Matrimonio same-sex celebrato all’estero e “downgrading” in unione civile: una prima lettura di Cass. 14 maggio 2018, n. 11696

Con sentenza n. 11696 del 14 maggio 2018 (corretta in due errori materiali con decreto del 25 maggio 2018), la Corte di cassazione ha esaminato, per la prima volta, l’art. 32-bis della l. 218/1995 («Matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso. Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana»), dovendo decidere se il downgrading di quella disposizione si applichi anche ai matrimoni contratti all’estero da persone dello stesso sesso, per l’ipotesi in cui l’unione coniugale sia stata contratta non tra cittadini italiani, ma da un cittadino italiano con un cittadino straniero (in altri termini, da una c.d. «coppia mista»).
La Corte ha offerto risposta positiva, predicando l’«applicabilità diretta» dell’art. 32-bis a tutte le fattispecie matrimoniali same-sex costituite all’estero in cui sia cittadino straniero anche uno solo dei due coniugi.
Nel proprio ragionamento, il Giudice di legittimità – dopo aver stabilito che, nei procedimenti di rettificazione degli atti dello stato civile, il Sindaco (nella sua qualità di ufficiale del governo e dello stato civile ex art. 1, co. II, D.P.R. 396/2000) non è parte necessaria, così dirimendo una questione di non poco conto – muove da un preciso presupposto: negare l’applicazione della legge 76/2016 e delle norme di conflitto introdotte dal decreto n. 7/2017 a matrimoni stranieri formati prima dell’entrata in vigore di quelle disposizioni, secondo quanto prospettato dalla coppia ricorrente, significherebbe privare di tutela i coniugi e, così, discriminarli rispetto a chi abbia assunto il vincolo coniugale dopo quella data: secondo la Corte, infatti, l’atto sarebbe radicalmente “intrascrivibile”, secondo quanto statuito da Cass. 4184/2012.
L’assunto, a ben vedere, non sfugge da una critica. Se è vero, infatti, che nel 2012 la Corte si era espressa rispetto a un matrimonio same-sex contratto da una coppia esclusivamente italiana, è altrettanto vero che il decisum di quella pronuncia, oggetto di critiche severe da parte della dottrina, non può sbrigativamente predicarsi rispetto a una fattispecie diversa (i.e.: la “coppia mista”), dotata di un elemento di transnazionalità non creato elusivamente ad hoc (quale potrebbe risultare il locus di celebrazione dell’atto), ma agganciato alla lex patriae di uno dei coniugi.
La necessità di “garantire un grado di protezione dei diritti individuali e relazionali tendenzialmente omogeneo a quelle coniugali”, in altri termini, avrebbe potuto essere soddisfatta senza far ricorso a un allargamento dell’ipotesi di downgrading in unione civile previsto dall’art. 32-bis, ma attraverso il superamento della pronuncia n. 4184/2012, alla luce dell’ormai incontrovertibile non contrarietà all’ordine pubblico del matrimonio same-sex e ai sensi del novellato art. 63, comma II, lett. c-bis del D.P.R. 396/2000 che rende testualmente trascrivibile quell’atto nel generale archivio informatico di cui all’art. 10 del D.P.R. 396/2000.
La Corte di cassazione, invece, condividendo la soluzione offerta dalla pronuncia n. 4184/2012, ha fatto di quest’ultima un postulato e, così, ha giustificato l’applicazione del regime giuridico vigente al momento della decisione sulla base dell’incompatibilità costituzionale di “una soluzione che, solo in virtù di una preclusione temporale, potrebbe impedire il riconoscimento di effetti giuridici all’interno del nostro ordinamento a cittadini italiani e stranieri”. Caduto, però, quel postulato, profondamente diversi sarebbero stati i corollari giudiziari e il conseguente rispetto dello status coniugale, quanto meno ai fini dichiarativi e certificativi propri della trascrizione, com’è noto priva di efficacia costitutiva.
Ciò posto, dinanzi alla tendenziale equiparazione di tutela tra coppie coniugate e coppie unite civilmente assicurata non solo dal potentissimo comma 20 della legge 76/2016, ma anche dalla “funzione adeguatrice della giurisprudenza”, chiamata a intendere la disciplina codicistica del rapporto matrimoniale alla stregua di parametro di riferimento antidiscriminatorio” (così pag. 21 della sentenza in commento), la Corte di cassazione reputa pacifico che, ai sensi dell’art. 32-bis, nell’ipotesi in cui l’atto di matrimonio same-sex sia formato all’estero da due cittadini entrambi italiani esso produce, nello Stato italiano, gli effetti propri dell’«unione civile» e deve essere trascritto nel “registro delle unioni civili”, ai sensi dell’art. 134-bis, comma III, lett. a) del R.D. 1238/1939: si attua, cioè, una riqualificazione dell’atto e una sottoposizione al diritto materiale italiano.
E, sempre ai sensi dell’art. 32-bis, la Corte, del tutto condivisibilmente, statuisce che i matrimoni tra cittadini stranieri sfuggano a quella disposizione: il carattere “intrinsecamente transnazionale” esclude, infatti, un “intento di aggiramento della L. n. 76 del 2016 e del modello di unione civile vigente nel nostro ordinamento”, perché il matrimonio tra stranieri è “caratterizzato da un sufficiente grado di estraneità rispetto al nostro ordinamento”. Quei matrimoni, dunque, devono essere trascritti nei registri di matrimonio.
Estendendo, però, la portata applicativa dell’art. 32-bis, la Corte di cassazione afferma la riconducibilità a quest’ultima anche del caso dei matrimoni misti, sulla base di tre argomenti: quello letterale (l’impiego nell’art. 32-bis della preposizione “da” e non di quella “tra”, utilizzata nell’art. 32-quinquies della l. 218/1995), quello relativo alla coerenza dell’ordinamento (se non si estendesse l’art. 32-bis anche alle coppie miste si creerebbe un “conflitto non risolvibile” circa la forma e gli effetti della trascrizione dell’atto contratto all’estero, dacché l’art. 27 della legge 218/1995 rinvia alla legge nazionale di ciascuno dei nubendi) e quello della “discriminazione a rovescio” («se l’art. 32 bis non si applicasse anche ai cd. matrimoni “misti” […] si determinerebbe una discriminazione cd. “a rovescio” tra i cittadini italiani che hanno contratto matrimonio all’estero e possono “trasportare” forma ed effetti del vincolo nel nostro ordinamento e quelli che hanno contratto un’unione civile in adesione al modello legislativo applicabile nel nostro ordinamento»).
Al riguardo, pare consentito di muovere qualche osservazione critica.
Da un lato, infatti, l’interpretazione testuale fatta propria dalla Cassazione non considera la travagliata genesi della disposizione, che ha sostituito all’originaria locuzione “persone” dello stesso sesso quella di “cittadini” dello stesso sesso; dall’altro lato, la rubrica della disposizione (che recita, al plurale, “Matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso” e non, al singolare, “da un cittadino italiano”) individua evidentemente una coppia coniugata di cittadini italiani; quanto, poi, alla ratio della disposizione, la Suprema Corte sembra davvero dimenticare che il matrimonio misto non è contratto per eludere la legge italiana, ma nell’esercizio di un diritto soggettivo facente capo a uno dei due coniugi, riconosciuto espressamente dall’art. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e manifestazione del diritto fondamentale al rispetto della propria vita privata e familiare tutelato dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e dall’art. 8 della predetta Convenzione.
Si tratta, cioè, di un matrimonio caratterizzato non dalla volontà della coppia di “aggirare” la normativa italiana, ma contraddistinto da un elemento di transanzionalità che, lungi dall’essere creato ad hoc, è agganciato alla legge nazionale di uno dei coniugi e, dunque, all’esercizio di un diritto fondamentale: non si capisce, allora, come possa configurarsi una discriminazione “a rovescio”, dal momento che le situazioni poste a raffronto dalla Corte (coppia di cittadini italiani e coppia mista) non sono, a tutta evidenza, omogenee.
Infine, con riguardo all’argomento speso intorno all’art. 27 l. 218/1995, non si comprende perché esso debba reputarsi ostativo alla trascrizione: quell’atto, infatti, alla stessa stregua del matrimonio contratto tra cittadini stranieri residenti in Italia, è “esistente come atto di matrimonio” (v. Cass. 4184/2012), non è contrario all’ordine pubblico e, per la legge italiana, può senz’altro produrre gli effetti dichiarativi propri della trascrizione, anche solo in ragione della legge delega portata dal comma 28 (che certamente lo attrae nel suo ambito di applicazione).
Inoltre, last but not least, la Corte ha trascurato che l’art. 32-bis, esprimendo una norma di conflitto c.d. unilaterale, volta a designare unicamente la legge italiana per la regolamentazione di una fattispecie transnazionale, avrebbe dovuto essere intesa come norma eccezionale rispetto a quelle classiche cc.dd. “bilaterali”, tese a rendere indifferentemente applicabile il diritto interno o quello straniero a seconda del modo di atteggiarsi delle circostanze assunte come criteri di collegamento.
In quanto eccezionale, essa avrebbe dovuto essere interpretata restrittivamente, anche alla luce della sua ratio volta esclusivamente a neutralizzare comportamenti fraudolenti.
In definitiva, alla luce di quanto brevemente osservato non può che esprimersi perplessità circa la soluzione della Corte: la trascrizione dell’atto di matrimonio misto dovrebbe, infatti, compiersi nel registro di matrimonio di cui al n. 1 dell’art. 14 del R.D. 1238/1939, ai sensi del vigente art. 125, comma V, n. 1) del medesimo R.D. 1238/1939, con conseguente produzione degli effetti certificativi tipici della trascrizione dell’atto matrimoniale, restando esclusa l’applicazione della disciplina dell’unione civile.
A ragionare diversamente, dovrebbe reputarsi “elusivo” della legge italiana … innamorarsi di una persona straniera. Con buona pace, per usare le parole del più che mai compianto Stefano Rodotà, del “diritto d’amore”.

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