“Rights fell on Alabama”: il diritto all’aborto negli Stati Uniti a seguito degli emendamenti costituzionali in Alabama e West Virginia.

Nell’autunno 2018, all’ombra del dibattito politico sui risultati delle recenti elezioni di midterm per il parziale rinnovo dei membri del Congresso, nei due Stati dell’Alabama e della West Virginia si sono tenuti importanti referendum costituzionali in tema di aborto. Nell’ultimo decennio numerosi Stati hanno infatti approvato norme volte a limitare l’accesso a tale diritto nella massima misura possibile. Nel quarantacinquesimo anniversario dalla storica pronuncia della Corte Suprema Roe vs Wade (410 U.S. 113_1973), che per la prima volta considerò il diritto all’aborto un diritto fondamentale, il dibattito su questo tema non appare essersi ancora sopito.
Il 6 novembre scorso, più del 60% degli elettori dell’Alabama si è espresso a favore del cosiddetto Amendment 2 alla Costituzione statale del 1901, presentato dal deputato Matt Fridy. La modifica riguarda in particolare l’affermazione a chiare lettere dei diritti del feto nonché della sacralità (e dunque intangibilità) della unborn life. Vengono così poste le basi normative per una politica statale volta alla strenua difesa del potenziale diritto alla vita di un soggetto giuridico in fieri (quale il nascituro) a discapito dei diritti fondamentali di un soggetto giuridico attuale (ovvero la gestante). La proposta continua infatti sancendo l’impegno statale ad assicurare la tutela dei diritti del feto attraverso ogni maniera legale e appropriata, posta l’assenza in Costituzione di qualsiasi fondamento per la protezione del diritto all’aborto o per il finanziamento delle relative pratiche medico-sanitarie.
Al pari, in West Virginia gli abitanti hanno votato a favore di una modifica costituzionale di tenore simile. Con la Joint Resolution 12 del Senato (“No Constitutional Right to Abortion Amendment”) è stato infatti approvato l’innesto della Sezione 57 all’art. VI con cui si chiarisce come nulla – nella Costituzione statale del 1872 – assicuri o protegga il diritto all’aborto né imponga allo Stato il finanziamento delle pratiche volte all’interruzione di gravidanza. Anche in questo caso, perciò, pur non arrivando a parlare di sacralità del diritto alla vita del feto, l’obbiettivo è quello di una interdizione legalizzata dell’accesso al diritto all’aborto, posto che di fatto non vi sarebbe più copertura sanitaria pubblica per tutte quelle donne che decidessero di ricorrervi.
La questione era già stata dibattuta negli anni Novanta del secolo scorso in occasione dell’approvazione del West Virginia Code (§ 9-2-11) che vietava l’utilizzo dei fondi del programma federale sanitario Medicaid per sostenere i costi degli aborti. La vicenda innescò un contenzioso risolto dalla Suprema Corte di Appello della West Virginia con la sentenza Womens’ Health Center of West Virginia, Inc. v. Panepinto (N.21924-1993) con cui i giudici statali riconobbero l’illegittimità costituzionale delle contestate previsioni normative. Nello specifico, a parere della maggioranza della Corte, ad essere violati erano i diritti delle donne più indigenti, vere discriminate dalla riforma. Sebbene nella Costituzione non si potesse individuare alcun obbligo esplicito per lo Stato di sostenere quelle spese mediche collegate alla gravidanza ed alla sua interruzione, era comunque da ritenersi esistente un dovere per il governo statale – una volta scelto di fornire assistenza medica ai più poveri tramite l’attivazione di programmi quali Medicaid – di erogare il servizio in ossequio ai principi costituzionali, in maniera neutrale, agendo per il solo bene comune della cittadinanza. In particolare, l’iniziativa statale veniva definita come un’interferenza indebita nell’esercizio del diritto all’aborto.
Con il recente intervento costituzionale, il legislatore della West Virginia pare pertanto aver risolto la questione direttamente alla base, fugando ogni dubbio interpretativo circa l’esistenza o meno di un onere assistenziale a carico dello Stato in tale settore.
In controtendenza si è invece rivelato l’esito elettorale registrato in Oregon sempre il 6 novembre 2018 con cui gli elettori dello Stato occidentale hanno cassato la proposta di legge (l’Oregon Ban Public Funds for Abortions Initiative) che avrebbe vietato il finanziamento pubblico agli interventi d’IVG, salvo i casi di necessità medica e di obblighi imposti con legge federale.
Ebbene, lo scopo più immediato dei vittoriosi emendamenti è da rintracciarsi nell’abolizione della sovvenzione pubblica agli interventi sanitari abortivi, disposizione che agilmente si presta ad una lettura interdittiva del diritto in questione, pur senza ricorrere ad una criminalizzazione vera e propria dello stesso. Intatta la forma, ad essere minato sarebbe il godimento effettivo di tale diritto. Ciò riporta alla mente la vicenda di Whole Woman’s Health v. Hellerstedt (579 U.S._2016) – decisa dalla Corte Suprema nel giugno 2016 – circa la normativa texana in materia di cliniche private specializzate in IVG. La controversia era originata da due previsioni contenute nell’House Bill 2 del 2013 con cui il legislatore aveva imposto alle strutture e al personale sanitario requisiti così stringenti da provocare la chiusura delle stesse. Orbene, anche nei casi in esame, piuttosto che operare direttamente sul contenuto del diritto all’aborto, affermato e protetto a livello nazionale, il legislatore ha optato per un intervento indiretto, ponendo ostacoli all’esercizio concreto di tale diritto, svuotato così di fatto nel suo significato.
Ponendo sullo stesso piano i diritti della madre e del concepito – con una netta preferenza per il diritto alla vita di quest’ultimo, cristallizzato nella sua inviolabilità –, si finisce poi per anticipare la soglia di tale tutela ad un momento addirittura anteriore a quello dell’IVG. Settori particolarmente sensibili risultano essere quelli della contraccezione e della fecondazione in vitro le cui spese non sarebbero più coperte dal sistema sanitario nazionale, sfociando in una lesione concreta del diritto alla salute. Tutte le donne che non sono in grado di sostenere tali costi verranno difatti coartate ed eterodirette nell’adozione di decisioni personalissime in merito alla loro condizione psico-fisica. Ciò emerge ancora più nettamente se si considera che alcuna eccezione è stata prevista in caso di stupro, incesto o rischio per la salute stessa della gestante.
Il rapporto tra contraccezione e sanità pubblica è, del resto, alquanto controverso, anche giudizialmente. Nel caso Burwell v. Hobby Lobby (573 U.S._2014) una società a conduzione familiare riteneva che l’obbligo per i datori di lavoro di sostenere le spese per i contraccettivi delle proprie dipendenti – come parte del piano sanitario garantito – violasse la sua libertà di religione. All’epoca, la Corte Suprema Statunitense (5-4) accolse il ricorso sostenendo che esistessero alternative meno vincolanti capaci di assicurare sia tale copertura assistenziale alle lavoratrici sia la libertà di culto dei datori di lavoro. Tornata sul punto, tramite il ricorso di un’organizzazione religiosa non profit avanzante le medesime lamentele [sentenza Zubik v. Burwell (578 U.S._2016)], trovandosi di fronte ad una divisione interna di 4-4, la Corte ha invece preferito superare lo stallo rinviando alla Corte di Appello, invitando le parti a trovare un accordo di compromesso.
Significativo è altresì il rigetto – arrivato nell’ottobre 2018 – della Corte Suprema del ricorso relativo all’Amendment 1, con cui nel 2014 era stata approvata l’eliminazione dalla Costituzione del Tennessee del diritto all’aborto. La querelle era in realtà sorta in relazione al modo in cui i voti erano stati scrutinati dagli ufficiali elettorali, poiché ritenuto in contrasto con il metodo di conteggio definito in Costituzione. In ballo vi erano però anche i diritti delle donne, posto che – in virtù di tale vittoria – il legislatore statale aveva immediatamente provveduto ad inserire nel testo costituzionale la clausola per cui: “Nothing in this Constitution secures or protects a right to abortion” nonché ad approvare norme restrittive dell’accesso all’IVG.
Le modifiche legislative dell’Alabama e della West Virginia si vanno dunque ad aggiungere al significativo gruppo delle esistenti trigger laws in materia. Con tale espressione si indicano delle leggi formalmente approvate a livello statale ma inapplicabili a causa del contesto giuridico-legislativo esistente a livello federale. Si tratta dunque di norme pronte a “scattare” nel caso in cui la situazioni muti, divenendo così immediatamente applicabili. È questo il caso delle leggi di Mississippi, Louisiana, North Dakota and South Dakota sancenti la perseguibilità penale di chiunque riceva o compia un aborto, con pene fino a dieci anni di carcere.
Comunque sia, grazie alla succitata sentenza Roe vs Wade, il diritto all’aborto è ancora oggi riconosciuto a livello federale e intangibile con semplice legge statale. Il caso sorse dal ricorso di una cittadina texana avverso la normativa statale che vietava l’IVG eccezion fatta per i casi di pericolo grave alla vita della madre. La Corte Suprema statunitense si espresse a larga maggioranza di 7-2 a favore dell’incostituzionalità della succitata legge penale ritenendo la violazione dell’equal protection clause contenuta nel XIV Emendamento alla Costituzione Americana. Nello specifico, i giudici ricondussero la libertà della donna di scegliere di porre fine ad una gravidanza indesiderata al diritto alla privacy, che – afferendo alla dignità umana – non poteva essere oltrepassato da discretive azioni statali. Il governo locale era piuttosto chiamato a proteggere sia la salute della gestante che la potenziale vita umana, con tutele crescenti con il progredire della gravidanza. Nel primo trimestre, la scelta veniva lasciata nelle mani della donna; per i periodi seguenti, allo Stato veniva riconosciuta la possibilità di intervenire regolando l’accesso all’IVG in modo comunque confacente alla salute primaria della madre; per poi arrivare allo stadio della viability (ovvero la raggiunta capacità del nascituro di sopravvivere al di fuori del grembo materno) in cui – passando in primo piano l’attenzione e la cura per la potenziale vita umana del feto – era da ritenersi legittima l’eventuale adozione di norme interdittive dell’aborto, purché il ricorso all’IVG fosse garantito in caso di pericolo per la vita della donna. Tale suddivisione in fasi venne poi espunta nella sentenza Planned Parenthood v. Casey del 1992 con cui si ammise la facoltà del legislatore statale di adottare norme limitative del diritto all’aborto, applicabili anche al primo trimestre di gestazione, purché non costituissero un onere eccessivo per la donna. Veniva dunque elaborato il cosiddetto “undue burden test” alla luce del quale debbono ritenersi illegittime quelle misure atte ad imporre un ostacolo sostanziale al diritto di scelta della gestante.
In conclusione, il futuro del diritto all’aborto negli Stati Uniti risulta legato ad un filo sottile, rappresentato dal precedente giurisprudenziale contenuto nella sentenza Roe, la cui possibilità di essere messa in discussione risulta sempre più concreta. Poco rassicurante appare la nomina del Justice Kavanaugh – di dichiarata vocazione prolife – alla Corte Suprema il cui voto sarebbe in grado di spostare la maggioranza, comportando un ribaltamento della land mark decision del 1973. In tal caso, la regolamentazione del diritto all’aborto tornerebbe nelle mani dei legislatori statali, comportando l’automatica entrata in vigore delle normative interdittive e restrittive dell’IVG di recente approvazione nonché dei divieti pre-Roe, inapplicabili ma di fatto esistenti poiché incontestati giudizialmente, ad oggi ancora dormienti.