Se prevarranno i partiti fondamentalisti

Analizzando l’evoluzione politico-costituzionale della Turchia, Bernard Lewis osserva come il Pese viva un’insanabile contraddizione, un paradosso culturale se si vuole: più la Repubblica si democratizza, più si islamizza. Questa osservazione suggerisce all’Autore una fosca previsione: nel prossimo decennio la nazione che fu di Atatürk potrebbe somigliare in futuro al regime degli ayatollah iraniano. È questa una profezia che assume una dimensione decisiva ed inquietante alla luce delle recenti rivoluzioni che hanno interessato il quadro mediorientale.

Di certo l’islamismo militante si sta organizzando ed uno profili costituzionali più rilevanti della crisi mediorientale riguarda il ruolo delle formazioni d’ispirazione religiosa nel sistema partitico. In Egitto, i Fratelli musulmani da anni inseguono il sogno califfale e David Schenker (responsabile del dipartimento di arabistica al Washington Institute for Near East Policy) calcola che, in caso di elezioni libere, essi potrebbero raggiungere il 40% dei consensi. Intanto, in attesa delle politiche, col referendum costituzionale del 19 marzo, la fratellanza incassa un “sì” bulgaro, la prima vittoria contro il fronte laico (dal partito Wafd al Ghad di Ayman Nour, il partito di sinistra del Tagammu, i nasseriani, i giovani di piazza Tahtir, ma anche i due potenziali alla presidenza Mohamed el Baradei e Amr Mussa).

La novità più importante riguarda la durata del mandato presidenziale. Sotto Mubarak, il mandato durava sei anni ed era rinnovabile all’infinito. In base alle nuove norme si può essere eletti presidente per non più di due mandati di quattro anni ognuno. Il capo dello stato, in base al nuovo testo, è inoltre obbligato a nominare un vice, mossa che Mubarak, al potere per 31 anni, ha fatto solo a gennaio scorso, nominando il capo dell’Intelligence Omar Suleiman nel tentativo di sedare la rivolta. La riforma elimina inoltre le più macroscopiche restrizioni al diritto elettorale attivo e passivo, istituisce il controllo delle elezioni da parte della magistratura e abolisce del potere presidenziale di ordinare processi militari contro i civili. La commissione di esperti giuristi incaricata di elaborare il testo, per ora, non ha messo mano alle norme relative ai poteri del presidente, che per 31 anni hanno garantito, in pratica, l’onnipotenza a Mubarak. L’indicazione della commissione è che queste norme siano riscritte dopo le elezioni presidenziali e politiche, da parte del nuovo parlamento (Corriere della Sera, 20 marzo).

Al di là del dato costituzionale, nella mente dell’osservatore rimarranno comunque indelebili scene d’altri tempi, con pulmini organizzati per portare intere famiglie al voto (mai visti 14 milioni di egiziani alle urne); il che a parere di molti analisti dimostrerebbe proprio la capacità organizzativa dei fratelli musulmani non più solo nelle campagne e fra i ceti medi impiegatizi ma anche e soprattutto nel grande proletariato urbano. L’approvazione, arrivata con oltre il 77% dei consensi, segna infatti non solo il successo della riforma costituzionale elaborata dai militari nell’intento di progredire nell’opera di normalizzazione democratica del Paese, ma anche l’avvicinarsi della scadenza elettorale che il più disorganizzato fronte laico ha tentato inutilmente di disinnescare invitando a votare per il “no”. Gli egiziani, sempre con questa scelta, hanno infine optato per modificare e non riscrivere la vecchia costituzione del 1951. Hanno dunque scelto che la sharia rimanga la base della legge egiziana e che l’Egitto continui a essere uno stato islamico.

In Tunisia, la legalizzazione del movimento islamico Ennahda è un’altra spia del nuovo protagonismo dei partiti religiosi. Ma, come osserva Vittorio Emanuele Parsi, la vera bomba a orologeria che occorre disinnescare è il possibile incrocio fra i sentimenti delle piazze arabe e la questione palestinesi con Hamas – branca palestinese dei fratelli musulmani – pronta a fungere da punto di raccordo per riportare Israele all’isolamento degli anni sessanta, «quando gli ebrei erano circondati dai nemici della sua esistenza». Dopo Israele, la seconda vittima predestinata dell’estremismo islamico sarebbe evidentemente il mondo cristiano, sia quello d’occidente (con un eventuale risveglio del terrorismo internazionale) che quello delle minoranze del Medio Oriente a cui, in molti paesi dell’area, sono riservate le forme più gravi di razzismo contemporaneo, sia nell’amministrazione pubblica che nella società civile.

Nella prima puntata di questa rubrica, parlando dei disordini scoppiati in Siria, Yemen, Bahrein e accennando al contesto sciita di Libano ed Iran, si era avviata un’analisi al di fuori di quei regimi già rovesciati o comunque in stato di aperta disgregazione. Con l’intento di allargare ulteriormente il quadro dell’analisi, in riferimento al ruolo dei partiti fondamentalisti nei percorsi di transizione costituzionale, ci sia permessa un incursione in Giordania. Il regno di Abdullah, assieme con quello del Marocco di Mohammed VI, è uno dei pochi paesi arabi in cui si sia intrapresa la strada delle riforme economiche e politi¬che ma che certo non è immune dai timori di disordi¬ni provocati dalla situazione economica – la crescita si è più che dimezzata dal 7,6 per cento del 2008 al 3,4 dello scorso anno e la disoccupazione è intorno al 13 per cento; il malcontento popolare ha raggiunto anche la bella ed elegante regina Rania del clan di origene palestinese Yassin, accusata, dalle maggiori tribù, di corruzione e di aver aiutato, tra il 2005 e il 2010, 78mila palestinesi ad ottenere la cittadinanza (Tatiana Boutourline scirve che il festeggiamento sfarzoso dei quarant’anni della Regina tra le dune di Wadi Rum hanno stimolato dei paragoni con Maria Antonietta). Sul punto, seguiamo l’analisi di Carlo Panella (Il Foglio, 2 febbraio). La Giordania ha 6 milioni di abitanti e il 40 per cento dei cittadini è palestinese, dato che il governo di Amman è l’unico che concede loro la cittadinanza. In Giordania la Fratellanza è un movimento legale, par¬tecipa alle elezioni – nel 1991 entrò a far parte dell’esecutivo – e non ha mai raccol¬to più del 20 per cento dei suffragi. Per l’Autore è un dato indicativo per chi teme che, nel caso di libere elezioni, i Fratelli musulmani prenderebbero di sicuro il controllo del¬l’Egitto. In Giordania, grazie alla politica lungimirante cominciata da re Hussein, il padre di re Abdullah, i Fratelli musulma¬ni sono profondamente divisi. L’ala dura fa riferimento ad Hamas (la sezione palesti¬nese della Fratellanza) ed è capeggiata da Abil Abul Sukkar, che nel congresso del Fai della primavera scorsa ha conquistato la maggioranza. Ma è molto forte, anche se minoritaria, anche una componente moderata che non riconosce la leadership di Abil Sukkar e che l’Autore, per dare un’idea, definisce di marca “democristiana”. E’ infatti composta da notabili radicati sul territorio (anche molti palestinesi profughi da decenni dai Territori), che la monarchia hashemita ha coinvolto sia nella gestione delle amministrazioni locali, sia nei pro¬getti economici (a iniziare dagli appalti pubblici).

Infine, in Siria (Paese su cui ci si è soffermati nel primo episodio della nostra saga mediorientale), le prime riforme decise da Bashar al Assad per evitare la sorte di Ben Ali e Hosni Mubarak sono state l’abolizione del divieto per le insegnanti di presentarsi a scuola con il niqab – velo integrale sul viso – e la chiusura del Casinò di al Qamar, misure oscurantiste per il Foglio dell’8 aprile, che mettono in luce “l’incopetenza di chi in occidente definisce il regime siriano (come quello egiziano, iracheno, algerino o yemenita), come laico e non sa che niqab e chiusura del casinò sono invece coerenti con 40 anni di legislazione baathista. La verità storica inconfutabile è che tutti i regimi arabi, eccetto Tunisia, Giordania e Marocco, hanno adotato il modello di Costituzione islamica elaborato dai più reazionari giureconsulti wahabiti-salafiti dell’Arabia Saudita nel 1978”.

Chi comanda dunque in Medio Oriente? Il caso particolare della Giordania descritto ora da Panella, non ci fa retrocedere dal pensare che, per il momento le Moschee sembrano avere più potere di Facebook e Twitter che l’Economist definisce disorganizzati. Ma una disamina costituzionale rigorosa non può non considerare il ruolo dell’altro grande protagonista del momento, c’est à dire l’esercito. Discorso che affronteremo nel prossimo episodio della Rubrica. Per oggi, si può concludere anticipando che, ad una pur breve rassegna dei fatti di cronaca, l’ondata rivoluzionaria che sta dilagando nella “piazza araba” sembra porre la regione di fronte ad un bivio spericolato e tutto mediorientale: una nuova spinta militarizzata da una parte e il rischio di un’islamizzazione radicale sul modello della teocrazia degli Ayatollah targato Iran ‘79. Seppur con sfumature differenti, i regimi rovesciati o in corso di decomposizione, al netto delle stagioni di feroce repressione interna e di donchisciottismo internazionale, avevano tutti infatti funzionato come argine all’islamismo radicale, esprimendo, di volta in volta, miscele (anche fantasiose) di secolarismo, socialismo, militarismo autoritario e nazionalismo (più o meno pan-arabizzante), anche in grado di mantenere (almeno) una parvenza di pax religiosa. Perfino la Libia del Colonnello, da acerrima nemica dell’Occidente, si era esposta negli ultimi anni, e significativamente con lo Stato italiano, sul fronte di un riavvicinamento verso l’Europa e gli Stati Uniti, con una marcia al medesimo tempo solenne e bizzarra (la cui punta più significativa si è toccata il 21 luglio 2007 con la conquista per la Libia della presidenza del Comitato preparatore della seconda Conferenza Onu contro il razzismo, prevista per il 2009). E se alle urne prevarranno i partiti fondamentalisti? Un responso elettorale giudicato sostanzialmente corretto dagli osservatori, portò Hamas a stravincere le elezioni parlamentari palestinesi nel 2006, non è questa la democrazia?

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