Se la forma è sostanza: la Corte di Giustizia definisce il regime giurisdizionale degli atti adottati ex art. 7 TUE (causa C-650/18)

Il 3 giugno 2021 la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata, respingendolo, sul ricorso per annullamento proposto dall’Ungheria (causa C-650/18) nei confronti di una risoluzione del Parlamento europeo del 12 settembre 2018 con la quale quest’ultimo – nell’ambito della procedura di cui all’art. 7, par. 1 TUE – ha adottato una proposta motivata rivolta al Consiglio, affinché questo constatasse l’esistenza di un evidente rischio di violazione dei valori di cui all’art. 2 TUE.
L’Ungheria ha ritenuto illegittima la risoluzione impugnata in quanto adottata dal Parlamento europeo in violazione dell’art. 354, par. 4 TFUE e dell’art. 178, par. 3 del regolamento interno del Parlamento stesso. La ricorrente ha sostenuto, cioè, che la formula di cui all’art. 354, par. 4 TFUE <<[a]i fini dell’articolo 7 del trattato sull’Unione europea, il Parlamento europeo delibera alla maggioranza dei due terzi dei voti espressi>> doveva essere interpretata nel senso di considerare come voti espressi anche le astensioni, al contrario di quanto avvenuto in sede di approvazione della risoluzione impugnata. In quella sede, infatti, il Parlamento aveva proceduto escludendo le astensioni dal computo dei voti espressi – comunicando, peraltro, preventivamente tale scelta ai parlamentari– con il risultato di consentire l’approvazione della risoluzione (448 favorevoli, 197 contrari, 48 astenuti). A tale motivo principale andava poi ad aggiungersi in stretta connessione la denuncia della violazione dei principi di democrazia e parità di trattamento, e gradatamente quella relativa alla violazione del principio di certezza del giudizio (per via della mancata richiesta, da parte del Presidente del Parlamento europeo, di un parere della commissione affari costituzionali in merito alle modalità di votazione) e dei principi di leale cooperazione, buona fede, certezza del diritto e legittimo affidamento (secondo l’Ungheria il Parlamento non avrebbe potuto porre a fondamento della propria risoluzione anche i procedimenti d’infrazione promossi contro di essa da parte della Commissione, in quanto questi si porrebbero come una sorta di alternativa al procedimento di cui all’art. 7 TUE).
La Corte di Giustizia ha respinto tutti e quattro i motivi, partendo dalla considerazione per cui la locuzione <<voti espressi>> sia da interpretare come esclusivamente riferibile ai voti effettivamente espressi, e non alle astensioni. Prima di poterlo fare, tuttavia, ha dovuto risolvere una questione fondamentale circa la ricevibilità del ricorso, e cioè circa la possibilità stessa di poter impugnare la risoluzione con cui il Parlamento adotta una proposta motivata ex art. 7, par. 1 TUE, alla luce degli artt. 269 e 263 TFUE.

Per rispondere al quesito la Corte ha probabilmente speso il percorso argomentativo più interessante dell’intera decisione, superando da una parte le conclusioni avanzate dal Parlamento europeo, e dall’altra quelle presentate dell’Avvocato generale Michal Bobek.
Il primo, infatti, ha argomentato nel senso di escludere la competenza della Corte di Giustizia sulla risoluzione impugnata sulla scorta di un’interpretazione dell’art. 269 TFUE quale lex specialis – rispetto all’art. 263 TFUE – diretta ad escludere un controllo giurisdizionale, seppur riguardo a profili procedurali, sugli atti adottabili ex art. 7 TUE che non siano constatazioni del Consiglio europeo o del Consiglio.
Tale interpretazione dell’art. 269 TFUE sarebbe – a detta del Parlamento – l’unica capace di tutelare l’elevato tasso di politicità della procedura di cui all’art. 7 TUE: ogni altra interpretazione finirebbe, insomma, per spostare sul piano giurisdizionale una discussione che invece è e dovrebbe rimanere prettamente politica.
D’altra parte, sostiene sempre il Parlamento, neppure sarebbe ammissibile immaginare un controllo giurisdizionale pieno ex art. 263 TFUE poiché mancherebbe la produzione di effetti giuridici nei confronti di terzi, in quanto: a) la risoluzione non vincola il Consiglio al darvi o meno seguito; b) anche quando si prendesse in considerazione la risoluzione nel contesto dell’articolo unico del protocollo (n. 24) sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea – per il quale l’avvio della procedura di cui all’art. 7, par. 1 TUE nei confronti di un Paese membro rende questo privo dello status di paese sicuro, con la conseguenza per gli altri Paesi membri di poter prendere in esame e dichiarare ammissibile una richiesta d’asilo proveniente da un cittadino dello Stato membro interessato – ciò non modificherebbe la qualità di detta risoluzione come misura intermedia e non definitiva.

L’Avvocato generale, da parte sua, ha proposto un approccio interpretativo del tutto opposto. Partendo, infatti, dal presupposto per cui <<l’Unione europea è un’Unione di diritto, nel senso che le sue istituzioni sono soggette al controllo della conformità di tutti i loro atti, segnatamente, ai Trattati, ai principi generali del diritto nonché ai diritti fondamentali>>, e dalla circostanza per la quale dopo il Trattato di Lisbona la Corte di Giustizia ha competenza – eccetto esclusioni espresse – su tutti gli atti dell’Unione che producano effetti giuridici, egli ha considerato l’art. 269 TFUE come norma sistematicamente preposta a specificare una competenza della Corte (quella sugli aspetti procedurali relativi alle constatazioni del Consiglio europeo e del Consiglio ex art. 7 TUE), lasciando impregiudicata però la competenza ex art. 263 su tutti gli altri atti adottati nell’appena menzionata procedura.
Da qui, dunque, l’impugnabilità ex art. 263 TFUE della risoluzione con cui il Parlamento ha adottato la proposta motivata di cui all’art. 7, par. 1.

Dovendo ora passare al percorso argomentativo adottato dalla Corte, occorre segnalare come quest’ultima – seppur concludendo per la ricevibilità del ricorso – sembra far proprio, oltre all’approccio sistematico proposto dall’Avvocato generale, anche quello funzionale avanzato dal Parlamento.
La Corte parte dal presupposto per cui a) le risoluzioni del Parlamento non sono menzionate nell’art. 269 TFUE, e b) lo stesso articolo deve essere interpretato in maniera restrittiva in quanto limitazione della competenza della Corte sugli atti delle Istituzioni dell’Unione; da qui il primo approdo intermedio per cui la risoluzione impugnata non rientra tra gli atti esclusi dal controllo giurisdizionale. Ciò premesso, la Corte si appresta a valutare l’ammissibilità di un controllo giurisdizionale ex art. 263 TFUE, con specifico riferimento agli effetti giuridici prodotti: <<Nel caso di specie, occorre rilevare che l’adozione della risoluzione impugnata avvia la procedura prevista all’articolo 7, paragrafo 1, TUE. […] l’adozione della risoluzione impugnata produce l’effetto immediato di revocare il divieto che incombe, in linea di principio, sugli Stati membri di prendere in esame o di dichiarare ammissibile all’esame una domanda d’asilo presentata da un cittadino ungherese. Tale risoluzione modifica quindi, nei rapporti tra Stati membri, la situazione dell’Ungheria nel settore del diritto di asilo. La risoluzione impugnata produce pertanto effetti giuridici vincolanti sin dalla sua adozione e fino a quando il Consiglio non si sia pronunciato sul seguito da darvi>>.
Arrivata, dunque, al punto di poter affermare la possibilità di un controllo giurisdizionale ex art. 263 TFUE sulla risoluzione impugnata – e dopo aver adoperato, seppur in modo parzialmente differente, il criterio interpretativo sistematico proposto dall’Avvocato generale – la Corte decide di valorizzare l’approccio funzionale avanzato dal Parlamento europeo, nella misura in cui questo si pone come opzione obbligata al fine di tutelare il tasso di politicità insito nella procedura di cui all’art. 7 TUE. Difatti, la Corte ammette la possibilità di impugnare la risoluzione con cui il Parlamento europeo adotta una proposta motivata affinché il Consiglio constati l’evidente rischio di una violazione grave dei valori fondanti l’Unione, ma collega tale tutela giurisdizionale a due limitazioni specifiche (una soggettiva e l’altra oggettiva) presenti proprio in quell’art. 269 TFUE preposto a valorizzare l’elemento di politicità presente nella procedura di cui all’art. 7 TUE: <<un ricorso di annullamento introdotto, ai sensi dell’articolo 263 TFUE, avverso una proposta motivata adottata dal Parlamento a norma dell’articolo 7 TUE può essere proposto unicamente dallo Stato membro oggetto di tale proposta entro il termine di due mesi a decorrere dalla sua adozione. Inoltre, i motivi di annullamento dedotti a sostegno di un siffatto ricorso possono vertere unicamente sulla violazione delle norme di carattere procedurale di cui all’articolo 7 TUE>>.

La Corte, sostanzialmente, dà vita ad un nuovo ricorso per annullamento i cui caratteri derivano dall’incontro di due disposizioni, gli artt. 263 e 269 TFUE, plasmando così un ircocervo giuridico che tenta di porsi da un lato a difesa del concetto di Unione europea come unione di diritto – tutelando perciò uno degli elementi essenziali della rule of law, e cioè la tutela giurisdizionale – e dall’altro valorizza la funzione della procedura di cui all’art. 7 TUE quale strumento di extrema ratio (sul punto, v. sempre su questa Rivista), connotato da una marcata politicità.
Ad ogni modo, alla luce dell’attivazione della procedura di cui all’art. 7 TUE nei confronti dell’Ungheria e della Polonia (sul punto v. proposta della Commissione del 20 dicembre 2017) e del loro stallo, e alla luce pure dell’appena descritto approccio della Corte, la quale finisce comunque per preferire un approccio formale-procedurale sul piano della tutela giurisdizionale, astenendosi dal valutare nel merito la risoluzione oggetto di ricorso, l’impressione che sembra riconfermarsi è quella per cui l’Unione e le sue Istituzioni rischino di cadere nella trappola del formalismo e/o dell’effetto annuncio.
Infatti, questa decisione – pur difendendo la necessità di un controllo giurisdizionale esteso a tutti gli atti adottati dalle Istituzioni dell’Unione – non arriva ad abbracciare l’opzione avanzata dall’Avvocato generale, la quale avrebbe permesso dal canto suo un sindacato anche nel merito rispetto alla risoluzione impugnata.
Tale approccio, che potremmo forse definire autolimitante, non è d’altronde totalmente nuovo per gli osservatori e gli studiosi delle vicende europee. Da ultimo, infatti, sempre nel contesto della protezione dei valori di cui all’art. 2 – e precisamente dello Stato di diritto -, l’Unione ha dimostrato un’attitudine al formalismo che finisce per fallire, o comunque ridimensionare gli obiettivi che si propone; uno degli esempi più recenti che viene all’attenzione è il Regolamento UE n. 2092 del 2020 con il quale si è istituito un meccanismo di condizionalità economica il quale sanziona le violazioni dello Stato di diritto soltanto quando queste siano occasione di pericolo per il bilancio dell’Unione; al momento della sua proposta, tale regolamento aveva ambizioni ben superiori, intento a porsi quale strumento di tutela generale dello Stato di diritto, e non invece del solo bilancio. Una posizione di compromesso che certamente provoca alcune perplessità.
In entrambi i casi – in quello oggetto di queste brevi considerazioni e in quello relativo al Reg. Ue 2092/2020 – appare affermarsi un approccio che, se certamente è comprensibile dal punto di vista politico, non lo è altrettanto nella prospettiva di uno spazio giuridico tendente ai caratteri di un ordinamento costituzionale. La decisione in commento è certamente un approdo rilevante e un’opzione preferibile alla generale esclusione del controllo giurisdizionale sugli atti menzionati; e tuttavia, rende l’idea di un passo del processo di integrazione che potrebbe procedere con maggiore decisione.