Per una decostruzione del principio del “superiore interesse del minore”

[Recensione a E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Franco Angeli, 2016]

Il tema affrontato dal libro di Elisabetta Lamarque “Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale” è senz’altro fra i più complicati e difficili da maneggiare.
Lo è, innanzitutto, per la molteplicità dei livelli che occorre tenere congiuntamente in considerazione, dal momento che il principio (o forse, come si vedrà, il criterio o, forse ancora, l’argomento) dei best interests of the child trova enunciazione in Carte interne, sovranazionali ed internazionali con varia modulazione ed ancor più varia attuazione legislativa ed applicazione giurisprudenziale. Varietà della quale il volume tiene conto dedicando i capitoli secondo e terzo alla declinazione del principio, rispettivamente, nell’ordinamento convenzionale e nell’ordinamento dell’Unione europea. Si tratta di problematica, certo, comune oramai a quasi tutti i settori del diritto e ai più diversi ambiti normativi, stante l’odierna profonda ed inestricabile interconnessione fra tessuti ordinamentali di varia fattura e provenienza. Quel che, però, qualifica in maniera particolare tale interconnessione in sede di applicazione del principio in parola è la sua combinazione ad – almeno – altri due elementi di complessità: una complessità semantico-concettuale e una complessità pragmatica o materiale.

La complessità semantica – che tradisce (talvolta) e trasmoda (talaltra) in complessità concettuale – scaturisce innanzitutto dall’eterogeneità delle formule delle quali la normativa e la giurisprudenza dei vari livelli interessati fanno uso per riferirsi apparentemente al medesimo principio. Il libro di Elisabetta Lamarque non manca di dissezionare queste formule per disvelarne il diverso portato valoriale, normativo e argomentativo; e lo fa a partire proprio dalla formula prescelta per il sottotitolo del volume (best interests of the child) che, declinando al plurale gli interessi del bambino da tenere in considerazione nella ponderazione legislativa o giurisprudenziale, «richiede quindi semplicemente che i “migliori” – e cioè i più significativi, i più importanti – tra i numerosi interessi/esigenze/bisogni del bambino siano tenuti in conto e garantiti da chi deve decidere»[1]. Inoltre, osserva Lamarque, l’uso del superlativo relativo si muove all’interno del novero degli interessi del bambino, «interessi dei quali i più importanti devono essere considerati e protetti»[2].
Ben diversa è la locuzione oggi maggiormente diffusa fra i giudici e la dottrina italiani, ossia quella di “superiore” o “preminente” “interesse del minore”. Diversa sia perché la comparazione viene declinata in termini gerarchizzanti, sia perché non viene più riferita ai vari interessi del bambino, ma – al singolare – all’“interesse del minore”, ossia al «complessivo pacchetto di interessi/esigenze/bisogni, e forse anche diritti»[3], da compararsi all’esterno con quelli degli altri soggetti di volta in volta coinvolti.
Tutto cambia, insomma, con l’aggravante che le complessità semantico-concettuali così individuate risultano moltiplicate, nei diversi livelli di cui si diceva in apertura, da traduzioni talvolta improprie delle carte sovranazionali[4].
Ora, mentre della diversa valenza del superlativo con cui si aprono tali formule si sono avveduti i redattori della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 – i quali hanno deciso di attenuare la paramountcy disposta nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 in semplice primacy proprio per impedire che i bisogni di un soggetto (il minore) potessero vantare pretese assolutizzanti rispetto a tutte le altre eventualmente comparate – meno indagata è solitamente la portata dirompente dell’uso del “singolare generale” (“interesse”)[5]. Proprio qui, invece, Elisabetta Lamarque individua acutamente il punto di partenza della «deriva retorica» nell’uso del principio, cui il libro dichiara guerra sin dalle sue prime pagine.
Tutte queste ambiguità scorrono come un fiume carsico al di sotto della questione cruciale che il libro affronta, ossia: qual è il migliore interesse del minore? O, meglio, chi è deputato a decidere quale sia il migliore interesse del minore?
La prima domanda, ovviamente, pone l’Autrice dinnanzi all’immenso problema del relativismo culturale, che impone di misurarsi con diverse concezioni di migliore interesse del minore e dunque, con una possibile interpretazione del principio secondo cui esso «autorizzerebbe gli Stati (…) a introdurre misure che altrove nel mondo sono percepite come gravemente lesive dei minori stessi, oppure a non introdurre divieti che invece in altre parti del globo sono ritenuti necessari» (le punizioni corporali, da alcune culture ritenute utili all’educazione del minore; la mancata previsione dell’obbligo scolastico per le bambine, ove si ritenga che la loro formazione possa essere meglio assicurata dal pieno apprendimento delle attività casalinghe)[6]. Verrebbe da aggiungere che il problema del relativismo culturale si presenta talvolta anche a parti invertite, come, ad esempio, quando l’ordinamento pretende di applicare a minori stranieri la normativa prevista per i minori italiani, senza considerare che le condizioni di vita nel paese di provenienza o l’esperienza della migrazione (troppo sovente solitaria) hanno prodotto una precoce crescita della persona[7] e che le esigenze sono pertanto estremamente differenti da quelle cui il sistema italiano risponde, dando così vita ad enormi fenomeni di dispersione e fughe dai centri di accoglienza e dalle scuole che tutto assicurano fuorché il perseguimento dei loro migliori interessi[8].
La seconda domanda, invece, chiama in causa la stessa visione del minore che viene accolta dall’ordinamento, dalla società e dalla cultura di riferimento, seguendo un circolo performativo che perpetuamente si sviluppa fra l’uno e le altre. È senz’altro questo il terreno prescelto dal libro come principale fronte della guerra all’uso retorico del principio dei best interests of the child, poiché qui si scontrano le concezioni di matrice polacca, di cui l’eminente pedagogo Janusz Korczak porta il vessillo lungo le splendide pagine di apertura del volume[9], e quelle di matrice anglo-americana, ove invece è una inedita rappresentazione della figura della fondatrice di Save the Children a stagliarsi sullo sfondo[10]: concezioni confluite entrambe, come ben si ricostruisce nel corso del primo capitolo, nella Convenzione ONU sui diritti del fanciullo.
Qui il libro, che dichiara sin dal principio l’impossibilità di affrontare il tema senza attingere alla scienza medico-pedagogica e sociale, alla filosofia, alla letteratura e alla poesia, mantiene tutte le promesse fatte, passando per la celebre poesia di Wisława Szymborska che, utilizzando la foto del piccolo Hitler, smonta «con ferocia la retorica» del minore[11], per poi condurre il lettore in un affascinante viaggio dentro le scelte del pedagogo polacco che, prima ancora di Maria Montessori, ha predicato e praticato la necessità di guardare al minore come persona presente, dotata di propri interessi, bisogni e diritti, e non già come simbolo di speranza nel futuro o come fulcro delle aspettative che l’adulto ripone nel suo avvenire (magari utilizzando la costruzione di quelle aspettative come alibi per eludere il proprio impegno di cambiamento qui ed ora), sino a rivendicare il diritto del bambino non solo a vivere la vita presente e ad essere quello che è, ma anche – prima di tutto – il suo diritto a morire; diritto che, nella sua provocatorietà, vuole essere una dichiarazione di indipendenza dalle progettazioni altrui sulla sua vita.
Da un lato della trincea, dunque, vi è la visione dignitaria dei diritti, che ammette ed impone il loro riconoscimento in capo al minore, dall’altro il dibattito anglo-americano, che si divide fra coloro che sostengono la choice theory ed i sostenitori della interests theory e i teorici dei relational rights (che ancora svolgono per lo più una funzione oppositiva alle posizioni dominanti nella giurisprudenza e nella dottrina).
Ricomporre questa opposizione nei termini dicotomici ‘protezione vs autodeterminazione del minore’ sarebbe semplicistico, poiché questa opposizione assume tratti differenti a seconda che venga collocata nell’ambito privatistico delle relazioni adulto/minore o nell’ambito pubblicistico, ove a quelle relazioni si guarda dall’ottica del decisore pubblico. Ed è in quest’ultimo caso che risiede il cuore del problema giuridico della previsione ed attuazione del principio dei best interests of the child[12]: è migliore, al fine di assicurare i diritti dei minori, l’astensione del legislatore e del giudice oppure è indispensabile che il pubblico intervenga in tute
la della più debole posizione del minore, talvolta contro o in vece dell’adulto? È da quest’ottica, come spiega bene la Lamarque, ad emergere il carattere ancipite del principio, che da un lato tende verso la rigidità, quando concretizzato in disposizioni normative mentre, tutto all’inverso, richiede flessibilità quando riferito alle decisioni giudiziali[13].
Pensare allora di poter dare una risposta univoca alla domanda sul chi debba, di volta in volta, decidere quale sia il migliore interesse del minore – se il decisore pubblico (e in quest’ambito, se il legislatore o il giudice) o il privato (e qui, se l’adulto o il minore stesso) – appare impossibile o, di più, un approccio errato. Molto cambia, infatti, a seconda dell’età del minore, delle sue esperienze di vita, dell’oggetto del contendere, dell’area del diritto (civile, penale, amministrativo, processuale) e dell’istituto cui lo si debba applicare.
Ecco dunque il quadro delle complessità pragmatiche (o materiali) del concetto di best interests of the child. Un quadro che ci rappresenta il principio come un obbligo per tutti coloro che, di volta in volta, devono assumere la scelta relativa al minore, di seguire come criterio-guida quello dei suoi migliori interessi, ma che per il resto si atteggia come una scatola vuota, rimanendo silente circa chi siano i decisori, quale sia il migliore interesse, come esso possa essere meglio assicurato.
Insomma, mentre da un lato l’uso argomentativo del criterio può giovarsi della particolare forza – quasi incontrovertibile – della retorica dell’infanzia, dall’altro lato esso non impegna nei contenuti, consentendo all’interprete di piegarlo per le più diverse esigenze e per i più diversi fini. Questo, mi pare, il caveat, il più importante insegnamento che può trarsi dalle dense pagine del, pur all’apparenza sottile, lavoro della Lamarque e del quale i fatti dimostrano l’assoluta necessità.
Non è certo questa la sede per un esame approfondito delle ragioni di questa necessità, ma vorrei provare, almeno rapidissimamente e per soli cenni, a dimostrare quale rilevanza assumano le riflessioni dell’Autrice nel contesto giuridico italiano. La nostra Costituzione, infatti, non contiene un espresso riferimento al criterio dei best interests, ma diverse disposizioni che si occupano della posizione del minore, dalle quali la Corte costituzionale ha dedotto la sussistenza nel nostro ordinamento del principio del favor minoris[14] (locuzione ancora differente da quelle incontrate sopra e che, forse non a caso, è quella sovente utilizzata in dottrina come formula onnicomprensiva, in grado di importare i contenuti delle locuzioni sopranazionali ed internazionali senza impegnare circa la specifica attitudine e valenza del principio, ma che – è bene sottolineare – trova scarso utilizzo anche nella stesura delle decisioni costituzionali interne).
Ebbene, ad uno sguardo complessivo della giurisprudenza della Corte costituzionale che ha applicato, nei più vari settori del diritto ed ai più vari istituti, il principio del favor minoris emerge immediatamente un uso piuttosto disinvolto di formule di varia coloritura. Si va dal “superiore”, al “prevalente” o “preminente” interesse del minore (al singolare) che, con diversa intensità, introducono bilanciamenti ineguali con gli interessi contrapposti, per giungere sino all’“esclusivo” interesse del minore, che invece esclude la stessa bilanciabilità di quell’interesse e ne propone una versione assolutizzante[15]. Ad ulteriore dimostrazione dello sfuggente uso argomentativo del principio potrebbe poi osservarsi che esso non supera il test di coerenza applicativa: si pensi, fra i molti altri esempi che potrebbero farsi, alla variabilità delle decisioni riferite agli istituti adottivi[16] o alla nota vicenda del confronto fra visione della Corte costituzionale e visione della Corte di Strasburgo circa il migliore interesse del minore nel diritto a conoscere le proprie origini[17]. Ma simili test di coerenza potrebbero tentarsi per molti altri settori del diritto[18]. Bastino qui queste, pur laconiche, indicazioni per dimostrare quanto colga nel segno la denuncia dell’uso retorico del suddetto principio – o criterio, o argomento – nelle faccende di casa nostra e ci si consenta solo un’ultima notazione: un test interessante potrebbe essere anche quello di verificare dove il principio non abbia trovato esplicitazione pur avendosi a che fare con vicende nelle quali erano coinvolti minori. Viene subito alla mente la monolitica giurisprudenza costituzionale riferita all’interruzione volontaria di gravidanza da parte della minore, ove si afferma la possibilità della ragazza di prendere autonomamente la decisione interruttiva, anche contro la volontà dell’esercente la potestà/responsabilità nei suoi confronti, e ove si sostiene che il giudice non può esercitare obiezione di coscienza, in quanto mero certificatore della sussistenza della volontà della minore e degli avvenuti controlli pubblici e medico-sanitari richiesti dalla legge. Ebbene, in questa giurisprudenza, che pur abbraccia diverse decisioni e copre un arco temporale significativo (che va dal 1981 al 2012)[19], non si menziona mai il principio del favor minoris in nessuna delle sue numerose declinazioni.
Sorge spontaneo domandarsi quale sia la ragione di questo inconsueto silenzio e quasi altrettanto spontaneo sospettare una certa timidezza, se non addirittura una resistenza, ad utilizzare il principio quando esso si riempia di contenuti non protettivi del minore, bensì assertivi della sua autodeterminazione. Se così è, si conferma ancora una volta l’acutezza di sguardo e la lucidità delle riflessioni di Elisabetta Lamarque.

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[1] E. Lamarque, Op. cit., 78.

[2] Loc. cit.

[3] Op. cit., 79.

[4] Accade così che la medesima disposizione possa acquistare differenti attitudini e sfumature a seconda del livello ordinamentale dal quale la si guardi, come nel caso dell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, indagato nel terzo capitolo del libro, che nella versione inglese recita “the child’s best interests must be a primary consideration” mentre nella versione italiana ufficiale diviene “l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente: Op. cit., 122 ss.

[5] Non è casuale, evidentemente, l’uso di un’espressione che per altri fini, ma con accenti e scopi probabilmente non dissimili da quelli del lavoro qui recensito, è stata utilizzata da J. Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it. a cura di M. Zanini, Milano, 2006, 80 s. e passim. Come in quel lavoro, infatti, si dimostra che il singolare generale (in vece non solo del plurale, ma anche del singolare particolare) abbia una portata mistificatrice e conduca ineluttabilmente verso una deriva retorica dei percorsi argomentativi.

[6] V. E. Lamarque, Op. cit., 73 s.

[7] Di minori adultizzati parlano, infatti, i sociologi e gli esperti del settore: v., fra i numerosi altri, G. Campani, Z. Lapov, F. Carchedi (a cura di), Le esperienze ignorate. Giovani migranti tra accoglienza, indifferenza, ostilità, Milano, 2003.

[8] Per i dovuti approfondimenti, sia consentito qui fare riferimento a T. Guarnier, La condizione giuridica dei minori stranieri non accompagnati in Italia: inadeguatezze e rischi del sistema di accoglienza, in M.C. De Cicco, A. Latino (a cura di), Temi attuali sui diritti sociali in un’ottica multidisciplinare, Napoli, 2016, 267 ss.

[9] E. Lamarque, Op. cit., 21 ss.

[10] Op. cit., 34 ss.

[11] Op. cit., 23.

[12] Op. cit., 54 ss.

[13] Op. cit., 16 e 65 s., ma v. anche L. Lenti, “Best interests of the child” o “best interests of the children”?, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 158 ss.

[14] Soprattutto tramite la combinazione dell’art. 2 Cost. con gli artt. 30 e 31 Cost. Cfr. in particolare Corte cost., sent. n. 11 del 1981.

[15] Cfr. Corte cost., nn. 182 del 1988, 536 del 1989 e 106 del 1990, ove la Corte ha affermato che il passaggio da una concezione privatistica ad una pubblicistica dell’adozione (operata dalla L. n. 184 del 1983) ha implicato anche uno spostamento del centro di gravità dalla considerazione del prevalente a quella dell’esclusivo interesse del minore.

[16] V., ad es., Corte cost., n. 415 del 2002, che muove in direzione differente dalle decisioni sopra citate e dove, infatti, l’argomento dell’interesse esclusivo del  minore non compare. Ma si pensi pure allo smantellamento del principio adoptio naturae imitatur, cui nella giurisprudenza costituzionale si arriva talvolta richiamando il favor minoris (cfr. Corte cost., nn. 148 del 1992, 303 del 1996, 362 del 1996, 10 e 349 del 1998, 283 del 1999 e 550 del 200) e talaltra senza dovervi ricorrere (cfr. Corte cost., nn. 183 del 1988 e 44 del 1990).

[17] Che in prima battuta aveva visto il nostro Giudice individuare quel migliore interesse nell’immutabilità della decisione della madre naturale di mantenere l’anonimato, perché volta a garantirle di non essere più contattata in futuro e, dunque, di poter prendere la decisione con serenità, preservando così la vita del nascituro e prevenendo decisioni più drastiche della donna (cfr. Corte cost., n. 425 del 2005), mentre, a seguito della sent. Godelli c. Italia della Corte edu ha conosciuto un mutamento (cfr. Corte cost., n. 278 del 2013), accogliendo l’orientamento sovranazionale per cui una più congrua ponderazione degli interessi in gioco risieda nella possibilità di verificare, a distanza di anni, la persistenza o meno della volontà della madre naturale di non essere conosciuta dal figlio.

[18] Si pensi al profluvio di pronunce sull’applicazione del principio del favor minoris nel diritto processuale civile e penale, alle pronunce riguardanti le fattispecie incriminatrici che guardano al minore come vittima o come autore di reati, a quelle sui minori stranieri e la conciliazione delle loro esigenze con gli interessi dello Stato legati al governo dell’ordine pubblico ed alla gestione dei confini, o a quelle relative al riconoscimento di paternità o, più in generale, alla posizione del minore nella famiglia.

[19] Si v. Corte cost., nn. 109 del 1981, 259 del 1982, 80 e 297 del 1985, 196 del 1987, 463 del 1988, 65 del 1991, 293 del 1993, 76 del 1996, 514 del 2002, 416 del 2007, 126 del 2012 es 196 del 2012.