La questione di legittimità costituzionale della legge elettorale

Con l’ordinanza n. 12060 del 17 maggio 2013, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale della vigente legge elettorale per la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, ritenendo che alcune disposizioni introdotte nel 2005 dalla legge Calderoli si pongano in contrasto con il dettato costituzionale. Le disposizioni impugnate attengono alla disciplina del premio di maggioranza, lesiva del principio dell’eguaglianza del voto, ed alle modalità di espressione del medesimo, che non consentono all’elettore di esercitare la c.d. preferenza, violando così il principio del voto personale e diretto.

Si apre così un varco in quella che è stata costantemente definita una «zona franca» del controllo di costituzionalità delle leggi, dato che la sottoposizione della legge elettorale politica al sindacato della Corte costituzionale è altamente problematica se non addirittura impraticabile o, quanto meno, lo è stata sino a questo momento. Nel giudizio che ha originato l’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte, un elettore aveva convenuto la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’Interno, sulla base del fatto che l’entrata in vigore della riforma elettorale del 2005 aveva impedito l’esercizio del voto secondo i principi costituzionali e, segnatamente, in conformità al disposto di cui all’art. 48 – il voto «personale» ed «eguale», «libero» e «segreto» – ed al disposto di cui agli artt. 56 e 58, che prevedono il suffragio universale e diretto. L’attore chiedeva pertanto che venissero ripristinate le modalità di esercizio del diritto di voto tali da essere conformi al quadro costituzionale. In primo grado, così come in appello, il ricorso veniva però dichiarato manifestamente infondato per quanto ammissibile, mentre la Suprema Corte si è espressa in modo difforme ed ha ritenuto che vi fossero gli estremi per sollevare una questione di legittimità costituzionale.

La Corte di Cassazione ha quindi considerato rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale inerenti alla disciplina del premio di maggioranza e all’assenza del voto di preferenza, mentre ha bocciato la terza questione, che verteva sulla designazione del leader della forza politica e sulla sua indicazione all’interno del contrassegno elettorale. Il premio di maggioranza, secondo i giudici di Piazza Cavour, è irragionevole e lede il principio dell’eguaglianza del voto, poiché consente anche a minoranze esigue di conseguire un’ampia maggioranza parlamentare: ciò in virtù dell’assenza di una soglia minima cui subordinare l’assegnazione del premio, soglia che era invece presente sia nella legge Scelba del 1953 – meglio nota come «legge truffa» – sia nella più risalente legge Acerbo del 1923, che condizionava l’attribuzione della quota aggiuntiva di seggi al conseguimento del 25 per cento dei voti validamente espressi. In aggiunta, pur essendo un congegno funzionalizzato a permettere il raggiungimento di una maggioranza, l’istituto del premio non prevede alcunché per i casi in cui la coalizione che ne benefici si scinda o in cui i partiti che ne fanno parte decidano di uscirne, potendo in tali circostante addirittura costituire un impedimento alla formazione di maggioranze alternative; infine, il premio conferisce ai soggetti politici cui viene accordato il potere di eleggere gli organi di garanzia. L’analogo istituto previsto per il Senato della Repubblica, il quale trova applicazione non già a livello nazionale ma circoscrizionale, presenta i medesimi inconvenienti descritti, con l’ulteriore aggravante di manifestare una palese irrazionalità nella misura in cui l’intreccio dei premi regionali opera in senso contrario rispetto all’esigenza di assicurare una maggioranza nell’assemblea complessivamente intesa. Il premio circoscrizionale, pertanto, rischia non soltanto di vanificare l’effetto tipico dell’istituto, ma altresì di rovesciare i rapporti di forza derivanti dal voto popolare e di impedire la realizzazione di maggioranze convergenti tra i due rami del Parlamento, ponendosi in contrasto con il bicameralismo paritario disegnato dalla nostra Costituzione.

Quanto al profilo dell’assenza di voto di preferenza, la Corte di Cassazione evidenzia che la disciplina vigente consente all’elettore di esprimere solamente un’indicazione per una delle liste in competizione, mentre impedisce di esercitare una preferenza nei confronti dei candidati presenti all’interno delle liste, il cui ordine risulta essere pertanto decisivo ai fini dell’attribuzione dei seggi. In tal modo, però la normativa è lesiva del principio del voto «diretto», di cui agli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, della Costituzione, poiché la scelta dei parlamentari ricade di fatto sui partiti, realizzando una sorta di voto sostanzialmente «indiretto» e facendo altresì dubitare della rispondenza ai principi del voto «libero» e «personale».

La Cassazione esclude invece che possa ritenersi in contrasto con il dettato costituzionale l’indicazione del leader della forza politica all’interno dei contrassegni elettorali, la quale priverebbe il Capo dello Stato del potere di nomina del Presidente del Consiglio, di cui all’art. 92, comma secondo, Cost. L’infondatezza dell’assunto, infatti, è palese se solo si pone mente al fatto che la legge elettorale, oltre a prevedere espressamente che i soggetti politici debbano indicare il «capo» della forza politica o della coalizione, puntualizza che restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 92, comma secondo, della Costituzione.

Prima ancora di entrare nel merito delle questioni sollevate dal giudice a quo, è il caso di esprimere alcune considerazioni critiche sull’opportunità di affidare alla Corte costituzionale la soluzione di una questione che appare per alcuni versi squisitamente politica; al giudice delle leggi, infatti, si chiede di supplire per l’ennesima volta all’immobilismo del legislatore, il quale non ha ritenuto opportuno modificare la legge elettorale benché detta riforma fosse in cima alla lista delle priorità di fine legislatura. Sotto il profilo, meramente processuale, della possibilità di attivare un giudizio presso la Corte, si possono poi addurre forti perplessità sulla rilevanza della questione sollevata dalla Cassazione, essendovi una coincidenza pressoché totale tra i due giudizi: nel giudizio a quo, si chiede in sostanza di annullare le norme elettorali contrarie a Costituzione, ma così facendo il procedimento presso la Corte costituzionale non può che sovrapporsi al primo. Qualora la Corte dichiarasse infondate le censure di incostituzionalità, difficilmente il giudizio a quo potrebbe mantenere un autonomo svolgimento, mentre nell’ipotesi opposta l’accoglimento in toto della questione sollevata esaurirebbe la pretesa della parte ricorrente: venendo colpite le norme tacciate di incostituzionalità, le modalità di esercizio del voto rientrerebbero ipso facto nel solco delineato dalla Costituzione. In definitiva, il giudizio a quo sembra rasentare gli estremi di una fictio litis impiantata unicamente per aggirare le strette maglie del giudizio in via incidentale e giungere in via diretta alla Corte costituzionale, sul modello della Verfassungsbeschwerde tedesca e dell’amparo spagnolo.

Nel merito, invece, occorre evidenziare che seri dubbi sulla conformità a Costituzione di diverse disposizioni della legge Calderoli sono stati espressi in sede dottrinale già da tempo; la stessa Corte costituzionale, poi, aveva lanciato un chiaro monito invitando il legislatore a «considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi» (sentenze 15-16/2008; 13/2012), mentre da ultimo si è spinta addirittura oltre, sino al punto di raccomandare al Parlamento – per bocca del suo Presidente – di modificare la legge elettorale in quanto viziata da incostituzionalità. Più complessa, invece, la questione che investe l’assenza del voto di preferenza, la quale mette in discussione un metodo elettorale del tutto consolidato nel panorama costituzionalistico e che è stato introdotto in Italia dopo che il referendum del 1991 aveva sostanzialmente delegittimato l’istituto delle preferenze, ritenute fonte di corruzione ed aggravio delle spese elettorali. Tuttavia, non va certo sottaciuta la problematicità insita nella legge Calderoli, la cui gravità non risiede però nell’assenza in sé del voto di preferenza, quanto piuttosto nell’abbinamento tra lista bloccata e circoscrizioni di notevole ampiezza. Tale combinazione di fattori accentra di fatto nelle mani di coloro che compilano le liste il potere di predeterminare la stragrande maggioranza dei componenti dell’intero Parlamento, circoscrivendo conseguentemente – ed eccessivamente – il principio della libertà del voto.