La dichiarazione di emergenza del Presidente Trump. Una nuova minaccia alla democrazia americana? Prime riflessioni sugli aspetti problematici e i profili costituzionali di una vicenda complessa

Le sfide che si trova oggi ad affrontare la democrazia americana non sono certamente attribuibili in via esclusiva alla seppur controversa figura del Presidente Donald Trump. Le sue iniziative, tuttavia, minacciano di scardinare i principi fondamentali dell’ordinamento, mettendo alla prova la stabilità del sistema costituzionale statunitense con un’eco che travalica i confini nazionali. Lo scontro tra Esecutivo e Legislativo affonda le proprie radici in un processo di polarizzazione della vita politica americana e di radicalizzazione del confronto che può ormai considerarsi risalente e che, secondo alcuni, si è andato via via approfondendo a causa della sostanziale inerzia del Congresso e di una interpretazione espansiva dei poteri presidenziali.
La presidential proclamation con la quale il Presidente Trump ha dichiarato il 15 febbraio scorso l’emergenza nazionale ha suscitato le preoccupate reazioni del mondo politico e accademico, in ragione dei numerosi aspetti problematici coinvolti e delle possibili ripercussioni dell’iniziativa sull’assetto istituzionale del Paese. La decisione di invocare i poteri emergenziali, per distrarre fondi federali destinati ad altri progetti e procedere con la costruzione del Muro al confine con il Messico, è maturata in seguito al faticoso braccio di ferro tra Presidente e Congresso che si è consumato negli ultimi mesi e che ha visto Trump costretto a firmare una legge di bilancio, frutto di un difficoltoso accordo tra democratici e repubblicani, che non soddisfa le richieste di stanziamento di fondi avanzate dall’amministrazione.
La dichiarazione dell’emergenza nazionale, sulla base delle disposizioni contenute nel National Emergencies Act del 1976, rappresenta l’intento da parte del Presidente Trump, la cui popolarità nell’ultimo anno registra un forte calo, di rilanciare la sua presidenza dopo essere uscito sconfitto dalla battaglia durata due mesi con il Congresso sul finanziamento del muro con il Messico. Il Congresso, infatti, in un inedito clima bipartisan, ha approvato, il 14 febbraio, un accordo di compromesso sulla sicurezza dei confini meridionali per scongiurare il rischio di un altro shutdown, dopo quello parziale di dicembre, che dovrebbe garantire il funzionamento delle agenzie del governo federale almeno fino al prossimo autunno. Il provvedimento, il cd. Border Security Act , di ben 1169 pagine, è stato approvato dal Senato con 83 voti favorevoli e 16 contrari, mentre alla Camera dei Rappresentanti il voto è stato di 300 contro 128. Vengono stanziati $1.375 miliardi per circa 55 miglia di nuove barriere nel settore della Rio Grande Valley, una cifra ben al di sotto dei $ 5.7 miliardi richiesti dal Presidente. Sono, inoltre, previste delle restrizioni riguardo alla localizzazione delle strutture e ai materiali da utilizzare.
Seppur il pacchetto di spesa non soddisfi pienamente le richieste dell’amministrazione, esso prevede diverse novità che meritano di essere menzionate, come lo stanziamento di fondi per l’assunzione di 75 nuovi giudici dell’immigrazione. Esso favorisce, dunque, in parte il rafforzamento della sicurezza alle frontiere. Sono previste delle limitazioni all’azione del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DHS) contro potenziali sponsor di minori non accompagnati. L’agenzia per la sicurezza doganale e frontaliera (CBP) aveva già in passato ricevuto finanziamenti dal Congresso per iniziare la costruzione di nuove barriere nella regione della Rio Grande Valley, dove gli arresti per immigrazione clandestina sono più numerosi. I lavori per la costruzione delle 14 miglia del nuovo muro di confine dovevano inizialmente cominciare a febbraio, ma sono stati rinviati a marzo. Il provvedimento approvato dal Congresso prevede molte restrizioni. Innanzitutto, l’amministrazione non può erigere un muro di cemento o altri prototipi che non siano già in uso per recinzioni e barriere. I divieti relativi ai materiali, delineati nella legge, probabilmente non ostacoleranno le operazioni della Customs and Border Protection Agency, dato che l’agenzia ha affermato che preferisce al cemento le barriere attraverso le quali si può vedere. Le restrizioni non riguardano solo i materiali consentiti ma anche la localizzazione delle barriere. La legge elenca, infatti, le aree per le quali vige un divieto di costruzione del muro. Si tratta di aree di importanza storica e ambientale quali la riserva naturale di Santa Ana, il parco storico di La Lomita, il parco statale Bentsen-Rio e il Ranch Vista del Mar. Un particolare divieto riguarda, infine, il National Butterfly Center, che si trova a nord del Rio Grande in Texas. La North American Butterfly Association, che gestisce il centro, ha già promosso un ricorso contro il governo presso una corte federale per bloccare la costruzione del muro. Per poter procedere il governo dovrà probabilmente espropriare terreni privati. Non si tratta di una prassi sconosciuta all’ordinamento statunitense. Il governo federale, infatti, ha già in passato fatto ricorso ad un espediente di questo tipo per l’implementazione del Secure Fence Act, ma in ogni caso il processo potrebbe preannunciarsi oltremodo lungo e non privo di ostacoli.
All’indomani dell’approvazione del provvedimento da parte del Congresso Trump ha proclamato la dichiarazione di emergenza nazionale, affermando che il flusso di droghe, criminali e immigrati clandestini dal Messico costituisce una grave minaccia per la sicurezza nazionale, tale da giustificare un’azione unilaterale del governo federale. Come alcuni commentatori hanno sottolineato, si tratta della prima volta nella storia politico-istituzionale degli Stati Uniti che un Presidente ricorre ai poteri emergenziali per attuare la propria agenda politica. Sin dall’entrata in vigore del National Emergencies Act del 1976 l’emergenza nazionale è stata dichiarata diverse volte. In alcuni casi essa è stata revocata, in altri è stata riconfermata. A questo proposito, un valido ausilio per ricostruire il ricorso da parte dei Presidenti alla dichiarazione di emergenza nazionale nel corso degli anni proviene dal rapporto recentemente pubblicato dal Congressional Research Center (National Emergency Powers, CRS: 2019). Dal 1976 ad oggi sono state 58 le dichiarazioni di emergenza nazionale, di queste 31 sono ancora in vigore. Come si evince dal rapporto pubblicato dal CRS, Bill Clinton nel corso della sua presidenza ha fatto ricorso a questa prerogativa per ben 17 volte, George W. Bush per 12 e Barack Obama per 13. Nella maggior parte dei casi i provvedimenti erano volti a giustificare sanzioni economiche nei confronti di coloro che potevano rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale (per esempio i funzionari iraniani e nordcoreani). In altri, avevano l’obiettivo di fronteggiare una minaccia reale, come dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 o come nel caso dello scoppio dell’influenza aviaria nel 2009. A differenza dei suoi predecessori, Trump ricorre ai poteri emergenziali per rilanciare un proprio progetto politico con possibili implicazioni di lungo periodo che minacciano la separazione dei poteri e la tenuta del principio democratico. I maggiori timori risiedono nella possibilità che l’iniziativa del Presidente possa dare luogo ad un pericoloso precedente che potrà essere invocato in futuro per bypassare il potere del Congresso, trasformando radicalmente la natura e gli equilibri della forma di governo statunitense. A condividere tali preoccupazioni non sono solo i democratici ma anche i membri repubblicani del Congresso, protagonista in queste settimane di un tentativo di bloccare la presidential proclamation attraverso l’approvazione di una risoluzione congiunta, sulla quale si è già espressa la Camera dei Rappresentanti e si attende ora il voto del Senato che per il momento non è stato ancora calendarizzato. Alcuni senatori repubblicani, tra cui il leader Mitch Mc Connell, hanno annunciato l’intenzione di contrastare l’iniziativa del Presidente, considerandola una grave minaccia per l’ordinamento. Qualora la risoluzione venga approvata da entrambi i rami del Congresso e Trump apponga il veto, 50 dei senatori repubblicani dovranno votare compatti con i democratici per cercare, attraverso uno sforzo bipartisan, di raggiungere quella maggioranza qualificata dei 2/3 richiesta dalla Costituzione per il superamento del veto presidenziale.
Mentre le sorti congressuali del tentativo di contrastare la presidential proclamation sono ancora incerte e legate ad aspetti prevalentemente di opportunità politica, più interessante e complessa sotto il profilo costituzionale appare la battaglia appena iniziata nelle corti.
Un gruppo di 16 Stati guidato dal Procuratore della California, Xavier Becerra, ha già presentato ricorso contro l’amministrazione Trump. Nella citazione, depositata presso la US District Court for the Northern District Court of California, si sostiene che il Presidente è colpevole di aver violato in modo evidente la separazione dei poteri e usato come pretesto una crisi inesistente per dichiarare l’emergenza nazionale il 15 febbraio. Nello scontro tra Esecutivo e Congresso, l’azione legale intrapresa dagli Stati costituisce una delle opzioni per contrastare la decisione del Presidente di dichiarare lo stato di emergenza nazionale, l’altra riguarda la possibilità di un congressional override, ossia del superamento di un possibile veto presidenziale ad una risoluzione approvata dal Congresso per bloccare la presidential proclamation.
A questo proposito è bene ricordare che la sezione 202 del National Emergencies Act del 1976 (50 U.S.C. §§1601-1651), sulla base del quale è stata dichiarata da Trump l’emergenza nazionale, conferisce al Congresso la possibilità di intervenire nell’esercizio dei poteri emergenziali attribuiti al Presidente. Originariamente la disposizione contemplava la possibilità per il Congresso di ribaltare la decisione del Presidente approvando una concurrent resolution. In seguito alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso INS (Immigration and Naturalization Service) v. Chadha deciso il 23 febbraio del 1983 con la quale gli Old Nine hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale del legislative veto, che avrebbe consentito al Congresso di superare un veto presidenziale con la sola maggioranza semplice, si è provveduto ad una ridefinizione delle regole procedurali nel rispetto della Presentment Clause (art. I, sez. 7, Cost.), a favore dell’esercizio del potere di veto presidenziale sulla risoluzione adottata dal legislativo (joint resolution), riducendo di fatto la possibilità di un suo superamento da parte del Congresso. Sulla base della formulazione originale del National Emergencies Act, il cui intento originario era di limitare la portata dei poteri emergenziali del Presidente, la cessazione della dichiarazione di emergenza dipendeva esclusivamente dal Congresso e le Corti non svolgevano alcun ruolo nel determinarne la legittimità o la durata. In seguito alla decisione della Corte Suprema nel caso INS v. Chadha l’approvazione da parte del Congresso di una risoluzione contraria alla proclamation presidenziale si riduce ad avere un ruolo meramente simbolico, depotenziandone la portata di riequilibrio dei poteri nell’ambito della complessa architettura istituzionale statunitense. Pertanto, è possibile affermare che la centralità guadagnata dalle corti nel decidere dell’operato dell’amministrazione costituisce la diretta conseguenza della giurisprudenza della Corte Suprema, la quale, spogliando il Congresso di un potere effettivo di contrasto all’azione del Presidente in determinati ambiti, ha rafforzato il ruolo del potere giudiziario. Alla luce di questi rilievi non stupisce, pertanto, la decisione degli Stati di impugnare la dichiarazione di emergenza dinanzi alle corti federali. Il ricorso muove da argomentazioni di carattere costituzionale che coinvolgono il rispetto del principio della separazione dei poteri, rigidamente accolto nella Costituzione redatta dai Padri Fondatori nel 1787, l’esclusività dell’esercizio del cd. power of the purse da parte del Congresso (Art. I, sez. 8-9, Cost.), la legittimità dell’azione del Capo dell’Esecutivo e delle agenzie governative nel perseguire la costruzione del muro con il Messico. Gli Stati della California e del New Mexico, gli unici a confinare direttamente con il territorio messicano, contestano, sulla base di leggi federali, la violazione della normativa posta a tutela dell’ambiente e la mancata valutazione da parte del governo federale dell’impatto che l’erezione del muro avrebbe sull’ecosistema. L’azione promossa dai sedici Stati guidati dalla California non sembra destinata a rimanere isolata. Altri Stati e associazioni a difesa dei diritti civili si preparano ad impugnare il provvedimento. Il caso molto probabilmente giungerà sino alla Corte Suprema, che in seguito alle recenti nomine si presenta nella sua composizione a maggioranza conservatrice.
Uno dei nodi centrali che le corti si troveranno a dover dirimere riguarda la definizione di “emergenza”. La legge del 1976 non offre, infatti, alcuna indicazione in tal senso limitandosi ad affermare che “[w]ith respect to Acts of Congress authorizing the exercise, during the period of a national emergency, of any special or extraordinary power, the President is authorized to declare such national emergency”, lasciando pertanto alla discrezionalità dell’Esecutivo la determinazione degli eventi che configurano una “emergenza nazionale”. Come scrive Robert Sloane, della Boston University, pur in presenza di una sentenza pronunciata da una corte federale che definisca le fattispecie che possano essere considerate emergenze ai fini della presidential proclamation, resterebbe da chiarire quale grado di rispetto dovrebbero in seguito mostrare le corti nei confronti della discrezionalità presidenziale nello stabilire quali circostanze possano essere qualificate come emergenziali. Un altro profilo giuridico che merita attenzione e che potrebbe essere sollevato dinanzi alle corti concerne la qualificazione del progetto di erezione del muro con il Messico come progetto di costruzione “militare” a sostegno delle forze armate. Il muro, in realtà, non viene costruito per respingere l’esercito messicano, ma per rafforzare la politica anti-immigrazione perseguita dall’amministrazione. Il Congresso ha affidato la gestione dell’immigrazione ad un’agenzia civile e se costituisce un fatto l’invio da parte del Ppresidente Trump di truppe alla frontiera per assistere le autorità impegnate nel contrasto all’immigrazione clandestina, occorre anche ricordare che ad esse è concesso solo di svolgere azioni di supporto. Il Posse Comitatus Act del 1878 proibisce, infatti, l’impiego di truppe regolari per la semplice applicazione della legge all’interno del territorio degli Stati Uniti. Sulla base di queste considerazioni una corte potrebbe, dunque, ritenere che il muro con il Messico non sia al servizio dei bisogni militari in quanto tali.
È bene ricordare in questa sede che nessuna corte è mai intervenuta ad annullare la dichiarazione di emergenza di un Presidente ai sensi del National Emergencies Act o di qualsiasi altra legge federale che autorizzi il Presidente a dichiarare lo stato di emergenza. Vi è un unico precedente nella giurisprudenza statunitense che può essere richiamato in relazione all’iniziativa di Donald Trump e alla sicurezza nazionale. Si tratta della decisione adottata dalla Corte Suprema nel caso Youngstown Sheet&Tube Co. V. Sawyer 343 U.S. 579 (1952). La Corte Suprema nel 1952 annullò il sequestro delle acciaierie da parte del Presidente Truman durante la guerra di Corea, ma in quel caso il Presidente aveva esercitato esclusivamente i poteri costituzionalmente conferitigli e non, come invece in questo caso, i poteri emergenziali attribuitigli da una legge del Congresso.
Come si è tentato sinteticamente di evidenziare in questo contributo i profili costituzionali coinvolti dalla decisione del Presidente di dichiarare l’emergenza nazionale sono particolarmente complessi. La battaglia legale si preannuncia lunga e di non facile soluzione. Il Presidente Trump si trova a dover affrontare una fase particolarmente delicata del suo mandato, inaugurata in novembre dalla perdita del controllo della Camera dei Rappresentanti e segnata anche dalla costante opposizione di alcuni Stati, già protagonisti delle vicende giudiziarie relative alle cd. Sanctuary Cities e alla mancata implementazione delle leggi federali in materia di immigrazione, oggi riuniti nel ricorso promosso contro la proclamation.
I tempi non appaiono maturi per avanzare ipotesi che abbiano la presunzione della completezza in relazione all’esito conclusivo di questa complicata vicenda, nella quale in gioco vi è chiaramente molto più che la sopravvivenza politica dell’amministrazione Trump bensì le future sorti dell’ordinamento e della democrazia statunitensi.