Quello che Lussemburgo (non) dice. Note minime su Taricco II

1.Non sono pochi i piani di lettura della sentenza emessa dalla Corte di giustizia il 5 dicembre scorso (C-42/17, M.A.S.) in replica all’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 2017 relativa al caso Taricco. Il primo e più evidente di questi, quello su cui si è sollevata subito l’attenzione della maggior parte dei commentatori, era quello legato all’invocata violazione dei controlimiti e su questo la Corte di giustizia ha mostrato una condivisibile e non del tutto prevedibile apertura nei confronti degli argomenti sapientemente impiegati dalla Corte costituzionale (v. su questo il commento di Antonio Ruggeri nella nostra Rivista). Valorizzando alcuni passaggi rimasti sullo sfondo della prima sentenza Taricco (parr. 53 e 55), la Corte di giustizia precisa oggi che il principio di legalità osta a che l’obbligo di disapplicazione della normativa nazionale sulla prescrizione che impedisce l’inflizione di sanzioni penali effettive in un numero considerevole di casi di frode grave che lede gli interessi finanziari dell’Unione sia pieno e incondizionato. Il giudice italiano, infatti, prima di disapplicare le regole interne sulla prescrizione nei casi in questione, è chiamato ad accertare se una tale disapplicazione comporti una “violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”.

Accanto a questo dei controlimiti, vi è tuttavia un secondo piano di lettura della sentenza, dal quale si ricavano indicazioni in apparenza contrastanti e che vanno nella direzione di una sostanziale conferma dell’impianto della sentenza Taricco I, quanto meno nel senso di ritenere che i principi in essa contenuti – una volta appianato in linea generale il dissidio con la Corte costituzionale – devono comunque trovare applicazione nella maggior parte dei casi, riducendo così a eventualità in fondo residuali l’evocato contrasto col principio di legalità. Basti pensare al fatto che la Corte di giustizia rimanda in più punti al “giudice nazionale” il compito di verificare l’esistenza di un contrasto tra l’obbligo di disapplicazione e il rispetto del principio di legalità, senza che però si possa evincere se in questo caso ci si riferisca alla Corte costituzionale come giudice del rinvio oppure (come sembra invece necessario ritenere) a tutti i giudici.

La difficoltà di riannodare questi due piani di lettura sembra in primo luogo legata alle difficoltà di lettura della sentenza, che certo non brilla per chiarezza e linearità anche perché la Corte di giustizia si è trovata a porre in qualche modo rimedio a una pronuncia davvero poco condivisibile come era Taricco I. E in questo senso è un indubbio merito della Corte costituzionale quello di aver obbligato il giudice europeo a un simile ripensamento, invitandolo ad un approfondimento delle ragioni di ordine propriamente costituzionale che impedivano il consolidamento di quella giurisprudenza, senza con questo evocare conflittualità inutili o esibire identità costituzionali in chiave contrappositiva, ma piuttosto riportando il rispetto dei principi costituzionali su un terreno che continua a mostrare un rapporto di separazione e di coordinamento col diritto dell’UE.

 

2.Indubbiamente, come detto, il motivo di maggiore interesse della sentenza è dato dalle modalità e dagli argomenti con cui la Corte di giustizia disinnesca il rischio dell’attivazione dei controlimiti preannunciato dalla Corte costituzionale. Su questo fronte, l’impressione è che la strategia seguita in Taricco II sia quella di un addomesticamento del conflitto, che ha come esito quello di un sostanziale accoglimento delle ragioni di fondo fatte valere dall’ordinanza di rimessione, senza per questo mettere radicalmente in discussione l’esigenza dell’uniforme applicazione del diritto UE. La Corte di giustizia, in altre parole, cerca di riportare il conflitto sul terreno proprio della sua giurisdizione e dei suoi stilemi argomentativi, in primo luogo evitando accuratamente di riferire, nella parte motiva della sua pronuncia, la violazione invocata dalla Corte costituzionale a principi supremi e diritti inviolabili della Costituzione, ma richiamando il principio di legalità come un diritto (senza ulteriori specificazioni) di cui anch’essa garantisce l’osservanza. Oltre a ciò, salta immediatamente agli occhi l’uscita di scena del rispetto dell’identità costituzionale nazionale di cui all’art. 4(2) TUE, pur timidamente invocata dalla Corte costituzionale, e l’impiego della formula delle tradizioni costituzionali comuni come chiave di riconoscimento dei diritti fondamentali della Carta per come essi si desumono dall’operare congiunto della CEDU e degli ordinamenti nazionali. Ed è in primo luogo richiamando la CEDU, infatti, che oggi la Corte di giustizia arricchisce il contenuto del principio di legalità riferendolo alla triplice dimensione della prevedibilità, della determinatezza della sanzione e della sua non retroattività.

Da questo punto di vista, il ricorso alle tradizioni costituzionali comuni illustra anche il percorso seguito dalla Corte di giustizia per immettere tali nuovi contenuti nel principio di legalità rispetto all’accezione molto più povera contenutisticamente di Taricco I. Piuttosto che impiegare l’art. 53 della Carta come auspicato dalla Corte costituzionale – che avrebbe portato a riconoscere al diritto nazionale un livello maggiore di tutela del principio di legalità –, la Corte di giustizia in un primo momento (par. 47) ribadisce che l’applicazione degli standard nazionali non deve compromettere “il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione”, per aggiungere subito dopo (par. 51) che il principio di legalità nella sua triplice dimensione appena richiamata assume un rilievo centrale “tanto nell’ordinamento giuridico dell’Unione quanto negli ordinamenti giuridici nazionali”. Senonché, è proprio questa il punto su cui la Corte di giustizia aveva maggiormente insistito in Taricco I in relazione all’inapplicabilità alle norme sulla prescrizione del divieto di retroattività, adducendo precedenti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dai quali veniva ricavata una supposta estraneità del regime della prescrizione – in quanto attinente ex se alla sfera processuale – alle garanzie del diritto penale sostanziale così come consacrate nell’art. 49 della Carta e nell’art. 7 CEDU. Oggi, in Taricco II, di questa giurisprudenza non c’è più alcuna traccia, e i precedenti citati vanno tutti nella direzione di articolare la tessitura del principio di legalità conferendo ad esso una dimensione che ricomprende i vari aspetti prima elencati e quindi si mostra capace di riguardare anche il regime della prescrizione.

In questo modo, l’efficacia dell’art. 49 della Carta non viene limitata dall’introduzione di uno standard derogatorio a livello nazionale, ma al tempo stesso il suo contenuto (e dietro di esso la supremazia e l’uniforme applicazione del diritto dell’UE) viene arricchito dall’interno, in conseguenze della scelta di richiamare CEDU e tradizioni nazionali come vettori di nuovi contenuti e dimensioni di esso, in precedenza ritenuti estranei. È, quest’ultima, una modalità di interpretazione dei contenuti dei diritti della Carta non nuova (da ultimo penso al caso Aranyosi in tema di limiti al mandato d’arresto europeo), ma che sicuramente in questa occasione era chiamata a confrontarsi con uno scenario inedito e dalle implicazioni molto più dirompenti rispetto al passato.

Un’altra conseguenza del parziale revirement di Taricco II è poi la comparsa sulla scena del legislatore nazionale, invocato a più riprese (parr. 41 e 61) quale destinatario principale dell’obbligo che scaturisce dall’art. 325 TFUE e soggetto chiamato “in prima battuta” a garantire che nel diritto nazionale vengano stabilite norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare a quegli obblighi di repressione effettiva delle frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione.

Si tratta, tuttavia, di un coinvolgimento che, se da un lato rimedia a uno dei principali interrogativi sollevati da Taricco I (l’attribuzione all’art. 325 TFUE di effetti diretti rivolti unicamente al giudice, investito di un obbligo di disapplicazione pressoché incondizionato), dall’altro lato non è ancora del tutto chiaramente definito nei suoi contorni e nelle sue conseguenze. In particolare, i parr. 39 e 40 della sentenza Taricco II continuano a predicare (in linea generale) un obbligo del giudice di disapplicare le disposizioni interne in materia di prescrizione, quando lesive degli obblighi derivanti dall’art. 325 cit., mentre sembrerebbe afferire al legislatore il compito di introdurre norme a ciò rispondenti (par. 38) per evitare che il giudice sia costretto a disapplicarle. Ma se fosse solo questo, si tratterebbe in fondo di un’ovvietà. Meno ovvio è invece attribuire al legislatore, come fa l’ultimo periodo del par. 61, il compito di adeguare ai contenuti della sentenza le norme nazionali in tema di prescrizione, garantendo al tempo stesso che esse assolvano agli obblighi discendenti dall’art. 325 TFUE e che rispettino il principio di legalità in materia penale nelle sue diverse accezioni. Dal combinato disposto dei parr. 42, 60 e 61 della sentenza, quindi, sembra doversi ricavare un mandato rivolto al legislatore nazionale a prorogare il termine di prescrizione “anche con riferimento a fatti addebitati che non sono ancora prescritti” (par. 42), fermo restando che – in assenza di tale intervento (par. 61) – il giudice nazionale non può disapplicare il regime vigente in quei “procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della pronuncia della sentenza Taricco” (par. 60).

 

3.Senonchè, questo complesso quadro delineato da Taricco II (che lascia non pochi spiragli di incertezza) sembra rivolto, più che non alla sola Corte costituzionale come giudice del rinvio, alla generalità dei giudici e, in particolare, alla Corte di cassazione che però, anche dopo l’ordinanza n. 24 del 2017, ha provveduto a precisare ulteriormente i contorni applicativi di Taricco I, giungendo nella sostanza ad esiti che convergono con quelli fatti propri oggi dalla Corte di Giustizia.

Basti pensare, tra le altre, a una recente sentenza della Cassazione, III sez. pen. (n. 45751, 12 luglio/5 ottobre 2017) che ha ritenuto di continuare ad applicare il regime della prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 c.p. in una fattispecie relativa a frodi IVA, senza però con questo disconoscere il contenuto della sentenza Taricco I, ma delimitandone piuttosto gli effetti temporali e i presupposti applicativi. In sostanza, la Cassazione riconosce che la disapplicazione in parola non può essere effettuata nel caso in cui i fatti siano già prescritti al momento della pubblicazione di Taricco I, mentre il requisito della “gravità” e del “numero considerevole di casi” è specificato alla luce dei contorni del caso di specie, se cioè la condotta lesiva superi una determinata soglia di imposte evase e sia stata posta in essere mediante determinate modalità realizzative tali da soddisfare il requisito di gravità di cui all’art. 133 c.p. (“quali in particolare l’organizzazione posta in essere, la partecipazione di più soggetti al fatto, l’utilizzazione di ‘cartiere’ o società-schermo, l’interposizione di una pluralità di soggetti, l’esistenza di un contesto associativo criminale”. Nello stesso senso vanno altre sentenze della Cassazione, III sez. pen.: 12 luglio/6 ottobre 2017, n. 45964 e 24 gennaio/14 luglio 2017, n. 34514).

In un quadro del genere, l’impressione è che l’impatto della sentenza Taricco II a livello interno non sposti poi di molto gli equilibri che si sono affermati nella giurisprudenza ordinaria e di legittimità, convalidando nella sostanza un divieto di applicazione retroattiva dell’obbligo di disapplicazione posto in Taricco I che si è già affermato in giurisprudenza e senza che pongano particolari problemi applicativi i profili relativi al requisito della determinatezza della sanzione, con riferimento ai parametri già evocati della gravità e del numero considerevole di casi.

La questione, giunti a questo punto, diventa quindi capire come si atteggeranno i rapporti tra la Cassazione (che non dovrebbe avere, per le ragioni già dette, particolari difficoltà a recepire Taricco II) e la Corte costituzionale, chiamata a recepire la pronuncia europea e a combinare i contenuti di questa con i presupposti della sua ordinanza.