La disabilità secondo la Corte di Giustizia: il modello bio-psico-sociale diventa “europeo”?

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La nozione di disabilità – 3. L’interpretazione della  Corte di  Giustizia.

1. Introduzione.

Con tre sentenze pronunciate nell’arco di meno  un  anno (HK Danmark, 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, Commissione europea c. Repubblica italiana, 4 luglio 2013, C-312/11 e Z., 18 marzo 2014, C-363/12), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea contribuisce a definire l’ambito operativo della disciplina in tema di divieto  di discriminazione per disabilità in materia di occupazione e di condizioni  di lavoro.

In  via preliminare  va  sinteticamente ricordato che il quadro normativo europeo dedicato  alle   persone con  disabilità  ha conosciuto   nel corso degli  anni  una  progressiva  evoluzione e  oggi si presenta in modo alquanto articolato.

Per limitarsi  ai riferimenti  principali, un primo richiamo va senz’altro riservato  alla direttiva n. 2000/78/CE del 27 novembre 2000,  volta a stabilire un quadro  generale  per la parità di trattamento  in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.  Per  quanto  concerne i disabili,  la direttiva  si distacca dall’approccio a carattere preminentemente assistenziale che, per un lungo lasso di tempo, ha contrassegnato la disciplina del settore,  sia  a livello  europeo  che nella maggioranza degli ordinamenti  nazionali:  essa, in particolare, delinea un  nuovo diritto alla protezione sociale dei disabili  declinando una serie di interventi a carattere antidiscriminatorio.

La strategia antidiscriminatoria ha assunto un carattere universale con l’inserimento (ad opera  del Trattato di Amsterdam) dell’(allora) articolo 13 Trattato CE (ora  art. 19 TFUE): articolo che ha conferito alla lotta alla discriminazione il rango  di competenza europea e ha accresciuto il novero di fattori di rischio rilevanti, contemplando, per  il prima  volta, il  riferimento alla disabilità.

In seguito la Carta  dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (proclamata a Nizza  il 7 dicembre 2000, e assunta al rango  giuridico dei Trattati con il Trattato di Lisbona) ha ribadito il riconoscimento del divieto di discriminazione: l’art. 21 vieta, nello specifico, qualsiasi forma di discriminazione. La stessa Carta riconosce  poi  espressamente il diritto  delle  persone con disabilità di beneficiare di  misure intese a garantire l’autonomia, l’inserimento  sociale  e professionale, la partecipazione alla  vita della comunità (art. 26).

Il divieto di discriminazione compariva del resto già all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà (i cui principi generali e  i diritti fondamentali garantiti  sono oramai da considerarsi parte del diritto dell’Unione in base art. 6, comma 3, TUE): divieto da riferirsi anche alla disabilità, secondo quanto dichiarato  dalla Corte Europea di Strasburgo.

Considerando poi la più ampia platea internazionale, a sugellare la  prospettiva  della partecipazione  delle persone con  disabilità  alla  vita  della comunità sociale  in chiave di rispetto dei  diritti  umani è  intervenuta, in    anni  alquanto   recenti, la Convenzione  ONU sui diritti  dei disabili del 13  dicembre 2006.   In  questa sede,  può soltanto evidenziarsi come la Convenzione  costituisca  il punto  di arrivo  di un orientamento politico indirizzato  ad affrontare  il tema  della  disabilità nell’ambito della  tutela dei diritti umani, che  si  è progressivamente sviluppato  lungo l’arco di più di trent’anni. Convenzione  che – va qui ricordato –   la  stessa  Unione Europea ha provveduto  ad approvare con  la decisione 2010/48.

2. La  nozione di disabilità

Nel corso del  tempo, la formulazione di una definizione  legale  di disabilità  è stata oggetto di  un ampio dibattito  non  soltanto  in ambito  europeo. Uno  studio  finanziato dalla  stessa  Commissione europea  pubblicato nel settembre 2002 evidenziava del resto come la  definizione di  disabilità variava anche   all’interno dell’ordinamento di uno  stesso Paese

Una significativa modificazione  nella  prospettiva teorica   della  definizione di disabilità è stata impressa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fin dagli anni ’80, con la pubblicazione dell’International Classification of Impairment Disabilities and Handicaps (ICIDH) quale appendice dell’International Classification of Diseases (ICD).  I successivi perfezionamenti dell’ICIDH hanno condotto alla pubblicazione, nel marzo 2002, dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health).  Si tratta di una classificazione proposta come standard internazionale per descrivere e misurare la salute e la disabilità. L’ICF fornisce un approccio multi prospettico alla classificazione del funzionamento e della disabilità come  processo interattivo ed evolutivo. L’idea base dell’ICF consiste nella considerazione che  la funzionalità di un individuo  in  uno specifico ambito sia il risultato  della complessa  interazione  tra le condizioni  di  salute, ovvero  di malattia,  e i fattori contestuali ambientali e personali.

Tale modello è stato accolto nella sostanza nella Convenzione ONU sui  diritti delle persone  disabili. Passando da un modello medico/individuale, che vedeva nelle persone con disabilità dei malati e dei minorati, a cui doveva essere garantita solo protezione sociale e cura, ad un modello bio-psico-sociale della condizione di disabilità basata sul rispetto dei diritti umani, la  Convenzione valorizza le diversità umane,  e rileva che la condizione di disabilità non deriva da qualità soggettive delle persone, bensì dalla relazione tra le caratteristiche delle persone e le modalità attraverso le quali la società organizza l’accesso ed il godimento di diritti, beni e servizi (cfr. preambolo, lett. e).

3. L’interpretazione della  Corte di  Giustizia.

Che  la questione relativa  alla  definizione della disabilità venisse  al pettine era quasi  scontato non foss’altro per assicurare al divieto di discriminazione un minimo di necessaria unità nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/CE. Tant’è che a cominciare dal 2005 i giudici di Lussemburgo sono stati investiti della questione, in via interpretativa,  in più di un’occasione.  I pronunciamenti più recenti assumono  un particolare  rilievo in quanto la Corte finisce  per approdare a soluzioni significativamente diverse rispetto al  passato.  Al fine di comprendere i caratteri e le ragioni  del cambiamento, appare opportuno iniziare a considerare le  singole  vicende.

Nel  primo  della serie degli arresti della Corte dell’ultimo anno,  si ricorda   che i  giudici  di Lussemburgo vengono  chiamati a  pronunciarsi  in via pregiudiziale sull’interpretazione degli articoli 1, 2 e 5 della direttiva 2000/78/CE,  nell’ambito di  due controversie vertenti sulla legittimità dei licenziamenti di due dipendenti danesi.  In entrambi i casi, pur se per ragioni  diverse tra di loro (in un  frangente per dolori cronici alla colonna dorso-lombare non trattabili,  nell’altro caso  per le conseguenze derivanti da un incidente stradale) le  due  lavoratrici avevano finito  per accumulare  una  serie di assenze  dal lavoro. Circostanze le quali avevano  indotto i rispettivi datori di lavoro a licenziare le due  donne.  Agendo per  conto delle  due  donne, un sindacato danese (HK) aveva avanzato allora una domanda di risarcimento danni contro i datori di lavoro delle stesse facendo leva sulla legge nazionale in materia di antidiscriminazione. L’HK sosteneva in  particolare  che le due dipendenti erano affette da un handicap e che i rispettivi datori di lavoro, in luogo del licenziamento, sarebbero stati tenuti a proporre ad esse una riduzione dell’orario di lavoro. La sussistenza di situazioni del genere  veniva invece negata  dai due datori di lavoro. Ciò premesso, il  giudice  danese  decideva di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte di Lussemburgo una serie di  questioni pregiudiziali vertenti, tra l’altro, sulla  definizione della nozione di handicap ai sensi della direttiva  2000/78 del Consiglio.

La Corte già in precedenza era stata investita in via pregiudiziale di una simile questione, giungendo, alla luce del  testo dell’art. 1 della  direttiva,  ad evidenziare la distinzione  tra  handicap e malattia, e  a precisare che la nozione di handicap era da intendersi come un limite derivante da minorazioni fisiche, mentali o psichiche destinato a ostacolare la partecipazione della persona considerata alla vita professionale (Chacón Navas, 11 luglio 2006, C‑13/05, p. 43).

Per affrontare il ricorso ora la Corte  può però far fondamento, rispetto al passato, su altri strumenti normativi.  Stante  il fatto che l’Unione ha provveduto ad approvare la Convenzione dell’ONU, le disposizioni della stessa, a partire dalla data di entrata in vigore, sono  diventate infatti parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione –   vincolando le sue istituzioni e prevalendo sugli atti dell’Unione. Nello  specifico dunque la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme alla Convenzione.

Per quanto  concerne la nozione di disabilità  la Convenzione ONU rileva, in primo luogo, nel proprio preambolo (lettera e) che essa deve essere intesa dinamicamente, trattandosi di un concetto in evoluzione e che «la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». In base poi alla  definizione contenuta  nell’articolo 1 della Convenzione per persone con disabilità sono da intendersi«coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri».

Ebbene la  Corte precisa l’ambito di applicazione della direttiva, dichiarando che la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata nel senso che essa include anche una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, probabilmente di «lunga durata», risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (HK Danmark cit.).

Pochi mesi  dopo la pronuncia appena ricordata, la Corte  ha l’occasione  per ritornare sulla questione  a seguito della procedura di inadempimento promossa contro il  nostro Paese per  la mancata  trasposizione  dell’art. 5 della stessa  Direttiva 2000/78/CE. La procedura di inadempimento era stata generata  da una lettera di diffida con la  quale la Commissione comunicava  alla  Repubblica italiana le lacune rilevate  nella  trasposizione della Direttiva sopramenzionata. Il nostro Paese, pur ammettendo la sussistenza  di alcune delle  lacune  rilevate,  contestava le censure riguardanti la trasposizione dell’art. 5 della  Direttiva sopra  citata. Ciononostante, la Commissione promoveva il ricorso per inadempimento innanzi alla Corte di Giustizia,

Ad essere accolta da  parte della  Corte, nella sentenza del 4 luglio  2013, è innanzitutto la  censura    della  Commissione secondo la quale la legislazione italiana  si applicherebbe  solo a taluni  disabili. La Corte al  riguardo ricorda  che  la nozione stessa di “handicap”, pur se  non è definita dalla direttiva 2000/78/CE, va intesa alla luce della Convenzione  ONU sui diritti delle persone con disabilità  (cfr. HK Danmark cit.). La Corte allineandosi ad un proprio  precedente  conferma dunque l’assunzione nell’ordinamento  europeo  di  una  nozione dell’handicap  di stampo   sociale, in luogo di  una valutazione  a carattere esclusivamente medico.

Del resto, a parte le posizioni espresse  nel corso del giudizio  dal nostro Paese, la consapevolezza   circa  la parziale inadeguatezza delle  previsioni  normative  italiane rispetto al testo della direttiva (rectius della Convenzione) traspariva in  modo evidente  già  dal testo del primo  rapporto sulle misure adottate di cui all’art. 35 della Convenzione ONU elaborato nel novembre 2012 dall’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. In  esso  si legge tra  l’altro che la nozione di «persona handicappata»  contenuta  nell’art. 3, L. 104/92, pone l’accento sulle limitazioni delle facoltà (minorazioni) e lo svantaggio sociale che ne deriva (handicap), dunque sugli elementi che condizionano in negativo la vita della persona con disabilità. Ammettendo pertanto che la legge italiana difetta di un riferimento all’ambiente in cui la “persona con disabilità” vive ed interagisce, in rapporto al quale le “menomazioni” devono essere valutate. Lo stesso rapporto  riconosce espressamente poi che “l’automatismo secondo cui l’handicap è conseguenza della minorazione è un aspetto potenzialmente critico e superato dalle visioni più recenti della condizione di disabilità come, ad esempio, quelle promosse dall’OMS con la classificazione ICF”.  Per quanto concerne poi il concetto di “disabile” ai fini del collocamento al lavoro, lo stesso rapporto ammette che  la L. 68/99 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” non introduce una nozione propria e innovativa di disabilità ma riconduce l’individuazione degli “aventi diritto” al preventivo riconoscimento di una determinata percentuale di invalidità civile e dunque ad un concetto di capacità lavorativa generica.  E del resto proprio sul tema della valutazione della disabilità collegata all’inserimento lavorativo, il rapporto mette  in luce  come il Governo italiano abbia intrapreso (ma non ancora concluso) un pluriennale lavoro di ricerca e sperimentazione volto ad introdurre l’ICF, fra l’altro, nel sistema lavorativo, prevedendo anche la specifica considerazione dei fattori ambientali come elemento chiave.

Un’altra  decisione della Grande Sezione della Corte di  Giustizia del 18 marzo 2014 contribuisce  a chiarire cosa costituisca  handicap  ai sensi della direttiva 2000/78/CE. In quest’ultimo frangente la Corte è investita  di una  domanda, alquanto  articolata, vertente sull’interpretazione  nonché  sulla validità delle  direttive 2006/54/CE e 2000/78/CE.  La  domanda era stata sollevata nell’ambito di una delicata controversia promossa da un’insegnate irlandese: costei, non  potendo procreare, aveva avuto  una figlia a seguito di un contratto di maternità surrogata concluso in California. Tornata in Irlanda si era vista rifiutare però dal Government Department la richiesta di un congedo retribuito equivalente a un congedo di maternità o a un congedo di adozione  (non disciplinando la  normativa irlandese la  maternità surrogata). La  signora ricorreva  pertanto dinnanzi  all’Equality Tribunal sostenendo di essere stata oggetto  di una discriminazione basata,  tra  l’altro, sull’handicap.

Tra le varie questioni sollevate nel rinvio pregiudiziale dal giudice irlandese, la Corte è chiamata  ad esaminare se  la  direttiva 2000/78, eventualmente letta alla luce della convenzione dell’ONU, debba essere interpretata nel senso che costituisce una discriminazione fondata sull’handicap il fatto di negare la concessione di un congedo retribuito a colei che sia incapace di sostenere una gravidanza e si sia avvalsa di un contratto di maternità surrogata.

Al fine di  esaminare la questione, la Corte ricorda pure qui in via  preliminare  quanto giù dichiarato con riguardo alla nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78/CE  (cfr. HK Danmark, cit.)

Venendo al caso di specie – alla  vicenda cioè della signora la quale a causa della rara patologia da cui è affetta non poteva procreare –  la  Corte  riconosce pacificamente  che una simile disfunzione costituisca una limitazione risultante, segnatamente, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, e avente carattere durevole. Nondimeno la Corte approda  ad una risposta negativa circa l’eventualità di configurare nel caso di specie un‘ipotesi di discriminazione basata sull’«handicap» ai sensi della direttiva 2000/78/CE. La soluzione ha una spiegazione tecnica stante la specialità della normativa in oggetto. Come ricorda la stessa  Corte, la nozione di  handicap presuppone in questa  sede una menomazione  personale che, in interazione con barriere di diversa natura, sia suscettibile  di ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della  persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.  In altri termini, la  nozione di handicap, ai sensi della  direttiva 2000/78/CE, deve essere intesa  in relazione alla possibilità per la persona di  lavorare  e  di svolgere  attività professionale.  Interpretazione che figura del resto  coerente  con  gli obiettivi perseguiti  dalla stessa direttiva, vale a dire con  la lotta  alla  discriminazione  nel contesto specifico  dell’impiego. Ebbene pur se  non  vi sono dubbi sulla circostanza che una patologia come riscontrata nell’insegnante danese  possa ostacolare la partecipazione piena ed effettiva di una persona nella società, la  Corte  giunge alla conclusione che l’incapacità di procreare naturalmente non costituisca di per sé, in via di principio, un impedimento per la madre committente ad accedere a un impiego, a svolgerlo o ad avere una promozione.

Non resta che  concludere che per  una diversa soluzione si tratta di  attendere l’approvazione della proposta di direttiva intesa a estendere la tutela contro la discriminazione al di fuori del mondo del lavoro, stante il carattere soltanto programmatico della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.