” del Comitato della Carta sociale che aveva già “condannato” l’Islanda per le stesse prassi oggetto di ricorso a Strasburgo. Altri casi più recenti e assai importanti in materia di sindacati (come i già citati Wilson e Demir) ma anche in materia di diritti sociali (Koua Poirrez, del 2003), seguono la stessa struttura, ossia la Corte si avvale di specifici giudizi espressi da Comitato della Carta sociale e dal Comitato OIL contro la legislazione statale controversa.

La riforma della Carta sociale entrata in vigore nel 1999 può rappresentare anche uno spartiacque convenzionale nell’evoluzione della giurisprudenza CEDU sul tema dei diritti sindacali e dei lavoratori (nonché dei diritti sociali tout court): nel ‘99, infatti, oltre a un arricchimento dei contenuti di garanzia sostanziale della Carta, si è rafforzato anche il meccanismo di supervisione degli Stati firmatari. Usando le parole della Corte in Demir,

la volontà degli Stati del Consiglio d’Europa di operare tale rafforzamento del meccanismo di supervisione della Carta sociale dimostra «l’esistenza di un consenso tra gli Stati circa la promozione dei diritti sociali ed economici. Non è interdetto alla Corte tener conto di tale volontà generale degli Stati quando essa interpreta le disposizioni della Convenzione».

Se fino al 1998 noi troviamo appena 5 decisioni di merito che citano la Carta sociale (di cui 3 citano anche le convenzioni OIL), dal 1999 ne troviamo 25 (di cui 13 citano anche l’OIL) e 5 decisioni di merito che citano solo le Convenzioni OIL. Non è solo un aumento numerico (in sé non significativo, posto che rientra nel trend successivo al Prot. XI), ma un’evoluzione qualitativa: la Carta Sociale e le Convenzioni OIL viaggiano sempre, o quasi, con il “diritto vivente” fornito dai rispettivi Comitati di esperti che vigilano sull’implementazione statale dei diritti sindacali e dei lavoratori. Sapendo cosa tali Comitati pensano o possono pensare della dottrina Viking e Laval, ecco che tale scenario può fornirci qualche spunto per sperare nell’operato futuro della Corte EDU quale contrappeso alla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Concludo: se guardiamo all’UE, dobbiamo rilevare come la Carta di Nizza, seppure influenzata dalla Carta sociale, non fa espressa menzione di quest’ultima, mentre impone una stretta connessione tra le proprie disposizioni e le corrispondenti norme della CEDU (art. 52.3), connessione che implica anche un forte, anche se non formalmente obbligatorio, riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Se poi pensiamo all’approccio piuttosto timido che la Corte di Giustizia ha avuto fin qui rispetto alla Carta sociale e alla riluttanza nel considerarla un’importante fonte d’ispirazione in uno con la “giurisprudenza” del Comitato dei diritti sociali, capiamo quanto sia importante la giurisprudenza CEDU sui diritti dei lavoratori. L’interpretazione evolutiva della Convenzione alla luce delle prassi dei Comitati della Carta sociale e dell’OIL rappresenta forse il cavallo di Troia capace di introdurre i diritti dei lavoratori e dei sindacati nella “fortezza” dell’UE.

(1) Intervento al convegno “I diritti dei lavoratori nelle carte europee dei diritti fondamentali”, Ferrara 25-26 novembre 2011.