Leggendo “Giuseppe Dossetti. Un innovatore nella Democrazia cristiana del dopoguerra”, di Fernando Bruno

“Dossetti aveva ragione”. Così potrebbe intitolarsi il corposo volume di Fernando Bruno, “Giuseppe Dossetti. Un innovatore nella Democrazia cristiana del dopoguerra”. Nella quarta di copertina appare significativamente la chiosa, “Un’altra Democrazia cristiana era possibile. Aveva le fattezze di Giuseppe Dossetti”. Questo contributo su Dossetti si aggiunge a una vasta bibliografia, costruita, soprattutto, da suoi allievi o dagli studiosi della scuola di Bologna (Pombeni, Trotta, Melloni, Galavotti, per citare i più importanti).

Il tentativo di Bruno è indubbiamente suggestivo e un po’ ardito. Suggestivo perché ha il merito di dichiarare senza infingimenti una ipotesi, per larghi tratti assertiva, sulla rilevanza del pensiero e dell’azione politica di Dossetti. D’altra parte però, si espone al rischio di privilegiare una lettura storica retrospettiva che, per dimostrare il “disastro” politico conseguente alla mancata affermazione (?) del pensiero e dell’impostazione di Dossetti all’interno della Dc, si rivela, in alcuni tratti, un po’ selettiva e sembra volgersi verso quella tendenza culturale che privilegia la storia delle realizzazioni mancate o non avvenute.

Il titolo del volume lascerebbe presagire un’analisi dell’impegno strettamente politico di Giuseppe Dossetti all’interno della Democrazia cristiana, tenendo conto, cioè, del partito della Dc e delle sue vertebrature interne. Tuttavia, pur volendo concedere il dovuto spazio alla nascita del gruppo dossettiano (I capitolo), tema su cui si era cimentato Paolo Pombeni, alle suggestive pagine sulle scelte di politica economica e la sintonia con le indicazioni keynesiane (cap. IV e cap. XI) o, ad esempio, alla linea ecclesiale di rinnovamento condivisa con La Pira e con le esperienze francesi (il cap. VIII), il percorso narrativo sembra procedere più verso una storia politica e culturale di Dossetti e del gruppo dossettiano che verso l’approfondimento del lavoro politico del leader cattolico reggiano nella Dc, a partire dalla Costituente fino al suo volontario abbandono della vita politica. Certamente quando si affronta il tema di Dossetti e dei suoi collaboratori, risulta arduo scindere, quasi come una lama di rasoio, i due poli tematici oggetto della riflessione; né, tantomeno, si può separare così nettamente il campo dell’analisi politica tout court da quello più ampiamente culturale. Non fosse altro perché Dossetti viveva in modo così intenso e responsabile le vicende del suo tempo, giudicandole criticamente nella sua comunità politica (Lazzati, Gislenti ecc. e i tanti che sono ricordati da Bruno), che non lo si poteva isolare facilmente da quel contesto. Eppure, almeno una maggiore cura nella distinzione dei due poli tematici scelti legittimamente da F. Bruno (ossia Dossetti e il gruppo dossettiano) avrebbe giovato all’approfondimento del dibattito critico sugli snodi cruciali. Scegliendo, dunque, una chiave di lettura che mantiene insieme Dossetti e i suoi collaboratori, con i giudizi e le analisi innovative della rivista da lui fondata, ossia «Cronache sociali», Bruno intende mostrare l’esistenza di un’altra Dc, seppure minoritaria, che sarebbe vissuta, con aspri contrasti, solo fino all’abbandono di Rossena nel 1951. Pertanto, l’abbandono di Dossetti (nonostante la folta e importante presenza dei dossettiani nella Dc nella storia repubblicana anche recente) avrebbe coinciso con la crisi irreversibile della Dc.

Difatti, uno degli obiettivi di Bruno pare -almeno nei primi capitoli- quello di confutare le più recenti ricostruzioni storiografiche sull’altro protagonista della Dc, ossia lo statista Alcide De Gasperi. In effetti, il politico trentino ha giustamente conosciuto una nuova e finalmente adeguata stagione di studi rigorosi e non ideologici da parte degli storici. Le ultime pubblicazioni su De Gasperi elaborate da studiosi provenienti, peraltro, da differenti scuole storiografiche hanno messo in luce l’enorme peso che egli ha esercitato nella politica italiana, nella costruzione dell’Europa, nella pervicace protezione della democrazia italiana dai pericoli provenienti delle due ali estreme dei raggruppamenti partitici italiani e così via.

Bruno contrappone in maniera radicale De Gasperi a Dossetti, ricorrendo alla testimonianza postuma riferita da Galloni (p. 59) e riportata da Trotta. L’autore aderisce, su quasi tutti i nodi più controversi nella storia della DC e dell’Italia repubblicana, alle posizioni della storiografia laica e marxista (almeno di quelle antecedenti il 1989) che aveva valutato De Gasperi (e la sua politica) come un conservatore, distaccandosi anche dalla lettura di Scoppola che pure è stato un cattolico democratico molto vicino alle posizioni di Dossetti e Lazzati. I lavori storici recenti, le pubblicazioni della sua “Opera Omnia” e vari studi interdisciplinari hanno dimostrato quanto quella definizione risentisse di datati pregiudizi ideologici. Per dimostrare la sua asserzione, Bruno ricorre anche a marcare le differenze tra i due protagonisti sul loro antifascismo. Tali giudizi nei riguardi dello statista trentino (pp. 68-69) risultano ingenerosi. Il grado di antifascismo di De Gasperi, infatti, è stato misurato dalla sua permanenza in carcere e dalla vita dura (anche per la sua famiglia) e difficile come bibliotecario vaticano. Occorrerebbe chiedersi se per caso vi sia un misuratore neutrale del grado di antifascismo, poiché le questioni sono molto più complesse di tali semplificazioni. Come ben sappiamo, De Gasperi, leader della prima generazione di popolari, venne assunto nel ruolo di direttore della Biblioteca vaticana dopo un periodo trascorso in carcere ed in gravi ristrettezze economiche. Inoltre, vale la pena di ricordare che la prima riunione dei partiti antifascisti si svolse a Roma a casa di Giuseppe Spataro, principale collaboratore di De Gasperi. D’altro canto, però, va ribadito che la formazione dei dirigenti cattolici della seconda generazione avvenne negli anni della dittatura fascista e molti di questi docenti insegnavano anche in Università. Gli innegabili punti di contrasto sottolineati da Bruno dovrebbero trovare una più approfondita spiegazione nei differenti contesti storico-culturali in cui si sono formate la prima e la seconda generazione dei cattolici Dc.

L’altro terreno di scontro tra i due leader avviene per l’atteggiamento prudente di De Gasperi sul percorso che porterà al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, specie in riferimento alle indicazioni della Dc (pp. 61-63). Bruno, partendo dal contenuto di una lettera molto severa e risentita di Dossetti a De Gasperi, lascia intendere ai lettori che non sarebbe stato un buon esercizio di rigore morale -al contrario della concezione politica che aveva Dossetti- da parte di De Gasperi («questa sorta di machiavellismo», p.80) l’aver tenuto fuori la Dc dalla contesa sul referendum istituzionale tra monarchia e repubblica, sebbene l’autore -e lo stesso Dossetti- abbia riconosciuto le buone ragioni del presidente del consiglio. Ci si dovrebbe chiedere, però, da cosa è definita la morale nell’agire politico? Dal bene comune che si vuole raggiungere (e con quali ragionevoli mezzi) o unicamente dal prevalere assoluto e intransigente (ad esempio nel portare la Dc al referendum del 2 giugno a schierarsi con la scelta repubblicana senza lasciare agli elettori la libertà di voto) delle proprie convinzioni? La scelta di caratterizzare la Dc con l’intransigenza repubblicana avrebbe prodotto sicuramente risultati negativi per il partito: una Dc assai debole e non più centrale nel sistema politico, una destra estrema e antirepubblicana assai più forte e, infine, il predominio delle sinistre egemonizzate dal Pci, alleato di Stalin. Si poteva, in quelle oggettive condizioni storiche date, per un ossequio alla coerente intransigenza del metodo, fallire nel perseguimento del fine? A bene vedere, si tratta di una visione politica irragionevole (o utopistica) che ignorava (o sminuiva) la grave complessità dei numerosi fattori in gioco, come la delicata situazione internazionale ed il ruolo, ormai quasi obbligato dalle circostanze, che la Dc si stava costruendo come “partito-guida” della nazione. In definitiva, il mezzo (libertà di voto agli elettori della Dc o indicazione vincolante per la forma repubblicana) non può essere confuso con il fine, ossia con il raggiungimento, senza ulteriori traumi e violenze, della più ampia e sostanziale democrazia in Italia. Pertanto, il realismo degasperiano (come applicazione della dottrina sociale sul bene comune) non può essere confuso con il machiavellismo. Come sappiamo, il paese si trovò spaccato a metà, con il sud schierato in maniera massiccia a favore della monarchia. Certo, ci sarebbe stata una Dc integralmente repubblicana (anche se i deputati filo monarchici della Dc erano un numero esiguo, a differenza del suo corpo elettorale in buona parte monarchico) ma assolutamente impotente nello scacchiere del sistema politico. Invece, fu proprio la scelta ponderata di De Gasperi che consentì alla Dc di guadagnare un ottimo risultato in Costituente e di permettere ai giovani Dossetti, Lazzati, Moro e La Pira di poter scrivere la Carta fondamentale con il Pci e con il Psiup, partendo da una posizione di rilevante forza numerica, oltre che da una solida base culturale.

Bruno evidenzia opportunamente un ulteriore motivo di contrasto tra i due leader nella diversa concezione del rapporto tra governo e partito, un nodo su cui l’autore si sofferma poiché ritiene essere l’origine di «molti guasti» dell’Italia repubblicana (p. 71). Il riconoscimento di una completa autonomia del partito dal governo, in un sistema con la forma di governo parlamentare, con una legge elettorale proporzionale e con la conventio ad escludendum (una definizione di L. Elia e ripresa da F. Bonini che si riferisce ad un accordo politico non scritto che inibiva la partecipazione a concorrere alla maggioranza di governo alle forze estreme di sinistra -e di destra- per la presenza del Pci alleato dell’Urss), risulta, alla luce degli avvenimenti storici, il prodotto di una aspirazione poco realistica (p. 71). Che tale percorso politico disegnato da Dossetti in quel frangente storico fosse una illusione è peraltro affermato dall’autore stesso nel capitolo conclusivo del volume (p.323).

Giungiamo ora ad esaminare un passaggio ulteriore del ragionamento dell’autore sulla “Dc mancata”. Si può ragionevolmente affermare che con l’abbandono di Dossetti sia svanita la possibilità di costruire un’altra Dc ? La risposta diventa affermativa solo se accettiamo di legare indissolubilmente Dossetti al suo gruppo di collaboratori che sarebbero rimasti orfani di un “padre politico” davvero unico. In realtà, gli anni successivi alla leadership di De Gasperi sono segnati dal protagonismo di alcuni dei più stretti collaboratori di Dossetti. Fanfani, dopo l’abbandono di Dossetti e la morte di De Gasperi, diventerà segretario della Dc e leader della corrente di sinistra fondata dal leader cattolico reggiano (la prima corrente ufficiale della Dc). Il politico aretino (che Bruno non indica tra i migliori allievi di Dossetti) sarà l’ideatore del partito dall’apparato forte e radicato nel territorio, in aperta competizione con il Pci ed in via di lento e progressivo sganciamento dalla influenza della chiesa. E qui occorrerebbe notare che qualche idea di Dossetti sulla presenza capillare del “partito programmatico” aveva comunque attecchito in Fanfani e nel gruppo dirigente della Dc post – degasperiana. E, pur tuttavia, sarà proprio Fanfani, il più abile tra i suoi allievi, ad accumulare le due cariche – l’altro segretario Dc che cumulerà le due cariche sarà C. De Mita (1982-1989) proveniente dalla Sinistra di base- di segretario politico e presidente del consiglio, creando, oltre ai numerosi malcontenti nel partito, la prima eterogenesi del fine politico agognato da Dossetti sulla netta separazione tra il ruolo del partito e quello del governo. Anche dopo il periodo fanfaniano giungerà alla segreteria un altro esponente della sinistra dossettiana, ossia Aldo Moro, indicato da F. Bruno come il migliore allievo e quello più vicino alle idee di Dossetti. Sarà il regista dell’accordo politico del centro-sinistra organico dopo i quattro anni trascorsi alla segreteria politica. Come non scorgere allora nella sua azione politica una forte traccia delle idee dossettiane? È possibile dunque che egli non abbia influenzato in senso positivo il partito tra il 1959 ed il 1963? Ne sono testimonianza, per fare solo un esempio, i Convegni di San Pellegrino e il coraggioso varo del centro sinistra organico, nonostante la pesante sconfitta elettorale del suo partito alle elezioni politiche del 1963. La crisi della Dc e la deplorevole deriva correntizia cominciò più tardi, nel 1967-68, al sorgere della contestazione e della crisi del centro sinistra.

Pur rilevando la fondamentale importanza della fase programmatica nella vita del partito, come avrebbe potuto innescarsi il processo virtuoso del riformismo dossettiano in una situazione anomala come quella italiana, in virtù della conventio ad escludendum? Quale alternativa concreta si poteva percorrere? È evidente che la Dc doveva diventare il perno del sistema per l’assenza di competitori legittimati e credibili -stante l’assetto dei due Blocchi contrapposti tra est ed ovest- nell’alternanza al governo (come invece avvenne in Francia con la Sfio e in Germania ovest con la Spd). E qui si arriva ad un altro punto decisivo. Qual era la visione politica di Dossetti sul contesto internazionale? Era plausibile la sua posizione contraria all’adesione dell’Italia al Patto Atlantico (cap. IX)? Qui Bruno, come sulla gestione degli aiuti americani, individua alcune incoerenze (o giudizi altalenanti) e parziali retromarce di Dossetti e di alcuni esponenti del suo gruppo.

Il poco realismo di Dossetti nel giudicare (o forse nel voler non giudicare fino in fondo) il contesto internazionale e la natura dei regimi totalitari comunisti d’oltre cortina può trovare allora, sebbene solo in parte, una spiegazione ragionevole nel reiterato tentativo di voler mantenere il filo del dialogo con il Pci, allo scopo di non isolarlo e di non precludere ai suoi elettori (gli operai soprattutto) un percorso virtuoso verso il progressivo raggiungimento di una democrazia sostanziale ed il miglioramento sociale. Tuttavia, sarebbe un aspetto che la storiografia dovrebbe approfondire, nonostante la grave perdita (peraltro deliberata) del suo archivio personale.

Ed in relazione a queste riflessioni, mi pare assai interessante ed originale -anche per la scarsità di studi sull’argomento- il V capitolo, dedicato al rapporto tra Dossetti ed i comunisti e più in generale alla politica del Pci. Bene ha fatto Bruno a dedicare la giusta attenzione ad uno dei nodi più discussi sull’origine e sullo sviluppo dell’Italia repubblicana ed aggiungerei anche di quella singolare vicenda di Dossetti e del dossettismo. Come emerge dal capitolo, l’esponente cattolico della Dc reggiana aveva una elevata considerazione del ruolo che il Pci, specie a livello di partecipazione politica e civile, esercitava nei riguardi delle masse ed in maniera particolare verso la classe operaia (p. 127). Anche qui notiamo che Bruno insiste nel contrapporre De Gasperi a Dossetti, allo scopo di indurre i lettori a valutare le due differenti opposizioni al Pci e all’ideologia marxista. La ricerca continua di una netta dicotomia tra i due leader appare un po’ forzata ed occorrerebbe contestualizzare meglio le dichiarazioni di De Gasperi riportate dall’autore, così come sarebbe utile approfondire quelli che paiono gli “improvvisi” giudizi duri e assai negativi di Dossetti sul Pci e sul comunismo («il doppio gioco indegno del Pci» durante i governi tripartito, p. 136), specie a partire dalla metà del 1947, ossia in seguito alla rottura del “patto tripartito” (pp. 134-137). Ciò che invece non viene fuori con sufficiente chiarezza è il giudizio di Dossetti sui regimi totalitari comunisti sia dell’Urss che dei paesi satelliti. Sembra poco credibile che un uomo così meticoloso e sempre informato sugli avvenimenti come Dossetti non esprimesse una differente valutazione del sistema democratico da quello totalitario e non tenesse conto, tra i tanti aspetti preoccupanti di quei sistemi, delle gravi condizioni in cui versavano i cristiani e i fedeli di altre confessioni religiose.

Conclusa la sua esperienza politica nel 1951 -qui l’autore en passant cita l’ultimo tentativo politico di Dossetti candidato sindaco a Bologna contro Dozza nel 1956 (p.309n)- con il commiato agli amici pronunciato a Rossena, è veramente sfumata la possibilità di costruire un’altra Dc? La testimonianza di Galloni (l’unica scritta) sulle ragioni che indussero Dossetti a lasciare l’impegno politico registrano la presa d’atto sulle condizioni di impraticabilità delle sue proposte, in virtù del quadro politico italiano bloccato dalla delicata situazione internazionale e dalla presenza del Pci. Secondo Galloni, Dossetti lasciò anche per non favorire, con la sua opposizione nella Dc, il Pci. A guardare bene i fatti, però, Dossetti aveva implicitamente dato ragione all’analisi degasperiana. Ma, a mio modo di vedere, non voleva assumersi più il compito antipatico del pungolatore interno e del bastian contrario. Questa sua personale scelta, pur rispettabilissima, privò tuttavia la Dc di un leader intelligente e colto -come ben rileva Bruno- che forse avrebbe dovuto attendere ancora qualche anno per ottenere il consenso maggioritario nel partito. Ed allora come sarebbe stato interessante poterlo giudicare nell’attività di segretario politico o di ministro di un governo di centro-sinistra o di solidarietà nazionale! Ma egli rifuggì da queste ambizioni e dalla personale conquista egemonica del partito per cercare altro. Forse proprio in questo disinteresse per gli onori e gli incarichi più prestigiosi sta la vera e più alta lezione morale di Dossetti. Allo stesso tempo, però, a tale considerazione non può corrispondere un giudizio politico e morale uguale e contrario rispetto alla attività del suo maggior competitore nella Dc, cioè De Gasperi, solo per il fatto che lo statista trentino abbia liberamente accettato gravose responsabilità ed incarichi assai rilevanti.