Se ad essere “non sicuro” è uno Stato membro dell’UE. La prima pronuncia italiana sulla condizione dei migranti in Ungheria.

È ormai ben noto, anche in virtù di una costante attenzione mediatica, che il cd. “Sistema Dublino” (più volte riformato e oggetto di pronunce) consente di richiedere il trasferimento di un soggetto che presenta un’istanza per ottenere una qualsivoglia forma di protezione internazionale verso il Paese presso cui tale richiesta è stata formulata per la prima volta. Questa misura deve essere ben ponderata (come già commentato su questo blog) perché potrebbe pregiudicare la condizione e la stessa incolumità del richiedente. Il semplice timore che lo Stato possa causare o, più semplicemente, non proteggere il migrante da trattamenti inumani e degradanti può arrestare il processo di trasferimento dello straniero. Certamente, queste questioni riguardano maggiormente quei territori che sono interessati o lambiti da conflitti, instabilità interne o da regimi di governo caratterizzati dal dubbioso rispetto delle libertà fondamentali. Risulterebbe difficile riscontrare tali violazioni in seno ad ordinamenti che sono spesso oggetto di una (o più) giurisdizioni internazionali e che dovrebbero recepire determinati standard all’interno del proprio sistema giuridico.

L’Ungheria è da tempo terra di approdo e di transito per numerosi migranti e oggetto di “attenzioni” da parte delle organizzazioni per la salvaguardia dei diritti umani. Tra le tante, Amnesty international ha lanciato mirati allarmi, invitando tutti i Paesi che applicano la citata regolamentazione ad astenersi dal consentire trasferimenti verso questo Paese. A dire il vero, anche l’UNHCR ha fatto riferimento a «conseguenze fatali» per i soggetti che provengono o fuggono da zone di guerra e che sostano in questo territorio. Spinta da questa situazione, la Commissione europea il 10 dicembre 2015 ha inviato all’Ungheria una lettera di messa in mora, avviando la consueta procedura di infrazione proprio in virtù di quanto sancito dal legislatore nazionale in materia di asilo. Le recenti modifiche che sono state adottate in questo Paese, a parere delle autorità di Bruxelles, sarebbero in contrasto con la legislazione europea sulle procedure di asilo (Direttiva 2013/32/UE) e le regole riguardanti il  diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali (Direttiva 2010/64/UE).

In questo contesto, si inserisce la sentenza n. 4004/2016 Reg. Prov. Coll. del Consiglio di Stato che stabilisce, al pari di quanto già disposto dal giudice in Olanda e Austria, l’annullamento della decisione che era stata emanata dalla “Direzione Centrale dei servizi civili per l’Immigrazione e l’Asilo – Unità Dublino” e che aveva ordinato il trasferimento in Ungheria di un soggetto richiedente asilo. Lo straniero – come si legge nella sentenza – aveva avanzato domanda di asilo per la prima volta in questo Paese; l’Italia, in quanto destinataria di un’analoga istanza in data successiva, «aveva chiesto all’Ungheria la ripresa in carico dell’interessato, […] ai sensi dell’art. 18, comma 1 lett. B) del Regolamento UE 604/2013, accolta dallo Stato destinatario che aveva riconosciuto la propria competenza». Il soggetto ha quindi impugnato la decisione del T.a.r. per il Lazio che, contrariamente alle aspettative, autorizzava il suo trasferimento, rilevando l’evoluzione del sistema di accoglienza ungherese per i profughi, così come riportato dal Rapporto ECRI (Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza) pubblicato il 9 giugno 2015 sul sito web del Consiglio d’Europa. Con tenacia, il ricorrente ha quindi addotto motivazioni di merito nel ricorso, ritenendo che l’organo giurisdizionale amministrativo «ha basato la propria decisione su un’unica fonte in modo vago, nonostante che in corso di causa siano state prodotte numerose altre fonti sulle condizioni dei richiedenti e titolari di protezione in Ungheria»; lo stesso, nelle memorie difensive, ha poi richiamato quanto stabilito più volte dalla Corte EDU sulla necessità di utilizzare una pluralità di fonti nell’esame di queste situazioni specifiche. Le tecniche di concessione della protezione internazionale – come si evince dal ricorso – sono deficitarie nelle garanzie di base e spesso culminano «in provvedimenti di reclusione degli stranieri, anche minori, in “centri di detenzione per asilo” e in abusi commessi dalle forze dell’ordine».

Pertanto, il Consiglio di Stato, prendendo atto delle attuali condizioni in cui versa il Paese,  procede ad una disamina ben delineata delle condizioni giuridico-politiche: il giudice amministrativo rileva che il Parlamento ungherese ha approvato nel luglio 2015 alcune modifiche alla Legge sull’immigrazione che porterebbero a supporre trattamenti differenziati basati su motivazioni razziali; allo stesso modo, viene fatto esplicito riferimento al prolungamento della detenzione dei richiedenti asilo, «che già rappresenta una prassi regolare in quel Paese, nonché la possibilità di obbligarli a lavori di pubblica utilità per coprire le spese di mantenimento». Per suffragare la sua decisione, il Collegio chiama in causa «il clima culturale e politico di avversione al fenomeno dell’immigrazione», aggravato da una procedura accelerata di espulsione degli stranieri, aspramente criticata anche dalle Nazioni Unite.

Come si può notare da questi riferimenti, nella controversia assume un ruolo decisivo l’impossibilità del trasferimento sollevata dal ricorrente e quelle «carenze sistemiche» che vengono imputate alle autorità ungheresi. Del resto, come recita L’art. 3, comma 2, del Regolamento  604/2013 del 26 giugno 2006, «qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante [..] lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione dello Stato membro competente prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente». Considerate tutte queste motivazioni, l’organo giudicante ha ritenuto «fondato il rischio che il provvedimento impugnato esponga il ricorrente alla possibilità di subire trattamenti in contrasto con i principi umanitari e con l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».

Si considera fondamentale questa decisione, non solo perché si pone in linea con quanto già deciso da altre Corti europee, bensì per l’approccio funzionale che il giudice ha dimostrato nell’utilizzo di tutta la documentazione necessaria per verificare le “reali” condizioni politiche e giuridiche del Paese in esame, anche attraverso fonti provenienti da organi di stampa e direttamente richiamati nella sentenza. Come è noto, l’Ugheria ha più volte manifestato la sua contrarietà alla politica migratoria dell’UE, consacrata dall’indizione di un referendum che mette in questione il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi nel Paese. A ciò si aggiunga il l’inasprimento delle misure di chiusura del confine con la Serbia e la Croazia. Dal Consiglio di Stato, una piccola (ma eloquente) breccia in quella che talvolta appare come una “Europa dei Muri”.