La legittimazione politica dei giudici “rossocrociati”. Prime considerazioni sull’iniziativa popolare «Per la designazione dei giudici federali mediante sorteggio» respinta nel referendum del 28 novembre 2021

Si immagini di essere imputati in un processo per detenzione di sostanze stupefacenti: sarebbe indifferente essere giudicati da un appartenente all’Unione democratica di centro, il partito di destra, maggioritario nel sistema politico svizzero, che si oppone alla legalizzazione delle droghe leggere, oppure da un giudice di uno dei due partiti verdi che si battono per una liberalizzazione del consumo?
A noi italiani questa domanda pare una provocazione fine a sé stessa. Eppure, il referendum svizzero del 28 novembre 2021, con cui è stata messa in votazione l’iniziativa popolare che si prefiggeva di modificare il meccanismo di elezione dei giudici del Tribunale federale, passando da una nomina da parte dell’Assemblea federale rispettosa delle rappresentanze proporzionali dei principali partiti a un sorteggio depoliticizzato, ha subìto una netta bocciatura: il 68,1% degli oltre tre milioni di elettori ha affossato la proposta, che non ha avuto successo in nessun Cantone, restando molto lontano dalla doppia maggioranza richiesta per modificare la Costituzione elvetica.
Le presenti note si propongono di studiare l’attuale sistema di nomina dei giudici del Tribunale federale e di approfondire le ragioni di un NO che, così semplicisticamente posto il quesito, può apparire prima facie incomprensibile.
Ai sensi dell’art. 168 capoverso 1 della Costituzione federale svizzera, i giudici federali sono eletti dall’Assemblea federale a Camere riunite su proposta della Commissione giudiziaria, una commissione dell’Assemblea federale competente per la preparazione dell’elezione e della destituzione dei giudici dei tribunali della Confederazione, del procuratore generale della Confederazione e dei suoi sostituti nonché dei membri dell’Autorità di vigilanza sul Ministero pubblico della Confederazione. In seno alla Commissione giudiziaria, composta da dodici consiglieri nazionali e cinque consiglieri agli Stati, ogni gruppo parlamentare ha diritto ad almeno un seggio (art. 40a cpv. 5 LParl.) e i seggi sono assegnati in modo proporzionale rispetto alle forze presenti in Parlamento. L’unico requisito previsto in forma scritta per poter essere eletto al Tribunale federale è quello di avere diritto di voto (cioè avere compiuto il diciottesimo anno di età, avere la cittadinanza svizzera e non essere interdetti per infermità o debolezze mentali), ma, nella pratica, si tiene conto anche delle competenze professionali e personali e l’Assemblea federale nomina giuristi esperti, provenienti dal settore giudiziario, accademico, dell’avvocatura o dell’amministrazione.
L’Assemblea federale assicura che siano rappresentati in modo equilibrato entrambi i sessi, le appartenenze linguistiche e, di particolare rilevanza in questa sede, le forze politiche: nella pratica è sostanzialmente impossibile essere eletti al Tribunale federale se non si è iscritti a nessun partito politico ed è accaduto in passato che taluni candidati abbiano modificato la loro appartenenza per avere più chance di essere eletti. Il legame con il partito è particolarmente stretto non solo nella fase di nomina, ma anche per tutta la durata dell’incarico. I giudici, infatti, restano in carica sei anni e sono rieleggibili e vi è (almeno in teoria) il pericoloso rischio che un giudice venga influenzato dalle linee del partito nelle sue decisioni per garantirsi la rielezione.
Infine, e questo è forse uno degli elementi più problematici, vi è la consolidata prassi che i giudici versino parte del loro stipendio annuo al partito (c.d. tassa di mandato). Non è questa la sede per analizzare tale aspetto, ma basti sottolineare che è stata avanzata, tramite iniziativa parlamentare, la proposta di riforma n. 20.486 per introdurre il divieto, per i giudici, di effettuare versamenti e donazioni ai partiti. Anche questa riforma non ha molte possibilità di concludersi positivamente, dato che la Commissione per gli affari giuridici, riunitasi il 18 novembre scorso, ha già chiarito che, seppur «i versamenti dei giudici al partito che ha sostenuto la loro elezione potrebbero creare una parvenza di dipendenza», il divieto appare troppo radicale dato che, in fin dei conti, per garantire il buon funzionamento della giustizia è sufficiente la trasparenza sull’appartenenza politica dei membri del Tribunale federale.
I problematici legami tra i giudici del Tribunale federale e i partiti sono da tempo oggetto di discussione e sono stati messi in evidenza anche dal GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa) che, nel 2016, ha formulato una serie di raccomandazioni volte a rafforzare l’indipendenza della magistratura svizzera. In particolare, il GRECO ha raccomandato alla Svizzera di prevedere per iscritto le condizioni di eleggibilità dei giudici federali, in modo da escludere il rischio che l’appartenenza politica prevalga rispetto alla valutazione della competenza dei candidati. Ha, poi, richiesto di abbandonare la pratica del versamento della quota al partito, di vigilare sulla rielezione nonché di valutare l’opportunità di eliminare la rieleggibilità dei giudici. Una volta sottoposte alla Svizzera, queste osservazioni non hanno sortito (praticamente) alcun effetto: il rapporto di conformità del 2019 attesta che la Confederazione elvetica ha ritenuto che, nel complesso, non vi fossero problemi legati all’indipendenza dei giudici federali e che dunque non fosse necessario alcun intervento.
È sulla scia delle osservazioni formulate dal GRECO che il 26 agosto 2019 è stata depositata l’iniziativa popolare federale «Per la designazione dei giudici federali mediante sorteggio (Iniziativa sulla giustizia)» promossa da Adrian Gasser, uno dei più ricchi imprenditori svizzeri, con cui si proponeva di modificare gli artt. 145 e 168 della Costituzione federale ed introdurre l’art. 168A della medesima Costituzione federale. In particolare, si proponeva di introdurre requisiti di idoneità professionale e personale ad esercitare la funzione di giudice del Tribunale federale. Una commissione peritale (cioè non più formata, come la Commissione giudiziaria, da politici ma da tecnici) avrebbe valutato l’ammissibilità delle domande e stilato una lista di candidati da cui i giudici sarebbero stati estratti secondo sorteggio. Altra novità che si sarebbe voluta introdurre era la possibile destituzione dei giudici in caso di grave violazione dei doveri d’ufficio nonché nel caso in cui un membro del Tribunale federale avesse durevolmente perso la capacità di esercitare il suo ufficio. Infine, l’incarico non sarebbe stato più di sei anni, ma avrebbe avuto una durata a vita (fino a cinque anni dopo il pensionamento).
Nell’intento dei suoi promotori la procedura “di lotteria” avrebbe assicurato l’indipendenza della magistratura dai partiti politici e avrebbe garantito una migliore selezione dei giudici, dato che la sola idoneità professionale – e non più l’affiliazione al partito – sarebbe stato fattore determinante per l’accesso all’incarico.
La proposta, pur avendo raggiunto il numero di firme previsto dall’art. 139 (in totale sono state depositate 130.304 firme e 130.100 sono state ritenute valide) non ha avuto, sin dall’inizio, alcuna possibilità di successo, per due ordini di motivi.
Anzitutto perché le modifiche proposte, che forse avrebbero eliminato (o quantomeno ridotto) il legame tra la giustizia e la politica, avrebbero creato altrettanto seri problemi. I criteri di idoneità professionale e personale, infatti, erano tanto generici da essere vaghi e l’affidamento della valutazione dell’ammissibilità dei candidati ad una commissione di esperti avrebbe soltanto “spostato di un gradino” il problema: le medesime preoccupazioni in ordine alle possibili influenze di idee e di affiliazioni politiche, sulla cui base si muovono critiche all’attuale sistema, si sarebbero ripresentate in sede di commissione peritale, dove, però, sarebbero state “mascherate” da una parvenza di visione apolitica.
Altro problema strutturale della proposta era evidentemente il sistema del sorteggio: l’accesso alle più alte cariche dello Stato sarebbe stato deciso non più dalla criticata appartenenza politica ma dalla fortuna, lasciando così al caso la decisione sugli appartenenti a quella che la Costituzione federale definisce l’autorità giudiziaria suprema della Confederazione (art. 188 Cost. fed.).
Il secondo, più profondo, problema era che la proposta si proponeva di modificare il radicato principio della Confederazione elvetica in forza del quale i giudici devono godere non solo di legittimazione tecnocratica, ma anche di legittimazione politica. La tradizione pluralistica e la cultura fortemente democratica del Paese rendono infatti indispensabile, affinché le decisioni giudiziarie possano essere accettate, che i giudici siano eletti da persone a loro volta elette dal popolo. L’idea che sta sullo sfondo di questa concezione è quella secondo cui i giudici, anche nei sistemi in cui godono della sola legittimazione tecnocratica, non possano essere davvero apolitici e che via sia sempre, nelle decisioni giudiziarie, una certa influenza politica. E allora, si afferma, è meglio un sistema trasparente, in cui sia chiara l’appartenenza politica del decisore. Questa idea è largamente consolidata nel Paese e la Svizzera, sia in sede di risposta alle raccomandazioni del GRECO, sia con l’esito del voto del 28 novembre scorso, ha ribadito che ciò che davvero rappresenta una garanzia del corretto funzionamento della giustizia non è tanto l’(impossibile) apoliticità dei giudici, quanto la trasparenza sulla loro affiliazione partitica.
Non è un caso che l’Assemblea federale abbia raccomandato al Popolo e ai Cantoni di respingere l’iniziativa e che, pur essendo stata elaborata una bozza di controprogetto indiretto dalla Commissione degli affari giuridici del Consiglio nazionale, in cui, attraverso una modifica della legge federale, venivano accolte alcune sollecitazioni formulate dal GRECO, essa non sia stata approvata dal Consiglio nazionale e nessun controprogetto sia stato poi proposto (favorevole all’elaborazione di un controprogetto A. Russo, Des juges tirés au sort: réalité ou illusion démocratique?, in Justice – Justiz – Giustizia 2019/2, 21 ss.).
Anche la travagliata vicenda del controprogetto conferma quanto appena affermato: nonostante le critiche di parte della dottrina, degli osservatori esteri e del GRECO, la Svizzera è convinta che l’attuale sistema funzioni bene e che il legame tra politica e giudici non comprometta l’indipendenza del terzo potere.
In realtà, pur non essendosi mai verificata una mancata rielezione dei giudici federali per motivi politici, il recente caso del giudice vallesano Yves Donzallaz è esempio lampante del fatto che l’equilibrio tra legittimazione democratica della magistratura e indipendenza nei confronti degli altri poteri statali è delicatissimo. Egli, candidato dell’UDC, fu eletto al Tribunale federale per la prima volta nel 2008 e fu riconfermato nel 2014. Il partito non ha condiviso, però, due pronunce in materia di immigrazione e di trattamento dei dati personali, prese dal Tribunale federale e alle quali aveva partecipato, con voto favorevole, anche Yves Donzallaz. Il giudice Donzallaz è stato poi rieletto, nonostante il parere contrario dell’UDC, nel 2020, grazie al sostegno di altre forze politiche (e oggi è addirittura vice-presidente del Tribunale federale) ma, al di là del caso specifico, questo episodio mostra tutta la fragilità del sistema.
Si rileva, inoltre, che l’appartenenza politica è un criterio di elezione non solo per la carica di giudice al Tribunale federale, ma anche per il Tribunale amministrativo federale e per il Tribunale penale federale (non invece per il Tribunale federale dei brevetti, in cui il particolare tecnicismo della materia e la formazione tecnica richiesta sottraggono i giudici alle logiche partitiche). Inoltre, anche nei tribunali cantonali l’affiliazione politica può essere molto rilevante, dato che i giudici non di professione (con un ruolo simile ai nostri giudici onorari) vengono eletti direttamente dal popolo.
Il dibattito sorto nella Confederazione dopo il deposito dell’iniziativa popolare in oggetto ha riguardato esclusivamente l’elezione dei giudici del Tribunale federale, sebbene anche il legame tra altri giudici federali e cantonali e la politica possa essere, agli occhi di chi scrive, molto problematico.
Altro elemento a discapito della trasparenza del sistema giudiziario elvetico è l’esistenza della dissenting opinion per le decisioni assunte oralmente. Sebbene ciò avvenga raramente, la manifestazione del dissenso di alcuni componenti del collegio giudicante – in un sistema in cui vi è il concreto rischio di influenza della politica sulle decisioni giudiziarie – può essere fonte di criticità (per il dibattito sul tema si veda la proposta del 2014 per allargare l’ambito di applicabilità della dissenting opinion).
In conclusione, tornando alla provocazione iniziale, per un cittadino svizzero, più che essere giudicato da un giudice dell’UDC, desta preoccupazione il giudizio di un giudice dichiaratamente apolitico, ma, di fatto, contrario alla liberalizzazione dell’uso delle droghe leggere. La legittimazione politica dei giudici del Tribunale federale e lo stretto legame che essi mantengono con il partito di appartenenza per tutta la durata del loro incarico sono, dunque, un tradizionale e fondante principio del sistema elvetico, la cui modifica avrebbe richiesto una maggiore ponderazione rispetto a quella che si può rinvenire nella proposta respinta dal popolo e dai Cantoni il 28 novembre scorso.
Tuttavia, il richiamo alla tradizione non è certamente sufficiente per risolvere le falle dell’attuale sistema, che si regge su un delicatissimo (quanto pericoloso) equilibrio, ed è auspicabile una riforma che, pur essendo rispettosa delle peculiarità della Confederazione elvetica, riesca ad assicurare sempre l’indipendenza del terzo potere, a prescindere dalla “lealtà” delle forze politiche coinvolte.