La Corte torna sul diritto all’abitazione: precarietà economico reddituale e ragionevolezza delle scelte operate dal legislatore

La sentenza n. 112/2021 della Corte costituzionale, resa in un giudizio in via incidentale promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 3, ultimo capoverso, e comma 4, lettera a), della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2009, n. 27 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica) nella parte in cui, ai fini della determinazione dei canoni di locazione tollerabili dagli assegnatari degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (ERP), «non consentono la collocazione nell’area della protezione a soggetti che percepiscono redditi da lavoro autonomo».
Ad avviso del giudice rimettente, le disposizioni richiamate violerebbero l’art. 3 Cost. in quanto, operando una distinzione tra soggetti il cui reddito provenga esclusivamente da pensione o da lavoro dipendente o assimilato – ammessi ad essere collocati nella categoria di maggiore protezione – e lavoratori autonomi – che, a parità di reddito, ne sarebbero esclusi – si tradurrebbe in un “trattamento diverso di situazioni sostanzialmente uguali” gettando ombre sulla “ragionevolezza della scelta operata dal legislatore”.
La Corte giunge a tale conclusione, rilevando peraltro che la differenziazione prospettava dalla normativa non possa trovare giustificazione avendo riguardo al contributo offerto dai soli lavoratori dipendenti, in un lontano passato, alla realizzazione dell’edilizia residenziale pubblica attraverso il cofinanziamento del Fondo Gescal. Tale contributo, istituito con l’art. 10 della legge 14 febbraio 1963, n. 60 (Liquidazione del patrimonio edilizio della Gestione I.N.A.-Casa e istituzione di un programma decennale di costruzione di alloggi per i lavoratori), non solo ha operato per un limitato periodo di tempo (fino al 1995), ma ha rappresentato solo uno dei canali di finanziamento del patrimonio ERP, finanziato anche da una quota versata dallo Stato. Ne deriva che i lavoratori dipendenti che oggi usufruiscono di tali alloggi non possono che rappresentare una parte, non pienamente rappresentativa, di coloro che abbiano versato un contributo economico (pur parziale) alla realizzazione delle opere di edilizia residenziale pubblica. Inoltre, come mette in evidenzia la Corte, l’utilizzo di tale criterio distintivo (chi ha contribuito economicamente alla realizzazione del patrimonio edilizio e chi no) per lasciare fuori dall’applicazione della norma di maggior favore i lavoratori autonomi, non si giustifica neppure in riferimento alla categoria dei pensionati, non rilevando – ai fini della loro collocazione nell’area di maggior protezione – se in passato siano stati lavoratori dipendenti o abbiano svolto un’attività di lavoro autonomo. Circostanza, questa, che “ulteriormente sconfessa che la ragionevolezza della norma possa essere associata alla diversa contribuzione data all’edilizia residenziale pubblica”.
La Corte torna, dunque, a pronunciarsi sul diritto all’abitazione, rispetto al quale, già dalla pronuncia n. 217/1988, ha avuto modo di affermare che «rientr[i] fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» e sia compito dello Stato garantirlo, contribuendo così «a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana». Tale diritto, benché non espressamente previsto dalla Costituzione, ricorda la Corte, deve ritenersi incluso nel catalogo dei diritti inviolabili e il suo oggetto, l’abitazione, deve considerarsi «bene di primaria importanza» (si vedano, tra le altre, le sentenze n. 168/ 2014, n. 166/2018, n. 44/2020).
In particolare, la Consulta pone in evidenza che, se la finalità della norma è quella di salvaguardare il fondamentale diritto all’abitazione per persone che si trovino in una situazione di precarietà economico reddituale, la scelta operata dal legislatore lombardo si traduce in una causa normativa irrazionale e arbitraria, non giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio (tra le altre, sent. n. 172/2013).
La conclusione cui giunge la Consulta si pone in linea con una serie di precedenti in relazione ai quali è stato affermato lo stesso principio, soprattutto a fronte di richieste, da parte delle normative nazionali e regionali, di una residenza protratta sul territorio per accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica (si veda, di recente, la sent. n. 44/2020) e ai contributi per il pagamento del canone di locazione, previsti dalla Legge n. 431/1998 per il sostegno alle locazioni.
In particolare, in riferimento a quest’ ultima misura, anch’essa finalizzata a favorire l’accesso all’abitazione (in locazione) per nuclei a basso reddito, la Corte ha proprio insistito sull’importanza della situazione di debolezza economica e sociale ai fini dell’accesso alle provvidenze. Con la sent. n. 166/2018, ha difatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, con il quale, tra i requisiti di accesso ai contributi era stato aggiunto, per gli immigrati, quello del « possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima Regione».
La formulazione iniziale dell’art. 11 della legge n. 431/1998 che ha istituito il Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione prevedeva, invece, che i requisiti di accesso alle misure dovessero essere definiti esclusivamente in relazione al reddito familiare e all’incidenza sul reddito medesimo del canone di locazione. In esecuzione di detta norma, il d.m. 7 giugno 1999 ha dettato una serie di criteri, specificando inoltre che, ove le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano ed i Comuni concorrano con propri fondi ad incrementare le risorse attribuite dal fondo nazionale, possono stabilire ulteriori articolazioni delle classi di reddito o soglie di incidenze del canone più favorevoli.
In origine, dunque, i destinatari del contributo erano tutti i conduttori che, per basso reddito ed elevate soglie di incidenza del canone, potessero ritenersi in una situazione di indigenza tale da non disporre di risorse sufficienti a sostenere l’onere del pagamento dell’ammontare dovuto per l’abitazione.
La Corte costituzionale, riconoscendo la natura polifunzionale della prestazione, ha sottolineato che la sua «ratio è quella di sostenere gli indigenti al fine di consentire loro di soddisfare le esigenze abitative mediante ricorso al mercato e prevenire il rischio di sfratti per morosità», dichiarando illegittima la modifica operata con l’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112. Trattandosi, infatti, di un beneficio di carattere sociale, la legittimità di misure volte a circoscrivere la platea dei beneficiari in ragione della limitatezza delle risorse destinate al loro finanziamento, deve comunque rispettare il principio di ragionevolezza.
Probabilmente, la mancata sgranatura ad opera del legislatore sulle effettive condizioni di bisogno e di debolezza economica e sociale è stata la ragione che ha spinto la Corte ad una soluzione che, sempre in tema di abitazione – in questo caso di proprietà – sembra a prima vista di segno opposto rispetto a quelle sopra richiamate. Ci riferiamo alla recente sent. 128/2021, laddove, pur riconoscendo che il diritto sociale all’abitazione «rientr[i] fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione», è stata dichiarata la illegittimità della seconda proroga alla sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale. Se la prima proroga poteva considerarsi giustificata, dalla preoccupazione che le procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale potessero costituire causa di aggravamento delle difficoltà economiche dovute dell’emergenza pandemica, “il protrarsi del sacrificio richiesto ai creditori procedenti in executivis, che di per sé non costituiscono una categoria privilegiata e immune dai danni causati dall’emergenza epidemiologica, avrebbe dovuto essere dimensionato rispetto alle reali esigenze di protezione dei debitori esecutati, con l’indicazione di adeguati criteri selettivi”. Quel richiamo che la Corte fa alla necessità per il legislatore di indicare “i presupposti soggettivi e oggettivi della misura” in grado di riportare in equilibrio il bilanciamento tra interessi dei creditori e dei debitori esecutati, evoca dunque la necessità, tracciata nelle pronunce sopra richiamate, che le misure finalizzate a garantire il diritto all’abitazione, integrando degli interventi e servizi sociali, rispondano a bisogni dell’individuo, soprattutto a fronte di situazioni di debolezza economico sociale, rispetto alle quali elementi come la fonte di reddito (o la residenza protratta su un certo territorio) diventano fattori secondari.