La Grande Camera della Corte EDU si pronuncia sulla confisca a seguito di lottizzazione abusiva e si riduce il divario con la Corte costituzionale

Attesa da molto tempo, il 28 giugno 2018 la Grande Camera della Corte EDU si è pronunciata nel caso GIEM and others v. Italy (n. appl. 1828/06), che ripropone all’attenzione degli operatori giuridici italiani e degli studiosi, cinque anni dopo la decisione resa nel caso Varvara (n. appl. 17475/09, 29 ottobre 2013), la questione della compatibilità con gli artt. 6, 7 e 1, Prot. 1, CEDU delle disposizioni interne che disciplinano la misura della confisca a seguito di accertamento di responsabilità penale per il reato di lottizzazione abusiva (punito dall’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380). Come si ricorderà, dopo la pronuncia del 2013, della questione era stata investita anche la Corte costituzionale, che con sent. n. 49 del 2015 dichiarò non fondata la questione di costituzionalità rispetto, tra l’altro, all’art. 117, co. 1, Cost., operando però un significativo riallineamento interpretativo della normativa interna rispetto a quanto richiesto dalla sentenza Varvara e, a fianco di ciò, stabilendo più in generale che le sentenze della Corte EDU vincolassero il giudice italiano solamente quando queste fossero espressive di un “diritto vivente consolidato”.
Oggi la Corte di Strasburgo torna su entrambe le questioni, con una decisione sicuramente destinata a riaccendere i termini del dibattito. Senza entrare nel merito delle singole fattispecie portate all’attenzione della Corte, si può innanzi tutto constatare come essa tenga fermi gli orientamenti interpretativi in merito alla incompatibilità di principio tra lo strumento della confisca e, in particolare, il principio nulla poena sine lege, provvedendo però in concreto a delimitare sensibilmente la portata e gli effetti di quella incompatibilità alla luce delle caratteristiche dell’istituto e delle modalità applicative di esso fatte proprie dai giudici italiani negli ultimi anni.
La Corte EDU, ad esempio, ribadisce che la nozione di “pena” contenuta nell’art. 7 CEDU deve essere interpretata in modo autonomo senza concedere agli ordinamenti nazionali lo spazio per proprie etichette qualificatorie: “Without an autonomous concept of penalty, States would be free to impose penalties without classifying them as such, and the individuals concerned would then be deprived of the safeguards under Article 7 § 1. That provision would thus be devoid of any practical effect. It is of crucial importance that the Convention be interpreted and applied in a manner which renders its rights practical and effective, not theoretical and illusory, and this principle thus applies to Article 7” (par. 216).
Allo stesso modo, la decisione conferma ancora una volta la necessità che sussista un nesso psicologico (“mental link”) tra il fatto di reato e l’autore dello stesso, il che porterebbe ad escludere la legittimità di uno strumento sanzionatorio come la confisca, che interviene come noto anche in assenza di un accertamento di responsabilità penale tradottosi in un apposito provvedimento di condanna, come del resto già stigmatizzato nella decisione di sezione nel caso Varvara (par. 242).
Su entrambi questi fronti, sui quali si era celebrato lo scontro negli anni passati, la Grande Camera non fa tuttavia seguire alle affermazioni di principio ora riassunte una decisione di condanna nei confronti dell’Italia. Prendendo infatti atto degli assestamenti interpretativi favoriti anche dalla sentenza n. 49 del 2015, la decisione GIEM conclude ad esempio che, pur essendo qualificabile come “pena” ai sensi dell’art. 7 CEDU, la confisca può essere irrogata anche al di fuori delle condizioni stabilite dall’art. 6 CEDU e, quindi, anche se essa non accede a un provvedimento giurisdizionale di condanna vero e proprio (par. 233). Allo stesso modo, la necessità di una verifica del nesso psicologico è comunque salvaguardata se i giudici interni (come quelli italiani negli ultimi anni), pur senza addivenire a sentenze di condanna, hanno comunque applicato standard probatori particolarmente elevati per verificare la sussistenza della responsabilità e hanno escluso l’applicabilità della confisca ai terzi in buona fede (par. 245).
Questo non vuol dire, tuttavia, che i contrasti siano oggi del tutto appianati. Nel caso di specie, infatti, l’Italia è stata condannata sia sotto il profilo della sproporzione della sanzione della confisca rispetto agli interessi di natura ambientale e paesaggistica perseguiti dalla legge (con riguardo all’art. 1, Prot. 1), sia per quanto riguarda il rispetto delle garanzie del giusto processo (art. 6, par. 2, CEDU) per i ricorrenti che sono stati destinatari della confisca a seguito di una sentenza di annullamento senza rinvio disposta dalla Cassazione a seguito della maturazione dei termini di prescrizione (e senza la conseguente possibilità di addurre prove a discarico). Su questo specifico aspetto e sulla contraddizione che esso ingenera rispetto alle motivazioni della Corte rispetto all’art. 7 cit. si sofferma la meditata opinione dissenziente dei Giudici Sajó ed altri.
Ma il punto di attrito più significativo tra le due Corti, su cui si concentrerà probabilmente lo sguardo dei commentatori nel prossimo futuro, riguarda la questione “sistemica” concernente lo statuto, nel diritto italiano, delle decisioni della Corte EDU che la Corte costituzionale non ritiene espressive di un “well-established case law”. Su questo punto, il tono della decisione GIEM è particolarmente perentorio, quando essa precisa che le sue decisioni “all have the same legal value. Their binding nature and interpretative authority cannot therefore depend on the formation by which they were rendered” (par. 252, in fine).
Un tono perentorio, certo, ma che avrebbe forse meritato una collocazione più adeguata e qualche parola in più, se è vero che la Corte costituzionale, con la sent. n. 49 del 2015, ha inteso incidere non tanto sul valore formale o sul rilievo interpretativo delle decisioni di condanna della Corte EDU, quanto piuttosto sulla loro idoneità ad essere recepite nell’ordinamento interno (sia dal giudice comune in sede di interpretazione conforme, sia dalla stessa Corte costituzionale) anche al di là della specifica controversia da cui esse promanano. Nulla in quella sentenza esclude, in altre parole, che l’applicazione dell’art. 46 CEDU possa essere fatta valere dal soggetto ricorrente vittorioso a Strasburgo davanti al giudice nazionale (sussistendone i presupposti), mentre essa pone una condizione preliminare (appunto la necessaria sussistenza di un “diritto convenzionale consolidato”) rispetto all’eventualità che alla medesima decisione di condanna venga data piena e incondizionata applicazione anche in tutti gli altri casi. In gioco, in definitiva, pare essere ora come allora l’attribuzione alle decisioni della Corte EDU di un valore di res interpretata, contenente quindi un vincolo che trascenda la natura inter partes dei pronunciamenti della Corte e che sia in grado di imporsi erga omnes a livello nazionale.
La diversità di prospettive impiegate dalle due corti, in altre parole, parrebbe su questo aspetto ancora lontana da una ricomposizione, anche se la decisione di oggi potrebbe assumere il valore di un rafforzamento (soprattutto) della interpretative authority della Corte EDU, oltre che dell’efficacia vincolante delle sue decisioni, diventando così (come scrive nel suo dissent il Giudice Pinto de Albuquerque) una “direct response to Constitutional Court judgment no. 49/2015 and a message sent to all supreme and constitutional courts in Europe” (p. 106, nt. 96).

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