Questione crocifisso: de-rubricarla da “bilanciamento” (che poi resta scontro) sui diritti ad “accomodamento” semplicemente meno costoso?
La sentenza Lautsi vs Italia, pronunciata il 3 novembre 2009, dalla II sezione della Corte EDU non ha detto, com’è noto, l’ultima parola sul crocifisso. In attesa della sentenza definitiva della Grande Chambre, Diritti comparati ha dato spazio ad un dibattito sviluppatosi intorno ad un contro-argomento che Joseph Weiler ha sostenuto a Strasburgo e che Marta Cartabia ha condiviso in un’intervista ad Avvenire (v. archivio di Diritti comparati, Settembre 2010). Il contro-argomento veniva, in tale occasione, così sintetizzato: “l’idiosincrasia per ogni simbolo sacro, derivata dalla rivoluzione francese, non è neutrale, ma un atteggiamento di parte”. La pretesa del muro bianco, in sostanza, è quanto meno identica alla pretesa del muro con il crocifisso. Secondo Marta Cartabia tale obiezione dovrebbe spingere la Corte EDU a “spostare la decisione” o quanto meno “ad argomentare più ampiamente”. Ed in effetti c’è qualcosa che non torna negli argomenti usati contro il crocifisso: i diritti della maggioranza (libertà religiosa, libertà educativa, identità culturale, se si volesse aderire all’argomento sostenuto dal ricorso del Governo italiano del 28 gennaio 2010) sono sacrificati in nome dei diritti delle minoranze (atee o di altre religioni che siano) o del principio supremo della laicità. Ma che cos’ha di diverso la libertà religiosa, educativa o culturale degli italiani cattolici per essere sacrificata al posto di quella delle minoranze? E’ l’identità, la religione dei più forti, è dominante, è oppressiva? Si potrebbe dire anche esattamente il contrario, se pensiamo ai cattolici che iniziano a sentirsi “minoranza”. Non paiono, dunque, argomenti del tutto convincenti.
Per cercare di uscire dall’impasse mi sembra centrale quanto ha scritto Giorgio Repetto (in un post sempre rinvenibile in Archivio settembre 2010) suggerendo di concentrarci sul “terreno concreto della controversia”. Incrociando queste due intuizioni – argomentare più ampiamente (e forse diciamolo anche diversamente) e tornare al caso concreto – mi chiedo se non sarebbe opportuno riportare questa controversia sul crocifisso dal terreno dello scontro tra diritti, a quello, come dire, della iuris prudentia, spostandoci dall’enfasi sul “bilanciamento” a dare importanza, nell’argomentazione, al fatto che la scelta se tenere o rimuovere il crocifisso corrisponde ad un più modesto “accomodamento” concreto. Così, ad esempio, si potrebbe tener conto che la rimozione del crocifisso non è un sacrificio così incisivo della libertà religiosa, educativa e culturale cattolica o italiana, che del crocifisso si accorgono più le minoranze che la maggioranza, che la sua esposizione non è un elemento essenziale dell’identità cattolica, che su altri conflitti multiculturali (endo o eso che siano) non si imporrà per sempre, schiacciante, il principio supremo della laicità: per cui, giusto per fare qualche esempio, il presepe si potrà fare e le minoranze potranno con buon senso tollerarlo (dura soltanto 15 giorni) e le processioni nelle strade e tutti gli altarini di cui sono disseminate le strade italiane potranno pacificamente stare dove stanno, così come potranno iniziare a levarsi i minareti. E ugualmente rimuovere il crocifisso dalla scuole non significherebbe, necessariamente, chiudere le cappelle degli ospedali, perché nel “terreno concreto di questa controversia” i cattolici potrebbero addurre validi argomenti (l’impossibilità dei malati di praticare il proprio culto) per conservarle (ovviamente analogo diritto dovrebbe essere concesso anche a chi pratica altre religioni, e qui si dovrà ragionare sui modi. Di fronte a rivendicazioni di altre religioni di, ad esempio, far costruire una moschea o una sinagoga, si potrebbe rispondere con uno spazio multiplo, anziché con tre sedi distinte, dipendendo dai costi che anche gli atei dovrebbero sopportare, dalla destinazione di quei costi ad altre iniziative etc.).
Insomma, la Corte EDU forse ha brandito argomenti troppo forti che, in effetti, possono essere neutralizzati da quello speculare di Joseph Weiler. Allora, ecco, mi chiedo se in generale su tutti i temi del multiculturalismo non ci aiuti di più un approccio che de-rubrichi molte fattispecie dallo scontro tra diritti e faccia proprie altre virtù del Diritto. La ricerca dei valori della convivenza in un contesto multiculturale, ad esempio, si nutre dell’interiorizzazione di uno dei più grandi lasciti dell’antropologia: l’idea che si diventa esseri umani in modo situato e diverso. Alla obiezione “è di un’altra cultura”, “ha un’altra visione del mondo”, “non può vedere quello che tu vedi” siamo sensibili, almeno in principio. E proprio per questo se un italiano cattolico dice: “è la mia religione, è la mia cultura, è la mia identità” questo argomento mi sembra convincente tanto quanto quello che può sollevare un membro di una minoranza. Ma proprio l’antropologia mostra che le culture e le visioni del mondo non sono intatte e immutabili, ma si dinamizzano con l’incontro con l’altro. Il dato più saliente dei processi culturali è la contaminazione, la disposizione a fare concessioni, il sincretismo, il cambiamento. Ecco, in effetti dal caso Lautsi viene un grande insegnamento su come l’argomentazione giuridica possa operare all’interno della mediazione culturale: l’argomento laicità “offende” o “non convince” i credenti perché si sentono schiacciati e lo percepiscono non come un argomento neutrale, ma come un argomento fortemente ideologico. Forse il diritto dovrebbe fare uno sforzo, come suggerisce Marta Cartabia per “argomentare più ampiamente”.
Passando ad un’altra disciplina che mi sembra possa “parlare”, in questa vicenda, al Diritto, mi ha colpito quanto qualche tempo fa un collega di economia mi diceva: “noi risolveremmo il caso crocifisso chiedendoci quanto le controparti sarebbero disposte a pagare (non solo in denaro ovviamente) per tenerlo o rimuoverlo”. E quando gli rispondevo: “penso più le minoranze, ma la bacheca accontenterebbe tutti”, mi replicava: “ma allora dovreste considerare: quanti costi, in termini di tempo per la contrattazione, la bacheca implicherebbe alle scuole? Forse troppo tempo che potrebbe essere dedicato ad altro”.
Incrociando questi due apporti – antropologico ed economico – forse il diritto potrebbe presentare la soluzione del “muro bianco” non come quella più giusta o costituzionalmente conforme, ma semplicemente come quella più prudente ed economica, in cui c’è una concessione all’altro che è meno costosa e che è sopportabile (dalla maggioranza) perchè non incide significativamente sulla sua identità. Ora, a questa osservazione, si potrebbe obiettare che in realtà la maggioranza si accorge – eccome! – del crocifisso nel momento in cui lo si vuole rimuovere e che quindi forse questa è una prova del forte legame religioso o identitario che i membri della maggioranza hanno con il simbolo. A questo punto spetta ai cattolici convincere che il crocifisso a scuola è indispensabile per salvaguardare la loro identità. Che cosa si potrebbe dire? Da ex cattolica praticante, mi viene in mente che il crocifisso lo si guardava per varie attività di preghiera e che comunque, sì dava un senso di protezione. Ma anche qui mi sembra che manifestazioni individuali della libertà religiosa possano essere valide alternative: ad esempio indossare una catenina con la croce o portare un’immaginetta con sé. Uguali argomenti si potrebbero obiettare agli italiani che vedrebbero compromessa la loro identità culturale o addirittura costituzionale. Insomma, la neutralità che vorrebbe la Corte EDU per l’Italia, non è certo quella francese. Ma non si può neanche sostituirla con la presenza a tutti i costi dei simboli religiosi ovunque. Il margine di apprezzamento resta pieno in tutti gli altri campi.
Per la Corte EDU, dunque, a mio avviso si prospetta questa possibilità: stessa soluzione, ma con diverse argomentazioni per rinsaldare i valori della convivenza, che a questo punto non possono essere, nella loro rigida interezza, laicità, libertà religiosa, liberà educativa – offendendo la sensibilità dei credenti, i quali rischiano di essere feriti da questo tipo di argomentazione, che anziché sanare rischia di enfatizzare tensioni – ma un reciproco venirsi incontro, laddove possibile: e in questo caso lo è.
Interessante lo spunto di Ilenia Ruggiu: indubbiamente la Grande Chambre dovrà argomentare di più e meglio di quanto avesse fatto la sezione. Tuttavia non mi è chiaro in quale misura la logica della concordanza pratica (Hesse) si possa discostare da quella del bilanciamento. In questo caso lo scontro tra valori è innegabile ed il conflitto tra diritti della maggioranza e diritti delle minoranze a me pare ineliminabile. D’altronde, non è proprio così che in Germania il BVerfG aveva argomentato? La libertà religiosa affonda le sue radici proprio nella tutela delle minoranze. La maggioranza non ha bisogno di essere difesa dalla figura del diritto fondamentale individuale, viceversa l’individuo che nella scuola dell’obbligo è costretto ad apprendere sotto la croce (così il BVerfG) sì. E a cosa pensavano i padri fondatori statunitensi quando scrissero la anti-establishment clause del Primo emendamento? Lo spazio pubblico democratico si deve caratterizzare per l’eguaglianza delle posizioni, ed un crocifisso appeso in una scuola pubblica dell’obbligo offre riconoscimento ufficiale ad una religione particolare e discrimina chi non vi si riconosce. Anche a me piacerebbe vivere in un paese in cui, come scrive Ilenia Ruggiu, ci si possa venire reciprocamente incontro, ma su questo tema una reazione rabbiosa ed intollerante mi pare inevitabile. D’altronde, a mio giudizio, la distinzione rilevante non è tra laici e credenti (occorre sempre ribadire che tra i laici ci sono moltissimi credenti!), né tra credenti e non credenti, né tra diverse appartenenze religiose, ma tra tolleranti ed intransigenti. E per permettere la tolleranza occorre che lo spazio pubblico non sia contrassegnato da un simbolo religioso particolare che rappresenta il credo della maggioranza.
Su un punto mi pare siamo tutti d’accordo. Che la sentenza della Sezione era argomentata in maniera troppo sbrigativa. In particolare, il totale aggiramento dell’argomento avanzato dallo Stato italiano, circa l’opportunità di riconoscere un ampio margine d’apprezzamento agli Stati non è stato sufficientemente considerato, specie se si pensa a quanto rilievo sia stato riconosciuto all’apprezzamento statale nei casi concernenti la legislazione sul divieto di indossare il velo nelle scuole in Francia.