La sentenza Torreggiani come argomento per negare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo

L’11 marzo scorso, la Queen’s Bench Division della High Court inglese, composta dai giudici McCombe e Hickinbottom, ha accolto l’appello di un cittadino somalo, che contestava la sua consegna in Italia disposta dalla District Court in esecuzione di un mandato d’arresto europeo/MAE (Hayle Abdi Badre v. Court of Florence, Italy). La decisione è importante per diverse ragioni: in primo luogo, perché sono presenti, anche se non direttamente esaminati dalla Corte, profili attinenti la libertà religiosa nell’ambito dell’esercizio delle libertà economiche; in secondo luogo, perché è rilevante il criterio della doppia incriminazione quale possibile motivo di rifiuto del MAE; da ultimo – ma è l’aspetto più attuale – perché la sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo viene utilizzata come uno degli argomenti principali della decisione (Torreggiani c. Italia, dell’8 gennaio 2013). A sua volta, l’uso argomentativo della sentenza Torreggiani si segnala per un duplice ordine di motivi: da un lato, perché esso è stato in grado di paralizzare l’efficacia del MAE, rappresentando un’ipotesi di “circolo virtuoso” all’interno del pluralismo giuridico europeo; dall’altro, perché esso riguarda il problema strutturale delle condizioni carcerarie in Italia, per la risoluzione del quale la stessa Corte di Strasburgo ha fissato indirettamente il termine del 28 maggio 2014, senza che finora il legislatore se ne sia fatto adeguatamente carico (v. anche Corte cost., sent. 279/2013).

Badre è amministratore di una società con sede a Londra, che svolge un servizio di pagamenti secondo l’hawala, un sistema sviluppato secondo una tradizione musulmana che vieta la percezione di interessi sul prestito di denaro. Tale sistema opera attraverso hawaladars in vari paesi, che garantiscono, reciprocamente e sulla base di codici d’onore, il pagamento di somme in favore di individui residenti sul territorio. Si ha così trasferimento di denaro senza che esso venga effettivamente spostato da un paese all’altro. L’autorità giudiziaria italiana ha però aperto un procedimento penale contro Badre per attività finanziaria abusiva, non essendo questi in possesso dell’autorizzazione prevista dalla disciplina interna (art. 132 d. lgs. 385/1993 e art. 4 l. 146/2006), e chiedendo quindi alle autorità inglesi l’esecuzione del MAE con il fine di sottoporre l’imputato a custodia cautelare.

Il quadro normativo in cui si inserisce l’attività di Badre è, tuttavia, più ampio, essendo costituito anzitutto dalla direttiva europea sui servizi di pagamento 2007/64 CE. Quest’ultima prevede bensì l’obbligo di un’autorizzazione per l’esercizio di tali servizi (art. 10), ma anche la facoltà per gli stati membri di derogarvi per le imprese che effettuino transazioni dal volume limitato (art. 26). Di tale deroga si era avvalso il Regno Unito, che richiedeva comunque la registrazione delle imprese (art. 13), ma non l’Italia, che prevedeva in ogni caso la più rigorosa procedura di autorizzazione.

Come si è accennato, l’obbligo, imposto a Badre, di ottenere l’autorizzazione potrebbe essere valutato alla luce della libertà religiosa, una volta accertato – come nel caso di specie – che la sua attività non sia volta al finanziamento di associazioni, come quelle terroristiche, che agiscono nell’ambito della sfera penalmente rilevante. La Corte non affronta però questo aspetto, essendo l’accoglimento del ricorso basato sui motivi relativi al divieto di doppia incriminazione e al rilievo attribuito alla sentenza Torreggiani.

Quanto al primo motivo, essendosi svolta una parte rilevante del comportamento contestato sul suolo inglese, il giudice McCombe fa riferimento al principio di territorialità, applicando la sec. 64 (3)(b) dell’Extradition Act. Alla luce di tale norma, si può procedere alla consegna solo se “la condotta [incriminata] costituisce un reato secondo il diritto della parte del Regno Unito” in cui essa è stata posta in essere. Ma, non essendo la condotta, per la quale Badre è ricercato in Italia, punibile nel Regno Unito (nemmeno ai sensi della normativa antiriciclaggio invocata dal Crown Prosecution Service), la consegna deve essere rifutata (pt. 30-33). Il giudice ritiene bensì che la fattispecie incriminatrice di un altro stato membro non debba essere del tutto coincidente con un reato previsto dal diritto inglese, ma specifica anche che “il problema è se l’essenza della condotta costituisca un reato in questo paese” (pt. 33), concludendo negativamente.

Il secondo motivo accolto da entrambi i giudici della Queen’s Bench Division riguarda le condizioni carcerarie alle quali sono sottoposti i detenuti italiani. Il giudice McCombe richiama ampiamente la sentenza Torreggiani, che, com’è noto, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione, in ragione dei trattamenti inumani e degradanti sofferti dai detenuti. Di essa, i giudici ricordano che è una sentenza-pilota, essendo attinente ad un problema sistemico e strutturale degli istituti di pena italiani. Attraverso il richiamo ad una lettera del novembre 2013, inviata dal Ministro della giustizia italiano al magistrato di collegamento inglese in Italia, il giudice McCombe ricorda anche il messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere dell’ottobre 2013.

Rimandando alla sentenza Saadi c. Italia, del 27 febbraio 2008, McCombe articola il test relativo all’art. 3 nei casi di estradizione: la persona della quale sia richiesta l’estradizione (o, trattandosi di MAE, la consegna) deve provare l’esistenza di motivi sostanziali, idonei a far credere che, qualora sia estradata, si trovi ad affrontare il rischio reale di essere sottoposta a trattamenti contrari all’art. 3 (pt. 40). Al contempo, McCombe rileva la formazione di una forte presunzione avente ad oggetto il rispetto dei diritti della Convenzione da parte dei paesi aderenti al Consiglio d’Europa (pt. 41). E, tuttavia, l’esistenza di una sentenza della Corte di Strasburgo che accerta una violazione grave e sistematica della Convenzione viene ritenuta, sia da McCombe che da Hickinbottom, un elemento tale da contrastare quella stessa presunzione (pt. 41-44). Mc Combe ribadisce che, ai sensi della sec. 2 dello Human Rights Act, le corti inglesi hanno un obbligo di “prendere in considerazione” la Convenzione, precisandone il significato: benché la sec. 2 non implichi che le corti inglesi debbano adeguarsi pedissequamente alle pronunce di Strasburgo, tuttavia esse non possono non attribuire un peso decisivo ad una sentenza, come la Torreggiani, che accerta una violazione sistemica della Convenzione. Tale sentenza, dunque, deve considerarsi un “chiaro rovesciamento della presunzione” in favore dello stato italiano.

I giudici considerano quindi la summenzionata lettera del Ministro della giustizia, nella parte in cui il Ministro assicurava che, una volta estradato, Badre “sarebbe stato detenuto in condizioni conformi all’art. 3 della CEDU”. Ma tali assicurazioni non sono state ritenute sufficienti dai giudici inglesi che, richiamando un’altra decisione della Corte di Strasburgo (Othman (Abu Qatada) c. Regno Unito, del 17 gennaio 2012), le hanno considerate troppo generiche, in assenza di una specificazione del luogo della futura detenzione e delle condizioni effettive che sarebbero state applicate a Badre. In questo contesto, essi hanno lasciato intendere che, qualora, in futuro, le garanzie prospettate dallo stato italiano fossero più dettagliate e credibili, i giudici inglesi potrebbero autorizzare la consegna in casi analoghi.