Lambert contro Lambert, ovvero la Corte di Strasburgo e la “morale provvisoria”

Un infermiere francese, vittima di un incidente automobilistico, subisce un grave trauma cranico e rimane in stato vegetativo cronico, collegato ad una macchina che lo alimenta e lo idrata artificialmente giorno e notte. Sebbene risponda agli stimoli esterni, i medici non riescono a trovare un codice comunicativo e certificano, dopo oltre 80 sedute di contatto, che il malato versa in uno stato vegetativo irreversibile. I famigliari sono divisi: la moglie (anche lei infermiera), il nipote e una sorellastra dichiarano che il loro congiunto avrebbe preferito lasciarsi morire, piuttosto che vivere in un limbo come molte delle persone che accudiva quotidianamente nel suo lavoro. I genitori, una sorella e un fratellastro, invece, ritengono che sia ancora cosciente e insistono nel chiedere che gli vengano assicurati tutti i trattamenti medici possibili, nella speranza di un possibile “risveglio” delle funzioni cognitive.

Questo in sintesi il caso Lambert che ha scosso l’opinione pubblica francese in queste ultime settimane: l’iter giudiziario del caso, che ha trovato un proprio epilogo (forse) con la sentenza dello scorso 5 giugno della Grande Chambre, non è però meno complesso. Il 10 aprile 2013, dopo quasi cinque anni dall’incidente, il medico curante del Sig. Lambert decide di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali, dopo che una équipe di dottori aveva accertato l’irreversibilità dello stato vegetativo in cui versava. Una parte della famiglia – come detto, i genitori, una sorella e un fratellastro – impugna la decisione del medico ai sensi della L. 521-2 in via d’urgenza per référé libérté[1]. Il successivo 11 maggio, il Tribunale amministrativo competente dichiara illegittima la decisione del medico e obbliga la struttura ospedaliera a riprendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali.

Successivamente però, nel settembre 2013, dopo due consigli di famiglia, la maggioranza dei parenti del Sig. Lambert chiede nuovamente l’interruzione del trattamento sanitario che si verifica il 13 gennaio 2014, dopo una nuova relazione medica. Ancora una volta, i parenti contrari alla decisione della maggioranza ricorrono al tribunale amministrativo che conferma l’illegittimità della procedura e della decisione dell’ospedale: tuttavia, un appello incidentale al Consiglio di Stato della moglie del Sig. Lambert rigetta il référé libérté. Il Supremo giudice amministrativo, in composizione plenaria, giunge a questa conclusione dopo aver integrato l’istruttoria di primo grado, ascoltando la moglie del Sig. Lambert – oltre che i famigliari favorevoli all’interruzione del trattamento – e autorizzando l’intervento in giudizio (come amici curiae) dell’On. Leonetti, primo firmatario ed estensore della legge transalpina in materia di trattamenti di fine vita, del Comitato di bioetica e dell’Accademia dei medici francesi.

I famigliari del Sig. Lambert contrari all’interruzione delle cure ricorrono allora alla Corte di Strasburgo che decide con procedura d’urgenza in sede di Grande Chambre: in particolare, i genitori, un fratellastro ed una sorella del Sig. Lambert lamentano che la decisione del Consiglio di Stato violi gli artt. 2, 3 e 8 della CEDU, ma il problema è innanzitutto quello di valutare se siano legittimati ad agire per conto di una persona che, pur non essendo ancora morta, comunque non è in grado di delegare qualcuno, anche un parente stretto, a difendere i propri diritti in giudizio.

La Grande Chambre analizza la questione alla luce di due criteri desumibili dalla propria giurisprudenza (cfr. §. 102), ossia il rischio che i diritti della presunta vittima siano privi di protezione effettiva e l’assenza di un conflitto di interessi tra la presunta vittima, di cui il ricorrente fa valere i diritti, ed il ricorrente medesimo. Alla luce della vicenda processuale, la Corte ha gioco facile nel dichiarare che, in questo caso, sussiste un evidente conflitto di interessi, in ragione del fatto che la famiglia del Sig. Lambert è divisa: la moglie, il nipote e la sorellastra della presunta vittima, infatti, si sono costituiti in giudizio come terzi contro-interessati rispetto ai ricorrenti. In questo modo, il ricorso diventa improcedibile con riferimento agli artt. 3 e 8 della CEDU, rimanendo ammissibile limitatamente all’art. 2, in quanto la decisione presa dai medici avrebbe determinato comunque un attentato, seppur ancora potenziale, alla vita del Sig. Lambert.

Nel precisare che non si tratta di un caso di eutanasia (come nei precedenti Sanles Sanles, Pretty, Haas e Koch), bensì di interruzione di un trattamento sanitario finalizzato a mantenere in vita una persona (come nei casi Glass, Burke e Ada Rossi), la Corte dichiara di voler valutare i fatti alla luce di tre criteri desumibili dalla propria precedente giurisprudenza (cfr. §. 143), ossia:

a) l’esistenza di un quadro legislativo nazionale conforme all’art. 2 CEDU (principio fissato nel precedente Glass); b) la valutazione della volontà della persona potenzialmente “vittima” dell’interruzione del trattamento (principio fissato nel caso Burke); c) la possibilità per i ricorrenti di adire le competenti sedi giudiziarie, al fine di ottenere una decisione che garantisca effettivamente gli interessi della potenziale vittima (principio anch’esso stabilito nel caso Burke).

Sul punto a), la Corte osserva che la legge Leonetti del 2005 definisce il quadro dei diritti dei malati che versano in una situazione di “fine vita”, ma non i diritti dei malati “in fin di vita”, prevedendo una serie di procedure finalizzate ad evitare l’accanimento terapeutico da parte dei medici curanti: in questa ottica, ad avviso della Corte, la normativa francese risulta assolutamente chiara, esaustiva e compatibile con l’art. 2 CEDU.

Con riferimento al punto b), la Corte osserva che, in ragione del margine di apprezzamento statale, la normativa interna è compatibile con la Convenzione in quanto stabilisce il principio che siano i medici – e non la famiglia del malato – a decidere sulla sospensione del trattamento, mediante una procedura articolata in più fasi e con una valutazione finale collegiale tecnico-sanitaria che comunque tenga conto anche della volontà (espressa o meno) del malato[2].

Con riferimento al punto c), infine, la Corte ripercorre l’intero iter giudiziario del Sig. Lambert e giunge alla conclusione che i ricorrenti hanno potuto adire tutti i giudici competenti, i quali hanno valutato approfonditamente il caso: in particolare, la Grande Chambre si sofferma sulla decisione, in sede plenaria, del Consiglio di Stato che viene definita attenta e approfondita sotto il profilo istruttorio. In conclusione, quindi, la Corte di Strasburgo, nonostante una minoranza dissenziente di cinque giudici, decide per la non violazione dell’art. 2 CEDU.

La sentenza Lambert è sicuramente una di quelle decisioni che scuote le coscienze: all’indomani del verdetto della Grande Chambre, alcuni famigliari della “vittima” hanno pubblicato su internet un video, al fine di dimostrare che il Sig. Lambert non si trova affatto in uno stato di “fine vita” e che, nonostante le sue capacità cerebrali siano labili, egli è semplicemente una persona che ha bisogno di assistenza per (soprav)vivere (le immagini girate, in effetti, sono toccanti e, per lo meno in apparenza, sembrerebbero confermare questa versione: cfr. https://www.youtube.com/watch?v=r3kO815fDt0).

L’impressione, insomma, è che una questione privata sia diventata un caso pubblico: inutile aggiungere che, da un punto di vista fattuale, la decisione dei medici resta fortemente orientata dalle decisioni (maggioritarie) della famiglia, la quale ha cercato nella scienza la copertura legale ad una scelta dolorosa, presa per ragioni senz’altro più ambivalenti di un lineare referto medico. Non si può escludere, insomma, come fanno i giudici dissenzienti nella loro opinione, che questo sia un caso di eutanasia “qui ne veut pas dire son nom”. Forse la fredda argomentazione giuridica dovrebbe qui tenere conto anche dei sentimenti e delle emozioni dei famigliari, emozioni evidentemente in conflitto tra di loro: da una parte, i genitori del Sig. Lambert non vogliono perdere la speranza di un “risveglio” del loro figlio, dall’altra la moglie, forse stretta nella morsa affettiva della famiglia del marito, cerca di porre fine ad una ormai inesistente vita di coppia, nel pieno rispetto della volontà del suo compagno.

Resta poi il tema, se si vuole tutto filosofico, di che cosa si debba intendere per razionalità e per “persona”: al riguardo, i giudici dissenzienti osservano che il Sig. Lambert si trova nella stessa situazione di un neonato che non è in grado di alimentarsi da solo (e tuttavia il biberon non può essere considerato un trattamento sanitario, aggiungo io), ma che reagisce agli stimoli esterni e chiede di mangiare quando ha fame.

Ma anche volendo accogliere questa ricostruzione, resta il dato di fatto che il Sig. Lambert si trova in uno stato di post-coscienza irreversibile causato dal trauma subìto, mentre un neonato si trova sempre in uno stato di pre-coscienza che tende potenzialmente, con la crescita biologica, verso uno sviluppo pieno ed effettivo delle proprie capacità cognitive. Sebbene il suo stato di incoscienza sia irreversibile, tuttavia, resta però anche il dato di fatto che il Sig. Lambert non è – né medicalmente, né giuridicamente – in uno stato di “fine vita” e, quindi, la procedura della legge Leonetti sembrerebbe non potersi applicare al suo caso. Resta, infine, il “mistero” di quella che potremmo definire, la “razionalità altra”: il Sig. Lambert è davvero in uno stato di incoscienza ? Pensa qualcosa quando fissa negli occhi suo fratello (le immagini del video, al riguardo, sono davvero perturbanti) ? E che cosa significa “pensare” per un uomo in quello stato ? E’ possibile dire che la scienza, conformando la propria idea di coscienza ad un certo modello di razionalità, consideri non coscienti “razionalità altre” ? Fino a che punto le reazioni agli stimoli esterni del Sig. Lambert sono un riflesso incondizionato del proprio corpo oppure sono volute dalla sua mente ? E se qualcuno, a causa di un trauma o per nascita, non pensa e non è cosciente come lo è invece la maggior parte di noi, che diritti ha, se li ha (come io credo) ?

Difficile insomma prendere posizione sul caso, visti anche gli interrogativi che suscita: da un lato, gli argomenti della Corte appaiono persuasivi, convincenti, ragionevoli; dall’altra, le immagini e l’immedesimazione simpatetica con i diversi attori della vicenda – con tutte le loro contraddizioni – portano a far confliggere le emozioni con i ragionamenti. Forse per uscire dal corto-circuito logico-emozionale che questa decisione suscita, sarebbe necessario forgiare una “morale provvisoria”, al fine di valutare con distacco fatti e argomenti giuridici, emozioni umane e ragioni del diritto. Il primo criterio di una simile morale – per citare il suo autore –, consiste nel rispettare le leggi e i costumi del proprio Paese, non pedissequamente, ma in maniera prudenziale:

Non che disapprovassi le leggi che consentono di prendere impegni o fare contratti che obbligano a non cambiare idea, […] ma vedendo che nessuna cosa al mondo permane nello stesso stato, e, quanto a me, essendomi ripromesso di perfezionare sempre più i miei giudizi e non di renderli peggiori, avrei pensato di peccare gravemente contro il buon senso se, per il solo fatto di approvare allora qualcosa, mi fossi obbligato a considerarla buona anche in seguito quando avrebbe forse cessato di esserlo o avessi smesso di ritenerla tale[3].

La legge Leonetti, ci dice la Corte, è una buona legge, conforme alla CEDU e capace di risolvere in maniera prudenziale il caso concreto, anche se è una legge che risolve i conflitti affidandosi non alla prudenza del giurista, ma al sapere del tecnico (il medico) che si conforma a parametri di razionalità e che non prende minimamente in considerazione la possibilità che possano esistere forme altre di coscienza, diverse da quelle che il modello scientifico gli offre inequivocabilmente. Ma il diritto non è soltanto tecnica, procedura e norma: dovrebbe essere anche qualcosa di più, esperienza, vita, ragionevolezza, valutazione prudenziale. Ed è forse di questo quid pluris che la Corte avrebbe dovuto (anche) tenere conto per risolvere questo caso.


[1] La disposizione citata così recita: “Saisi d’une demande en ce sens justifiée par l’urgence, le juge des référés peut ordonner toutes mesures nécessaires à la sauvegarde d’une liberté fondamentale à laquelle une personne morale de droit public ou un organisme de droit privé chargé de la gestion d’un service public aurait porté, dans l’exercice d’un de ses pouvoirs, une atteinte grave et manifestement illégale. Le juge des référés se prononce dans un délai de quarante-huit heures”.

[2] Al riguardo, la normativa francese prevede che “Toute personne a, compte tenu de son état de santé et de l’urgence des interventions que celui-ci requiert, le droit de recevoir les soins les plus appropriés et de bénéficier des thérapeutiques dont l’efficacité est reconnue et qui garantissent la meilleure sécurité sanitaire au regard des connaissances médicales avérées. Les actes de prévention, d’investigation ou de soins ne doivent pas, en l’état des connaissances médicales, lui faire courir de risques disproportionnés par rapport au bénéfice escompté.  Ces actes ne doivent pas être poursuivis par une obstination déraisonnable. Lorsqu’ils apparaissent inutiles, disproportionnés ou n’ayant d’autre effet que le seul maintien artificiel de la vie, ils peuvent être suspendus ou ne pas être entrepris. Dans ce cas, le médecin sauvegarde la dignité du mourant et assure la qualité de sa vie en dispensant les soins visés à l’article L. 1110-10 (…).  Toute personne a le droit de recevoir des soins visant à soulager sa douleur. Celle-ci doit être en toute circonstance prévenue, évaluée, prise en compte et traitée.  Les professionnels de santé mettent en oeuvre tous les moyens à leur disposition pour assurer à chacun une vie digne jusqu’à la mort” (L. 1110-5 del Codice di Sanità pubblica, così come modificato dalla legge del 22. 04. 2005, meglio nota come Loi Leonetti).

[3] Così Cartesio, in un passaggio del suo Discorso sul metodo.