La crisi dell’indipendenza del giudice nelle vicende polacche, ungheresi e rumene.

La Polonia ha parlato. Forte e chiaro. In un Paese in cui la voce della piazza conta ancora qualcosa e non esita a farsi sentire, il popolo, prima che il suo Presidente, ha posto il veto a una riforma dell’ordinamento giudiziario che avrebbe cambiato i connotati dello Stato di diritto democratico polacco. Martedì scorso, infine, il Presidente Andrzej Duda ha esercitato il potere di veto nei confronti di due delle tre leggi sull’ordinamento giudiziario recentemente approvate dal Parlamento polacco.
Le leggi, approvate in Senato dalla maggioranza ultraconservatrice del partito “Diritto e giustizia” nella notte tra il 21 e il 22 luglio, ove promulgate, sarebbero andate a intaccare pericolosamente l’indipendenza del giudice, con riferimento alla cosiddetta “garanzia iniziale” della stessa: quella, cioè, legata al momento genetico della carica, e alle modalità di nomina o elezione. La ratio evidente in entrambi i testi normativi era la sottoposizione dei giudici al controllo del governo e la creazione di un corpo di magistrati politicamente obbediente. Una delle due leggi prevedeva infatti il “pensionamento” di tutti i giudici della Corte Suprema. Solo alcuni componenti dell’organo sarebbero stati risparmiati dalla misura, su indicazione del Ministro della Giustizia, che avrebbe così acquisito il potere di nomina di giudici facenti parte di un organo cui – non va sottaciuto – spetta il compito di confermare la validità delle elezioni europee, nazionali e amministrative. L’altra legge riguardava il Consiglio nazionale della magistratura e prevedeva la fine del mandato dei membri attualmente in carica e l’elezione di nuovi da parte del Parlamento a maggioranza semplice.

Pur riconoscendo la necessità di una riforma della giustizia, Duda ha motivato il suo veto sostenendo che la Polonia non ha una tradizione giuridica e costituzionale che attribuisca al ministro della giustizia prerogative così ampie in ordine alla selezione dei giudici.
Lo scoglio contro cui potrebbe infrangersi la riforma della garanzia iniziale dell’indipendenza dei giudici polacchi sarà l’approvazione dei disegni rinviati in Parlamento a maggioranza qualificata dei 3/5 ottenuta con almeno metà del numero legale dei deputati presenti, condizione richiesta nell’ordinamento polacco per ogni disegno su cui il Presidente pone il veto. I numeri attuali suggeriscono che la maggioranza prescritta non sembra potrà essere raggiunta; in caso contrario, una seconda approvazione da parte della Dieta bloccherebbe il potere di norma riconosciuto al Presidente, ex art. 122 § III Cost., di sottoporre la legge al vaglio del Tribunale costituzionale per un esame di conformità a Costituzione.

Non va dimenticato, però, che Duda ha promulgato una terza legge, non meno inquietante di quelle rinviate, ai sensi della quale il Ministro della Giustizia potrà nominare e deporre i presidenti dei tribunali distrettuali e delle Corti d’appello. D’altronde, proprio Duda, nel 2015, si era rifiutato di confermare la nomina di tre giudici costituzionali scelti dal precedente governo liberale, dando così adito ai primi scontri tra potere giudiziario e governo.

Il caso polacco non rappresenta un unicum nell’area dell’Est Europa. Da alcuni anni, ormai, in diversi Paesi di quest’area si registrano potenti scosse telluriche che minano le fondamenta dello Stato democratico e che non hanno risparmiato l’indipendenza del giudice. In Constitutional Crisis in the European Constitutional Area, a cura di Armin Von Bogdandy e Pal Sonnevend, pubblicato da Hart nel 2015, sono argomentate diffusamente e con una chiarezza non scontata le vicende di Ungheria e Romania.
In Romania, nonostante il neonato Stato costituzionale nel 1992 si sia munito di una legge sull’organizzazione del potere giudiziario a tutela dell’indipendenza del giudice, la cultura comune del giudice medio persisterebbe nel vizio atavico di coltivare legami con la politica e di servirsene per far carriera. È significativo osservare che l’unico ministro sottoposto a procedura di impeachment in vent’anni di storia costituzionale rumena è stato il ministro della giustizia Monica Macovei, nel 2007, “colpevole” di aver messo in moto alcune riforme del sistema giudiziario per renderlo più conforme ai principi costituzionali. Inevitabilmente, la cultura di fondo si riflette anche sul piano della giurisdizione costituzionale (per non parlare, poi, del dubbio ruolo del CSM rumeno): in molti casi la Corte costituzionale ha emesso sentenze in cui ha riservato un trattamento di favore agli organi di governo (ad esempio, nel 2007 ha deciso che gli ex ufficiali governativi possano essere sottoposti a giudizio per corruzione solo previa approvazione presidenziale e parlamentare). La Corte costituzionale, poi, è stata protagonista del momento clou della crisi costituzionale, nel 2012.
Sul fronte ungherese vanno segnalate le novità introdotte dalla nuova Costituzione del 2012 sull’organizzazione della magistratura. In tema di reclutamento dei giudici, ad esempio, se negli anni ’90 si era data vita a una sorta di organo di autogoverno (il National Council of Justice, pur affetto da qualche problema di fondo), nel 2012 la Costituzione ha operato un riferimento generico a “organi di autogoverno della magistratura”, dando il “la” al Parlamento per introdurre con legge un National Judicial Office e un National Judicial Council. Il Presidente del primo risultava eletto per nove anni dal Parlamento a maggioranza qualificata e disponeva di ampi poteri relativi alla vita delle Corti, anche in merito al loro budget. La Commissione di Venezia ha duramente bacchettato gli ungheresi, che hanno provveduto a modificare le disposizioni costituzionali, probabilmente a motivo della consapevolezza che la tutela dell’indipendenza del giudice a livello nazionale è condicio sine qua non per iniziare le negoziazioni al fine di prendere in prestito denaro dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea in tempi di crisi….

Tensioni tra i Paesi in questione e l’UE sono attive già da qualche tempo e Polonia, Ungheria e Romania non nascondono il loro reciproco sostegno contro i moniti dell’UE. Durante una recente visita in Romania, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha manifestato il suo sostegno alle riforme polacche contro quella che ha definito “l’inquisizione di Bruxelles”. Certo è che, se si trattasse di Paesi che chiedessero adesso di diventare Stati membri dell’UE, Polonia, Ungheria e Romania dovrebbero necessariamente confrontarsi con i principi dello Stato di diritto democratico, condizioni perentorie chieste dall’U.E., dovendo rivedere alcune scelte di politica interna assai discutibili. Tra queste, le sorti riservate all’indipendenza dei giudici, corollario imprescindibile del principio della separazione dei poteri, posto a fondamento di ogni Stato costituzionale.