L’emergenza sanitaria e il puzzle della gestione territorialmente differenziata

L’emergenza sanitaria con cui facciamo i conti da alcuni mesi ha, in breve tempo e del tutto inaspettatamente, raggiunto un’intensità tale da catapultare nell’ordinamento una disciplina limitativa dei diritti, la cui portata, sia in verticale, per la profondità della compressione, sia in orizzontale, per il numero di diritti coinvolti, non ha precedenti nella storia repubblicana.
A contrassegnare questa, rispetto alle altre, cicliche, emergenze fin qui susseguitesi, è l’impatto che essa ha sul territorio nazionale, al tempo stesso uniforme eppure straordinariamente differenziato per aree geografiche.
Non sorprende quindi che, sulle prime, sia stato lo stesso governo nazionale a chiamare il sistema delle autonomie a fare rete, invitando le autorità regionali e locali ad adottare misure restrittive ad intensità variabile a seconda dell’apprezzamento decentrato effettuato sui singoli territori.
È evidente, però, che un modello policentrico di gestione dell’emergenza sanitaria, nel quale si rimetta a non meglio specificate «autorità competenti» il più ampio potere di valutazione sull’opportunità di «adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica», ammettendo finanche «ulteriori misure» rispetto a quelle esemplificativamente riportate (artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, del d.l. n. 6 del 23 febbraio 2020, convertito con l. n. 13 del 5 marzo 2020), possa fatalmente condurre – ed ha in effetti condotto – ad un cortocircuito.
Al disinnesco del quale avrebbe dovuto provvedere il successivo decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020 (convertito con l. n. 35 del 22 maggio 2020), che, però, traccia due diversi percorsi per le autorità regionali e per quelle locali.
Infatti, a livello locale, il decreto prevede che i sindaci possano sì adottare ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza, purché, «a pena di inefficacia», non si pongano «in contrasto con le misure statali, né [eccedano] i limiti di oggetto cui al comma 1» (art. 3, comma 2), mentre alle Regioni, «in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso» viene concesso il ben più incisivo potere di introdurre – suppletivamente, in attesa dei dd.PP.CC.MM. – «misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all’articolo 1, comma 2, esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale» (art. 3, comma 1).
Cosicché, mentre rispetto alle ordinanze sindacali pare volersi instaurare una qualche forma di subordinazione gerarchica nei confronti dei provvedimenti statali, ritagliando per i Comuni un profilo essenzialmente esecutivo, lo stesso non avviene per le Regioni.
Il che non era scontato. È appena il caso di osservare, infatti, che l’orientamento della Corte costituzionale sulla capacità dei provvedimenti contingibili e urgenti dei Presidenti di Regione, variamente denominati, di produrre effetti derogatori della legislazione vigente è apparso alquanto oscillante.
Difatti, se dapprima, all’indomani dell’entrata in vigore del novellato titolo V Cost., la Corte costituzionale non ha negato al Presidente della Giunta il potere di derogare all’ordinario assetto delle competenze delle strutture chiamate ad operare in caso di eventi calamitosi (sent. n. 327 del 2003) – lasciando, così, presagire un possibile mutamento di rotta favorevole alle Regioni –, in un secondo tempo, invece, ha ribadito la consueta chiusura, escludendo «che il riconoscimento di poteri straordinari e derogatori della legislazione vigente [potesse] avvenire da parte della legge regionale» (sentt. nn. 82 del 2006 e 284 del 2006). Ne è conseguita la perdurante validità della scelta operata, vigente il vecchio regime, dal legislatore nazionale, con cui si riservano, in assoluto, tali prerogative allo Stato (artt. 107, comma 1, lettere b) e c), del d.lgs. n. 112 del 1998), per effetto del loro affermato «rilievo nazionale» (sentt. nn. 82 e 284 del 2006), anche nell’eventualità in cui gli interessi coinvolti siano, di fatto, circoscritti ad una mera dimensione locale. Più di recente, segnando una – solo apparente – svolta, la Corte ha riconosciuto che, in relazione agli eventi calamitosi per i quali sia stato dichiarato lo stato di emergenza, gli interventi delle Regioni possano «essere effettuati anche in deroga alle disposizioni vigenti, secondo le prescrizioni di volta in volta stabilite dalle ordinanze di protezione civile, nei limiti e con le modalità indicate dallo stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea, in ragione di quanto previsto dall’abrogato art. 5 della legge n. 225 del 1992 e attualmente dall’art. 25 del d.lgs. n. 1 del 2018» (sent. n. 44 del 2019). A ben guardare, si tratta di deroghe alla disciplina statale ammesse in quanto trovino la propria «fonte, in effetti, in altre disposizioni statali semplicemente richiamate» (sent. n. 44 del 2019) dalla disciplina regionale.
Ne risulta l’apertura a strumenti emergenziali comunque depotenziati rispetto agli omologhi nazionali, in quanto privi della caratteristica che fa la fortuna di questi ultimi: la capacità di derogare – senza, si badi, interposizioni legislative – alla normativa primaria vigente.
Su questa scia, per far fronte all’emergenza sanitaria, la “copertura” alle eventuali ordinanze regionali suppletive – motivate dall’esigenza di fronteggiare specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario, e, perciò, ulteriormente restrittive dei diritti costituzionali (art. 3, comma 1, d.l. 19) – dovrebbe essere offerta dal decreto-legge “autorizzativo” n. 19.
Si è, quindi, data la stura ad una varietà di ordinanze regionali, che, in deroga ai provvedimenti statali più permissivi, ora hanno esteso la sospensione delle attività a quelle legali e contabili, salvo alcune eccezioni (decreto Regione Piemonte n. 34 e ordinanza Regione Lombardia n. 514, ambedue del 21 marzo 2020), ora hanno vietato ogni attività motoria all’aperto anche in forma individuale (ordinanza Regione Sicilia n. 6 del 19 marzo 2020), ora hanno prescritto l’uso di mascherine al di fuori dell’abitazione (ordinanza Regione Lombardia n. 528 dell’11 aprile 2020), ora hanno imposto l’estemporanea chiusura delle scuole e delle università prescritta nelle marche.
Pur volendo lasciare sullo sfondo la questione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, non si può non prendere atto che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente riconosciuto – non sempre in modo convincente – la spettanza statale dei poteri connessi alla deliberazione dello stato di emergenza sulla base del presupposto che, pur nel rovesciamento dell’enumerazione, la previsione della “protezione civile” tra le materie di potestà legislativa concorrente offrirebbe un rinnovato fondamento alla «specifica competenza» dello Stato «a disciplinare gli eventi di natura straordinaria» (sent. n. 284 del 2006).
Di fronte all’attuale emergenza sanitaria, tuttavia, sembra più convincente individuare nel principio di sussidiarietà il fondamento della gestione emergenziale, che ben si attaglia a perseguire quel «nesso di congruità e proporzione fra le misure adottate e la “qualità e natura degli eventi”» (sent. n. 127 del 1995), varie volte evocato dalla stessa Corte costituzionale.
Ciononostante, occorre constatare che la disciplina statale appare espressiva di una declinazione del principio di sussidiarietà piuttosto minimale.
Alle Regioni, infatti, viene concesso di esercitare funzioni in emergenza, instaurando regimi giuridici d’eccezione localmente circoscritti, allo scopo di realizzare una più intensa tutela del diritto alla salute, la quale, in mancanza di parametri elaborati nei decreti-leggi per procedere ad un qualsivoglia bilanciamento, viene aprioristicamente e presuntivamente individuata nella previsione di misure più restrittive di quelle statali.
Si è così trascurato che a ogni ulteriore misura di contenimento corrisponde la ulteriore restrizione di un diritto costituzionale: dalla libertà di circolazione alla libertà da prestazioni, dal diritto all’istruzione all’iniziativa economica privata, dalla libertà religiosa a quella di riunione, per non parlare della libertà personale, alla cui limitazione, secondo quanto sostenuto da parte della dottrina, parrebbero provvedere alcune delle misure introdotte.
Misure di contenimento, quelle regionali, che si presentano affette dalla medesima patologia che affligge anche quelle nazionali introdotte con il tandem decreto-legge/d.P.C.M., ovverosia il mancato rispetto delle garanzie costituzionali, ed in particolare delle riserve di legge, siano esse assolute o relative.
Con buona pace della giurisprudenza costituzionale in materia, in base alla quale quand’anche si renda necessaria l’adozione, da parte delle autorità amministrative, di provvedimenti emananti per motivi di necessità ed urgenza, questi non potrebbero prescindere da «una specifica autorizzazione legislativa che però, anche se non risulti disciplinato il contenuto dell’atto (che rimane, quindi, a contenuto libero), indichi il presupposto, la materia, le finalità dell’intervento e l’autorità legittimata. Inoltre, i provvedimenti [dovrebbero] adeguarsi alle dimensioni territoriali e temporali della concreta situazione di fatto che si deve fronteggiare» (sent. n. 617 del 1987).
In mancanza, è la stessa riserva di legge ad essere violata, mentre l’atto amministrativo finisce per disporre direttamente – seppure non l’abrogazione – pur sempre la sospensione, temporalmente delimitata, di norme costituzionali.
Ma non è tutto.
In contrasto con la temporaneità prescritta dallo stesso decreto-legge “autorizzativo”, è sempre un d.P.C.M. a disporre la proroga dell’efficacia delle misure disposte dalle ordinanze regionali, manifestando, così, la problematica “aspirazione” di produrre un effetto sanante che appare però decisamente ultra vires (art. 8, comma 3, d.P.C.M. 10 aprile 2020).
L’inadeguatezza della formula di sussidiarietà applicata dal decreto-legge autorizzativo si è poi manifestata, con accresciuto vigore, all’avvicinarsi della cosiddetta “fase due”, nel momento in cui, seguendo un percorso uguale e contrario al precedente, sono progressivamente affiorate ordinanze regionali meno restrittive di quelle statali, motivate dai differenti livelli di contagio a livello locale. Ne è scaturita una vivace conflittualità tra Stato e Regioni.
Basti ricordare l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria n. 37 del 29 aprile 2020 con la quale è stata disposta «la ripresa delle attività di bar, pasticcerie, ristoranti, pizzerie, agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto» (punto n. 6) in contrasto con la disposizione di cui all’art.1, comma 2, lett. v) del d.l. 19 del 2020. A stretto giro e con maggiore ampiezza dispone, ma con legge, la Provincia di Bolzano (l. prov. n. 4 del 2020), sebbene analoghi allentamenti siano previsti a macchia di leopardo in varie Regioni (tra le altre, ordinanza Presidente Giunta regionale Emilia-Romagna n. 74 del 30 aprile 2020 in relazione all’allenamento in forma individuale di atleti professionisti e non professionisti riconosciuti di interesse nazionale, ordinanza Regione Lombardia n. 528 dell’11 aprile 2020, sulla consegna a domicilio da parte degli operatori commerciali al dettaglio per tutte le categorie merceologiche, anche se non comprese nell’allegato 1 del d.P.C.M. del 10 aprile 2020).
Tuttavia, stando alla disciplina nazionale, tali provvedimenti regionali, in quanto predispongano un allentamento delle misure di contenimento e, con ciò, riespandano il godimento di taluni diritti, dovrebbero ritenersi presuntivamente in danno della salute pubblica.
Del resto, non può sottovalutarsi che il potere di ordinanza riconosciuto alle Regioni dal decreto-legge n. 19 è pur sempre unidirezionalmente circoscritto all’esigenza di fronteggiare «specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso», dovendosi, dunque, escludere che possa essere esercitato per paralizzare gli effetti dei provvedimenti statali nel perdurare dello stato di emergenza.
Non resta, quindi, che augurarsi che possa essere il decreto-legge n. 33 del 16 maggio 2020 a segnare una svolta nei rapporti tra Stato e Regioni, laddove si prevede che «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, la Regione, informando contestualmente il Ministro della salute, [possa] introdurre misure derogatorie, ampliative o restrittive, rispetto a quelle disposte ai sensi del medesimo articolo 2» (art. 1, comma 16).