Obama e la politica antiterrorismo

Negli ultimi mesi, la promozione dei diritti da parte della Presidenza Obama ha avuto risonanza in Italia soprattutto per l’importante riforma sanitaria e per il sostegno espresso a favore delle coppie omosessuali.

Meno seguito è stato forse un altro aspetto della sua azione di governo con implicazioni per i diritti, e cioè quello della politica antiterrorismo, che sollecita immediatamente un confronto con il suo predecessore. Negli Stati Uniti, la materia continua ad essere coperta sia dalla stampa che da gruppi di specialisti.

Tra i volumi usciti negli ultimi mesi sul tema, si segnalano Jack Goldsmith, Power and Constraint. The Accountable Presidency after 9/11, New York and London, W.W. Norton & Company, 2012, pp. 311 e Jonathan Hafetz, Habeas Corpus after 9/11. Confronting America’s New Detention System, New York and London, New York University Press, 2011, pp. 320.

Si tratta di studiosi di provenienza diversa. Il primo, professore ad Harvard e conservatore moderato, ha diretto l’Office of Legal Counsel del Department of Justice dell’amministrazione Bush tra il 2003 e il 2004, distinguendosi per aver ritirato gli assai contestati torture memos redatti dal medesimo ufficio prima del suo arrivo (la vicenda è ricostruita da Goldsmith in The Terror Presidency, W.W. Norton & Company, 2007). Il secondo è associate professor alla Seton Hall University (New Jersey) e avvocato impegnato nella difesa dei diritti dei detenuti a Guantánamo.

L’approccio dei due libri è inevitabilmente differente, ma entrambi gli Autori mettono in evidenza alcuni profili di continuità tra le politiche dell’ultima fase della presidenza Bush e quelle di Obama. Fra questi, occorre ricordare il mantenimento sia della detenzione esecutiva a Guantánamo che delle commissioni militari. Se il presidente Obama non ha chiuso la base militare sul territorio cubano, come si era impegnato a fare pochi giorni dopo il suo insediamento, ciò è dovuto soprattutto agli ostacoli frapposti dal Congresso, che non ha acconsentito al finanziamento di soluzioni alternative. Ma, come risulta da diversi atti ufficiali e comportamenti dell’amministrazione, quest’ultima non avrebbe comunque rinunciato ad avvalersi della detenzione esecutiva per gli individui considerati più pericolosi.

Goldsmith ritinene che le misure adottate da Obama – al pari di quelle dell’ultimo Bush – siano giustificate dal buon funzionamento dei checks and balances dopo il primo biennio della presidenza Bush: non solo il Congresso e le corti federali (tra cui soprattutto la Corte suprema), ma anche la stampa, le associazioni non governative e gli organi di controllo interni all’amministrazione avrebbero introdotto e rafforzato una serie di limiti agli eccessi delle politiche presidenziali, contribuendo col tempo a consolidarne la legittimazione. Benché non costituisca l’obiettivo prioritario dell’Autore, dalla sua ricostruzione emerge un ridimensionamento delle tesi sulla tendenza verso una deriva autoritaria (oltre che “imperiale”) della presidenza,  formulate più recentemente da Bruce Ackerman e Peter Shane.

L’analisi di Hafetz è incentrata sul writ di habeas corpus come principale strumento di controllo delle detenzione illegittime (si tratta di un filone in forte crescita negli ultimi anni). Pur valorizzando l’estensione della giurisdizione di habeas assicurata dalla Corte Suprema – da ultimo con la sentenza Boumediene –, l’Autore richiama l’attenzione sui vuoti di tutela che tuttora permangono. Il writ di habeas non si applica infatti alla base di Bagram in Afghanistan (dove sono custoditi circa tremila prigionieri), alle prigioni segrete all’estero (non del tutto soppresse da Obama), alle detenzioni c.d. proxy e alle extraordinary renditions. Hafetz esamina inoltre i casi decisi dalle corti inferiori – prevalentemente nel District of Columbia – dopo Boumediene, evidenziando alcuni punti critici di questa giurisprudenza. Diversamente da Goldsmith, gli aspetti di continuità con la politica di Bush vanno ravvisati per Hafetz nella tendenza di ogni amministrazione, durante le emergenze e con il consenso della popolazione, ad «iperreagire» in nome della sicurezza, sottraendosi a limiti e controlli costituzionali.

Resta, comunque, un aspetto profondamente problematico della presidenza Obama: il ricorso al targeted killing (uccisione mirata) di terroristi mediante aerei telecomandati (drones), in paesi lontani dal campo di battaglia (soprattutto in Yemen). Tra le vittime, ci sono anche alcuni cittadini americani. Incalzata dalla stampa e dalle associazioni per i diritti civili, l’amministrazione ha ammesso di avvalersi di questa tecnica (in misura anche maggiore rispetto all’amministrazione Bush), ma si è rifiutata di rilasciare il memorandum dell’OLC in cui viene esaminata (e, si deve ipotizzare, giustificata) la sua legittimità. Non solo il targeted killing può pregiudicare i diritti costituzionali (anzitutto il due process) e il rispetto delle norme internazionali, ma anche, se avvolta dal segreto, il principio di trasparenza, su cui lo stesso Obama aveva insistito al fine di rafforzare il controllo democratico sull’attività dell’esecutivo. Probabilmente, date le crescenti critiche da parte dell’opinione pubblica, l’amministrazione cercherà di “autocorreggere” questa linea, o vi sarà costretta dalle corti.

E, tuttavia, il percorso appare ancora lungo se, ancora pochi giorni fa, un giudice distrettuale di New York ha respinto la richiesta ai sensi del FOIA, formulata da due giornalisti del New York Times e dall’ACLU, di accedere al memorandum in questione, pur ammettendo il carattere «paradossale» della propria decisione (US District Court, Southern District of New York, New York Times co., C. Savage and S. Shane v. US Department of Justice, del 2 gennaio 2013).