La “storia infinita” della regola Taricco. Recensione a A. Bernardi, C. Cupelli (a cura di), Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L’ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, Napoli, Jovene, pp. 494.

Il recente volume curato da Alessandro Bernardi e Cristiano Cupelli recepisce in modo analitico ed esaustivo le diverse letture dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 26 gennaio 2017, con cui quest’ultima, per la terza volta (recte: la seconda nel corso di un giudizio di costituzionalità in via incidentale), ha sollevato una questione pregiudiziale innanzi la Corte di giustizia dell’Unione europea. Il libro raccoglie trenta contributi a commento della pronuncia della Consulta, molti dei quali frutto della rielaborazione, da parte dei rispettivi Autori, delle relazioni al Convegno intitolato “Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti”, tenutosi presso l’Università di Ferrara il 24 febbraio 2017.

Sono probabilmente poche le vicende giudiziarie da cui è scaturito un dibattito tanto vivace in dottrina; il volume in commento prova che il caso Taricco è uno di questi. Com’è noto, il retroscena è rappresentato dalla sentenza resa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea lo scorso 8 settembre 2015 (Grande Sezione, causa C-105/14, Taricco e a.), a seguito del rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale di Cuneo nel settembre 2014 in materia di c.d. “frodi carosello”. La regola tratta da quella sentenza consiste nell’obbligo del giudice comune nazionale di disapplicare le disposizioni di diritto interno in materia di atti interruttivi della prescrizione nell’ambito dei reati di frode tributaria. A detta del giudice di Lussemburgo, infatti, la disciplina statale è inidonea a garantire l’assolvimento dell’obbligo, imposto agli Stati membri dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (hinc inde TFUE), di “lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive”. Ciò, peraltro, sia nei casi in cui la normativa nazionale non consente ai giudici nazionali di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea (demandando al giudice nazionale l’accertamento di tale impossibilità), sia laddove il diritto interno, nei casi di frode che ledono gli interessi finanziari nazionali, preveda termini di prescrizione più lunghi rispetto a quelli previsti per i casi di frode lesivi di interessi dell’Unione.

La pronuncia della Corte di giustizia, oltre ad aver attirato – come detto – una straordinaria attenzione nel mondo accademico (su cui v. ex multis, a cura di A. Bernardi, I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Jovene, Napoli, 2017) ha dato luogo a esiti interpretativi divergenti anche e soprattutto nel dibattito giurisprudenziale, ove i giudici comuni, naturali destinatari della c.d. regola Taricco, sono giunti a conclusioni non univoche (lo mette in luce, tra gli altri, D. Tega, pp. 456 ss.). La stessa Terza sezione penale della Corte di cassazione, che in un primo momento ha disapplicato le norme nazionali in preteso contrasto con il diritto dell’Unione (sent. n. 2210 del 2015), successivamente si è pronunciata allo stesso modo (e cioè direttamente nel merito), ma nel senso opposto di non poter disapplicare i termini legali di prescrizione (sent. n. 44584 del 2016). Fra questi casi-limite si collocano le due ordinanze, rispettivamente della Corte d’Appello di Milano e della stessa Terza sezione penale della Cassazione, che hanno invece sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge di ratifica del Trattato di Lisbona, lamentando la violazione di alcuni principi fondamentali della Costituzione da parte dell’art. 325 TFUE, per come interpretato dalla sentenza Taricco. Da ultimo, l’ordinanza della Corte costituzionale resa nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, nei termini che si vedrà immediatamente appresso, ha interrogato il giudice di Lussemburgo sulla portata da attribuire alla regola Taricco.

Precisato il contesto di riferimento, già a una prima lettura ci si avvede che tanto i punti di vista, quanto i metodi di analisi dell’ordinanza sono molti e molto diversi fra loro.

Oggetto d’indagine, anzitutto, è lo stesso registro linguistico utilizzato nell’ordinanza dal Giudice delle leggi, che ne fa una pronuncia “garbata nella forma, [ma] rocciosa nella sostanza” (V. Manes, p. 207). Cosa sia questa sostanza è presto detto: il Giudice delle leggi ha rivolto alla Corte di giustizia tre quesiti, domandando se la regola Taricco debba essere interpretata nel senso che imponga la disapplicazione delle norme interne in tema di prescrizione da parte del giudice nazionale anche quando: i) tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata”; ii)nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità”; e iii)tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro”. Tanto, afferma la Corte, perché il principio di legalità in materia penale sancito all’art. 25, comma 2, Cost. – che esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in alcun caso portata retroattiva – è espressione di un principio supremo dell’ordinamento a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo; con la conseguenza che, se l’applicazione dell’art. 325 TFUE comportasse l’ingresso nell’ordinamento di una regola contraria a tale principio, il Giudice delle leggi avrebbe il dovere di impedirlo.

Il giudice di Lussemburgo – osserva preliminarmente la Consulta – non avrebbe affermato che il giudice nazionale deve applicare il diritto dell’Unione anche quando esso confligga con un principio cardine dell’ordinamento italiano, ma che, al contrario, la regola Taricco è applicabile solo se è compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, spettando alle autorità di quest’ultimo operare tale valutazione. In altre parole, nell’ordinanza si sottolinea che il primato del diritto dell’Unione non può mai ledere i valori sottesi a tale identità perché, se ciò accadesse, sarebbe ammissibile l’applicazione del controlimite, posto a salvaguardia di tali valori (C. Amalfitano, p. 11).

Ciò posto, il Giudice delle leggi ritiene in ogni caso “conveniente porre il dubbio all’attenzione della Corte di giustizia” (par. 6), cui essa “chiede conferma” che la regola Taricco sia “applicabile solo se compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, e che spett[i] alle competenti autorità di quello Stato farsi carico di una siffatta valutazione” (par. 7). Di qui l’adozione di una pronuncia interlocutoria, della quale nel volume sono accuratamente messi in luce gli elementi di continuità e discontinuità rispetto alle altre ordinanze che, in precedenza, avevano sollevato questioni pregiudiziali innanzi la Corte di giustizia (G. Piccirilli, pp. 332 ss.).

Si è sottolineato che, a fronte di una sentenza di accoglimento, la decisione di promuovere un rinvio pregiudiziale ha indubbiamente “smorzato la temperatura di un conflitto che sembrava poter erompere in modo potentissimo, e in questo senso porta un innegabile valore intrinseco di saggezza istituzionale” (P. Faraguna, p. 143). Più che da ragioni processuali, dunque, il rinvio è dettato dall’esigenza politico-istituzionale di offrire alla Corte di giustizia la possibilità di precisare l’estensione della regola Taricco. Una possibilità che, in ogni caso, appare “limitata”, avendo la Corte detto chiaramente che sulla regola Taricco grava l’ipoteca dei controlimiti (M. Luciani parla di un ritorno “catafratto” della regola Taricco a Lussemburgo: p. 193). È per questo che molti Autori leggono nel rinvio un diktat (A. Martufi, p. 258), una diffida (G. Piccirilli, p. 327), un ultimatum (A. Ruggeri, p. 393) o una minaccia (V. Manes, p. 206) più che la volontà di instaurare un vero e proprio “dialogo” (C. Cupelli, p. 94; M. D’Amico, p. 103; R. Mastroianni, 281; di “sovranismo” parlano A Bernardi, p. 34, R. Sicurella, p. 415, e F. Viganò, p. 477).

I molteplici spunti di riflessione cui ha dato adito la pronuncia possono esser compendiati osservandola da due distinte angolazioni (pur fra loro strettamente connesse). La prima ne esalta “le caratteristiche e i toni di strumento esclusivamente difensivo delle prerogative del nostro ordinamento”, leggendone però anche “Il contenuto di un messaggio, forse di un mònito, indirizzato appunto all’Europa” (Palazzo, p. XVII s.); la seconda, invece, ne sottolinea il valore di “precedente” nell’ottica propria ed esclusiva – ma non meno significativa – del diritto nazionale (v. ad es. M. Bignami, pp. 38 e 44).

Nella prima prospettiva è centrale l’attenzione posta dalla Corte al principio di leale cooperazione, che definisce il rapporto tra Unione e Stati membri, e a quello del primato del diritto dell’Unione. Quest’ultimo è inteso non come mera articolazione tecnica del sistema delle fonti, ma, piuttosto, come espressione della capacità di tenuta dell’ordinamento sovranazionale nella misura in cui esso riesce a “includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insista nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE)”, trovando in tale capacità “la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad uno ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE)” (par. 6). Presupposto di tale legittimazione è il rispetto dell’“identità costituzionale dello Stato membro” (parr. 7 e 8), concetto che riassume “i tratti identitari del nostro ordinamento costituzionale” (M. Gambardella, p. 164), recentemente evocato dal Tribunale costituzionale federale tedesco per rendere “inoperativa” una sentenza della Corte di giustizia (v. M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2016, p. 19). Oggetto di apposito distinguishing da parte della Corte è la sentenza adottata nel caso Melloni in cui, com’è noto, la Corte di Lussemburgo aveva risposto a un quesito pregiudiziale sollevato dal Tribunal constitucional negando sia la possibilità di aggiungere condizioni all’esecuzione di un mandato di arresto europeo, sia che la Costituzione spagnola assicurasse uno standard di tutela dei diritti fondamentali superiore rispetto a quello garantito dall’Unione (M. Caianiello, p. 75).

La giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht è richiamata in alcuni contributi per sottolineare come essa abbia in qualche modo indotto la Corte di giustizia “a cambiare le proprie posizioni iniziali, dando un contributo importante alla definitiva interiorizzazione del rispetto dei diritti fondamentali fra i principi generali del diritto”, e “a una svolta nel rapporto fra rispetto delle identità costituzionali (comuni e non) e primato del diritto europeo” (G. Martinico, p. 246 s.). Tuttavia, se ne colgono acutamente anche i tratti di identità e differenza rispetto alle decisioni della Corte costituzionale italiana sul tema (analogie e differenze della Verfassungsidentität della vicenda Gauweiler/OMT sono messe in luce da M. D’Amico, pp. 104 s., e P. Faraguna, p. 144 s.). Di esse l’ordinanza Taricco certamente rappresenta un traguardo fondamentale, anche se sicuramente non l’ultimo.

La mancata distinzione tra “centro” e “periferia” del principio di legalità in materia penale sembra rappresentare il trait d’union della prospettiva ad intra e di quella ad extra. La Corte, infatti, si limita “a qualificare la concezione sostanzialistica [della prescrizione] una giusta premessa del suo ragionamento”, ma laddove tratta il requisito della determinatezza delle norme penali, parte essenziale del principio di legalità, ne individua la ratio nell’individuazione della fattispecie di reato e nelle conseguenze sanzionatorie, non anche “al regime prescrizionale, né alla disciplina della sua estensibilità massima nel caso si verifichino eventi interruttivi” (P. Faraguna, p. 152). Da alcuni Autori è poi affrontata la questione del “bilanciamento” tra i principi ricavabili dagli artt. 11 e 25, comma 2, Cost.: alcuni muovono alla Corte la critica di non aver operato “un bilanciamento in concreto” tra la pretesa violazione del principio di legalità e le esigenze di apertura all’ordinamento eurounitario imposte dall’art. 11 (R. Mastroianni, p. 285; in termini simili A. Ruggeri, p. 393 ss.); per altri, tale bilanciamento sarebbe stato “già compiuto dall’art. 1 e dallo stesso art. 11 Cost., che hanno incorporato i controlimiti nel processo di adesione dell’Italia” (M. Luciani, p. 204).

Vero è che l’individuazione del “nucleo duro” del principio supremo, dal punto di vista interno, tocca molti nervi scoperti, rappresentati in primis dalla natura sostanziale della prescrizione e, dunque, dalla sua soggezione al principio di legalità in materia penale, ora ascritto a tratto caratterizzante l’identità costituzionale dell’ordinamento italiano (M. Bignami, p. 38; C. Cupelli, p. 86; in termini dubitativi M. Luciani, p. 199). In particolare, foriera di dubbi è, tra l’altro, l’affermazione della Corte per cui la prescrizione, in ogni caso, sarebbe “circostanza esterna” all’ordinamento europeo, e rispettarne la natura sostanziale garantisce un livello più elevato di protezione (C. Amalfitano, p. 11). In seconda battuta è affrontata la questione del deficit della determinatezza della fattispecie penale (C. Cupelli, p. 88; M. Gambardella, p. 172 s.), dalla Corte declinato sia sotto il profilo della prevedibilità della regola da parte dei consociati, sia come canone idoneo a delimitare la discrezionalità giudiziaria (par. 5; v., al riguardo, la critica di F. Viganò, p. 482 s.). Altri punti problematici opportunamente messi in luce sono l’affermazione, nell’ordinanza, della “responsabilità della Repubblica italiana per aver omesso di approntare un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell’Unione” (in una con l’asserita “risoluzione” del problema a seguito dell’adozione della disciplina di cui al d.l. n. 138 del 2011, che ha aumentato di un terzo i termini di prescrizione dei reati in questione, tuttavia non applicabile ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge).

Ulteriore campo di analisi, infine, è l’efficacia dell’ordinanza n. 24 del 2017. In proposito, anzitutto, si è osservato che nelle more della definizione del giudizio la pronuncia ha sortito un “effetto di congelamento” sul potere di disapplicazione dei giudici italiani investiti di casi analoghi, dato che la disapplicazione delle regole nazionali sugli atti interruttivi ex art. 325 TFUE è, allo stato, “rimedio comunitariamente suggerito, ma costituzionalmente impercorribile” (V. Manes, p. 220). In punto di merito, invece, ci si è soffermati su motivazioni e dispositivi che potrebbe assumere la sentenza definitoria della questione. La Corte di Giustizia potrebbe ribadire il contenuto già espresso nella sentenza Taricco, così esponendosi concretamente alla “minaccia” dei controlimiti e alla loro “attivazione” da parte della Consulta. Un altro scenario è rappresentato dalla possibile “correzione” della portata della regola Taricco, verosimilmente precisando i criteri di applicazione che a essa sottostanno e limitandone, pro futuro, l’efficacia. Al riguardo, è stato posto l’accento sui pericoli derivanti da una pronuncia che solo formalmente porrebbe fine ai vulnera ordinamentali ma che, sostanzialmente, lascia intatta la sostanza dei problemi essenziali in gioco, costituiti dall’alternativa fra diritto giurisprudenziale e diritto legislativo, nonché dal rispetto del principio di separazione dei poteri (M. Luciani, p. 200). Il terzo e ultimo scenario pronosticabile è quello di una sentenza che, anche nella sostanza, recepisca i suggerimenti del giudice italiano delle leggi. Che si pervenga, però, a quello che in molti hanno definito un commodus discessus (F. Palazzo, p. XVII; R. Kostoris, p. 182; G. Riccardi, p. 363) è lecito dubitare, specialmente alla luce delle conclusioni dell’Avvocato Generale Yves Bot presentate il 18 luglio 2017 (su cui v. amplius C. Cupelli, Le conclusioni dell’Avvocato Generale sul caso Taricco: aspettando la Corte di giustizia… il dialogo (non) continua, in Diritto penale contemporaneo, 3 ottobre 2017). Ma questa, come si legge in un noto romanzo parafrasato nel titolo di questo breve contributo, è un’altra storia.