La riforma delle pensioni, l’art. 49-3 Cost. e la frattura democratica in Francia

Giovedì 16 marzo la Prima Ministra francese, Elisabeth Borne, ha comunicato all’Assemblea Nazionale la decisione del suo governo di adottare motu proprio la tanto discussa e criticata “réforme des retraites” (riforma delle pensioni) mediante l’impiego di un istituto altrettanto controverso quale “l’engagement de responsabilité sur un texte”, disciplinato ai sensi dell’articolo 49, comma 3, Cost. Chiave di volta dell’ordinamento della V Repubblica, è un perfetto esempio di Giano bifronte: definito da Philippe Ardant come “la forma più brutale e più raffinata di razionalizzazione del parlamentarismo”, uno strumento pienamente legittimo e al contempo percepito come un insopportabile abuso, simbolo di un atteggiamento autoritario del governo.
La notizia ha avuto come effetto quello di esacerbare lo scontro politico e il malcontento sociale, contribuire ad ampliare quella frattura già esistente tra le istituzioni statuali e la sovranità popolare e a spogliare il Parlamento del suo ruolo fondamentale di rappresentante delle istanze del corpo elettorale, trasformandolo in una mera Chambre d’Enregistrement.
L’impiego da parte governativa dell’articolo 49.3 rappresenta solo l’ultima avvisaglia del conflitto che, ormai, da molti mesi vede la maggioranza parlamentare – cosiddetta “macroniana” – su posizioni avverse e inconciliabili con i gruppi che compongono la frastagliata opposizione parlamentare e il fallimento di ogni mediazione con i sindacati; le tensioni sociali sono, così, sfociate in un susseguirsi di manifestazioni e scioperi.
La riforma pensionistica è stata una delle grandi questioni lasciate in sospeso da Macron al termine del suo primo mandato presidenziale. Macron aveva tentato di portare avanti un piano ancor più ambizioso già nel corso del 2019; un progetto abbandonato a causa delle diffuse proteste popolari che esso aveva, anche allora, generato e dell’avvento della più grave pandemia da Covid-19.
Progetto politico accantonato ma non dimenticato; invero la riforma del sistema pensionistico è ritornata al centro della discussione nel corso dell’autunno del 2022, scontrandosi, però, con un contesto politico radicalmente mutato e senz’altro più precario rispetto a quello precedente. Difatti le elezioni legislative tenutesi nel giugno dello stesso anno – in modo del tutto inedito dopo l’istituzionalizzazione de facto del fait majoritaire – hanno conferito una maggioranza solo relativa al Presidente Macron, composta da appena 250 deputati e ben al di sotto della soglia della maggioranza assoluta. L’esecutivo Borne, quindi, si è trovato costretto a governare con una maggioranza a perimetro variabile, facendo affidamento sul voto favorevole o sull’astensione di membri dell’opposizione.
Anche per quanto concerne la riforma in oggetto, Borne ha inizialmente cercato una mediazione con Les Republicains, il gruppo parlamentare di opposizione erede della destra più tradizionale di ispirazione gollista, i quali apparivano maggiormente affini all’impostazione della proposta di legge, da molti considerata di stampo neoliberale.
Vale la pena notare che l’aspetto centrale – e anche quello più criticato – della riforma pensionistica avanzata da Macron concerne il graduale aumento dell’età legale di pensionamento dai 62 anni odierni all’obiettivo dei 64 anni, da raggiungere nel 2030; proprio questo elemento è da sempre una proposta del partito neogollista.
La riforma dell’esecutivo Borne prevede, inoltre, l’innalzamento del periodo contributivo dagli attuali 42 anni a 43 anni nel 2027.
Il governo Borne ha incontrato sempre più difficoltà nel portare avanti le trattative, scontrandosi con un crescente malcontento e insofferenza da parte dei partiti di opposizione, i quali hanno tentato di far deragliare il processo legislativo mediante la più classica forma di ostruzionismo, ossia la presentazione di una vasta quantità di emendamenti. Al contempo, un’ondata crescente di proteste, tensioni e scioperi investiva il Paese.
Dinanzi a tale situazione, il Presidente Macron – temendo il riprodursi del medesimo destino di Alain Juppé il quale fu costretto nel 1995 a ritirare la legislazione pensionistica a causa delle forti proteste – ha dato il proprio assenso all’impiego di una serie di strumenti tipici del parlamentarismo razionalizzato. Questi, tuttavia, possono anche dar luogo a cattive pratiche istituzionali che tendono a stravolgere e degradare il regime parlamentare.
Dapprima si è fatto ricorso all’istituto dell’articolo 47-1 Cost., il quale consente al Senato di pronunciarsi prioritariamente su un progetto di legge di finanziamento della sicurezza sociale – una scelta dettata dalla consapevolezza di poter qui contare su numeri più solidi. Successivamente, una volta presa coscienza della mancanza di una maggioranza a favore della legge in Assemblea Nazionale, il Presidente Macron e la Prima Ministra hanno ritenuto di dover spendere lo strumento del 49-3, il quale permette al governo di adottare il testo legislativo senza il necessario voto della Camera elettiva. I deputati in tal modo perdono la facoltà di dibattere e votare la disposizione di legge, potendo solo presentare una mozione di censura contro l’Esecutivo: il testo legislativo si considera approvato nel caso la mozione non sia presentata o è rigettata dai deputati.
L’impiego dello strumento del 49.3 non dovrebbe far sorgere eventuali dubbi sulla sua legittimità che, anzi, proprio nel contesto attuale risulta essere orientato costituzionalmente alla ratio per cui è stato introdotto in Costituzione; un istituto d’eccezione pensato per soccorrere esecutivi fragili, sorretti da maggioranze relative, al fine di approvare testi legislativi che altrimenti sarebbero stati rigettati se sottoposti all’iter legis ordinario, contribuendo a paralizzare l’attività governativa.
L’istituto consente al governo di adottare il disegno di legge anche in assenza di una maggioranza parlamentare chiaramente a suo favore, impegnando la propria responsabilità politica dinanzi l’Assemblea Nazionale.
L’esecutivo Borne ha, quindi, approvato il testo legislativo in Consiglio dei Ministri, abbastanza sicuro di non subire un voto di sfiducia in Assemblea Nazionale. Infatti, difficilmente i diversi gruppi di opposizione avrebbero fatto convergere i propri voti sulla medesima mozione di censura contro il Governo, preferendo alcuni di essi astenersi – comportamento che nel contesto francese è assimilato ad un voto a favore dell’esecutivo.
Così è stato quando, lunedì 20 marzo, la mozione di sfiducia, presentata dal gruppo indipendente Liot, non ha raccolto i 287 voti necessari per essere approvata.
Questa può considerarsi una vittoria di Pirro per la compagine governativa, la quale ha in effetti dimostrato di aver a disposizione un consenso parlamentare ristretto e non autosufficiente.
L’approvazione della legge in tale siffatta maniera ha innescato il ricorso a ulteriori istituti costituzionali, tra i quali la richiesta di 250 deputati e senatori di un “référendum d’initiative partagée” per l’approvazione di una legge che porti l’età pensionabile nuovamente a 62 anni. L’istituto disciplinato ai sensi dell’art. 11 Cost, come modificato dalla riforma costituzionale del 2008, prevede che la proposta sia accolta dal Conseil constitutionnel e sia sostenuta da un decimo del corpo elettorale.
D’altronde, servirebbe interrogarsi su uno strumento, quale quello del 49-3, che presenta diversi punti di criticità e legittimi dubbi di opportunità; difficile non condividere, almeno in parte, le critiche di chi lo definisce come “un deni de democratie”. In un contesto che ha visto il consolidarsi di un ordinamento iper-presidenzialista, le ragioni che avevano sospinto i costituenti ad introdurre lo strumento sono state ampiamente superate; ciò che resta è, invece, un istituto simbolo di un sempre più acuto squilibrio di poteri a tutto vantaggio dell’Esecutivo e uno svuotamento di competenze a danno del Parlamento. La mera previsione di una mozione di censura non può essere considerata come il giusto bilanciamento, specie se si considera che nessun governo ha corso il concreto rischio di vedersi negata la fiducia dall’Assemblea Nazionale. L’unico governo sfiduciato resta quello di Pompidou nel 1962, in cui la mozione di censura, però, seguì la disciplina prevista ai sensi del secondo – e non terzo – comma dell’articolo 49.
Come sottolineato da molti, inoltre, il ricorso al 49.3 da parte della Prima Ministra Borne e l’ondata di proteste sembra aver reso evidente la crisi politica che affligge la V Repubblica. Una crisi che concerne principalmente i partiti politici, sempre meno strutturati e con un consenso elettorale labile e fluido.
La crisi del sistema dei partiti rivela la crisi del fait majoritaire, ossia di quella concordanza fra maggioranza presidenziale e maggioranza parlamentare che rappresenta, secondo la definizione di Pierre Avril, “l’épine dorsale du régime”. L’eventuale tramonto del fait majoritaire significherebbe il ripensamento del funzionamento complessivo della V Repubblica.
L’istituto del 49.3 si è, però, dimostrato un ottimo catalizzatore della rabbia e del malcontento sociale, non solo nel caso odierno. Basta qui ricordare l’approvazione, mediante tale procedura, di due leggi altrettanto contestate – la loi Macron e la loi El-Khomri –, che diedero vita a prolungate proteste e violenti scontri, così come alla nascita di movimenti sociali di dissenso come “Nuit debout”. La contrarietà alla politica governativa, se non può manifestarsi in ambito parlamentare, troverà la sua naturale collocazione nelle piazze, al di fuori degli organi rappresentativi.
Ne consegue che seppur il 49.3 rappresenta un notevole strumento a vantaggio dell’esecutivo, al fine di non restare imbrigliato tra veti incrociati e incessanti discussioni parlamentari, presenta diversi punti critici, che specie in tornanti così complessi, hanno il potenziale di indebolire, non rafforzare, la democrazia rappresentativa.