Sono davvero universali i diritti “universali”? (a proposito di migrazioni di massa, fili spinati e transumanze)*

Migration, we have seen, is the oldest action against poverty. It selects those who most want help. It is good for the country to which they go, it helps to break the equilibrium of poverty in the Country from which they come…

John Kenneth Galbraith, “The nature of mass poverty”, 1979

  

Un interrogativo ineludibile. – In questo momento in cui le cronache ci restituiscono, drammaticamente e con una cadenza quasi quotidiana, scene terribili fatte di tragedie del mare, fili spinati lungo le frontiere, transumanze inenarrabili a cui sono costretti migliaia e migliaia di derelitti – donne, uomini, bambini, anziani – che in massa reclamano con forza di entrare in Europa, il tema dei diritti umani si impone di nuovo all’attenzione dei giuristi nei suoi termini più generali.

Sarò più preciso. Nel sistema della famosa Dichiarazione ONU del 1948 e dei due Patti del 1966, che formano nel loro insieme il cosiddetto Bill of Rights internazionale, i diritti umani sono qualificati innanzi tutto come diritti <<universali>>. Li definisce <<universali>> anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, mentre a sua volta discorre di valori <<universali>>, in relazione ai diritti che vi trovano compiuta disciplina, la Carta di Nizza del 2000, equiparata ai Trattati europei per effetto di Lisbona.

Dalla premessa che certi diritti sono <<umani>> in quanto ineriscono a <<ogni persona>>, deriva infatti per conseguenza necessaria che tali diritti appartengono o dovrebbero appartenere a <<chiunque>>, sia nel Paese di residenza, e sia ovunque in altri Paesi, fatte qui salve alcune imprescindibili limitazioni di legge: ordine pubblico, sicurezza interna, sanità; e fatti salvi inoltre alcuni essenziali diritti politici da riconoscere ai soli cittadini.

Davvero oggi le cose stanno così? Davvero oggi i diritti umani sono universalmente riconosciuti? Davvero oggi i diritti umani sono riconosciuti egualmente a <<chiunque>>, quanto meno nei Paesi occidentali? In parole povere, il quesito a cui occorre rispondere è se i diritti definiti <<universali>> (perché <<umani>> ) sono davvero universali, e pertanto << umani >>, oppure no.

Per me, il punto di partenza sarà il sillogismo di Rawls.

Diritti <<universali>>, una tesi “negazionista”. – John Rawls, nel libro  The Law of Peoples (1999) sviluppa un ragionamento che sintetizzo nel modo che segue.

  • I diritti umani sono per definizione diritti che si applicano a qualunque persona senza riguardo al tipo di società in cui questa vive; in questo senso i diritti umani hanno un carattere pre-istituzionale.
  • Molti (presunti) diritti umani sono condizionati nel loro stesso esistere dalla presenza di certe istituzioni, come il Welfare State (nel caso dei diritti economici e sociali), o come un sofisticato sistema legale (nel caso dei diritti connessi al giusto processo) – istituzioni che non esistono ovunque, né sempre sono esistite, nelle varie società umane.
  • Ne consegue che molti (presunti) diritti umani, non potendo prescindere dal tipo di società e di cultura in cui le persone vivono, non sono in realtà diritti umani.

Il ragionamento di Rawls, in poche parole, è quello di far coincidere la universalità dei diritti con la loro vigenza sempre e ovunque. Solo i diritti riconosciuti da tutti i popoli in tutte le epoche dell’umanità sarebbero <<universali>> e quindi verrebbero a meritare davvero la qualifica di <<umani>>.

Questo ragionamento non riesco a condividerlo. I diritti umani, per me, sono <<universali>> anche se non sono atemporali, anche cioè se non furono riconosciuti nel passato remoto; e sono <<universali>> anche se non hanno globalità spaziale, anche cioè se non sono riconosciuti ovunque nel presente.

Mi spiego.

I diritti <<universali>>, un gradino della civiltà. – Rawls trascura di considerare, o intende negare, che la cultura politica è necessariamente un processo, una costruzione: un Work in Progress. Un processo che avanza – pur tra battute di arresto e improvvisi arretramenti – verso la conquista di una misura crescente di libertà, verso l’estendersi dei diritti riconosciuti all’individuo, verso l’acquisizione di un grado sempre maggiore di giustizia e di sicurezza sociale, verso forme di pacifica convivenza internazionale. Se, quindi, nell’antica Roma <<madre del diritto>> e nella sofisticata civiltà ellenica (e qui mi limito alla civiltà greco-romana, la più evoluta del mondo antico) non esisteva la cultura dei diritti come limite del potere, e ancor meno esisteva la loro protezione giudiziaria nei confronti del potere, ciò dipende essenzialmente dal fatto che sia l’una che l’altra erano solo all’inizio – ma già all’origine – di un lungo cammino che condurrà – prima in Occidente, e successivamente anche al di là degli stretti confini del mondo occidentale – all’affermarsi della dottrina del primato del governo delle leggi sul governo degli uomini, primato che si pone alla base del moderno Stato di diritto, e a stabilire un legame forte tra diritto e giustizia; in altre parole a stringere le maglie della legalità attorno al potere, a garanzia dei diritti essenziali dell’individuo e dei popoli. Questo vale per il passato.

Diritti <<universali>> e globalità spaziale. – Per l’oggi, il ragionamento da fare è diverso ma il risultato è lo stesso. Sostiene Rawls che il carattere universale di molti dei diritti umani sarebbe smentito dal fatto che tali diritti, mentre sono riconosciuti nel mondo occidentale o maggiormente occidentalizzato dove sono protetti dallo Stato e goduti dai cittadini in misura apprezzabile, non lo sono affatto o lo sono in misura trascurabile in altre aree del mondo contemporaneo. Sicché lo stesso carattere <<umano>> di tali diritti sarebbe più apparente che reale; essi avrebbero cioè una connotazione essenzialmente ideologica.

Non è così. L’errore di Rawls consiste nel fatto che la universalità dei diritti umani non è un concetto statico, come vorrebbe Rawls; al contrario, è una situazione di tendenza e progressiva. Il ragionamento da fare, in altre parole, non è del tipo:<< qui si, là no>>; ma è del tipo: << ieri qui no, oggi si>>; <<oggi là no, domani si>>;<< qua ieri si, oggi meglio>>. Questo è il ragionamento corretto da fare. Provo a dimostrarlo.

L’approvazione nel dicembre del 1948 della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite avveniva con il voto favorevole di 48 Stati, nessun voto contrario e 8 astensioni: l’Unione Sovietica e le cosiddette <<democrazie popolari>> del blocco comunista, l’Arabia Saudita e il Sud Africa. I 48 Stati favorevoli salgono a 170 nel 1993, quando la Conferenza mondiale di Vienna si riunisce per riflettere sul valore, sullo stato di salute e sul futuro dei diritti umani. Sono Stati di ogni continente, cultura e religione. I loro rappresentanti ribadiscono la perdurante forza morale e il carattere universale della Dichiarazione del 1948, splendida creazione dello spirito umano. Non solo. Nel firmare il <<Programma d’azione>>, frutto operativo della Conferenza, essi riconoscono come un <<obbligo degli Stati>> quello di <<proteggere e tutelare tutti i diritti umani e le libertà fondamentali>>, anche se le differenze che si riscontrano tra i rispettivi sistemi economici e politici non possono non condizionare i tempi e le modalità della loro realizzazione (Dichiarazione di Vienna e Programma d’azione, Parte I, punto 5).

  Il fatto è che l’ONU attraverso la Dichiarazione Universale del 1948 è riuscita nell’impresa di mettere in moto un processo volto a tradurre in norme giuridiche rigorose i precetti etico-politici della Dichiarazione. Quella spinta, si propaga da allora in lungo e in largo con la forza di un potente fattore pervasivo e autopropulsivo e si sviluppa con una crescente capacità di implementazione in un numero sempre maggiore di ordinamenti giuridici nazionali. Passano infatti appena due anni dalla Dichiarazione di New York, e già nel 1950 13 Stati europei, e tra questi l’Italia, decidevano di mettere i diritti dell’uomo sotto l’ombrello protettivo della CEDU.

Trascorrono pochi anni, e un nuovo anello della catena segue nel 1966. I due Patti ONU, sottoscritti al momento della loro conclusione da 46 Stati, hanno visto negli anni successivi l’adesione di altri 116 Stati al Patto sui diritti civili, e di altri 113 al Patto sui diritti sociali; sicché sono adesso 162 gli Stati aderenti al primo (tra i quali – ad esempio – l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq; e molti dei 162 hanno aderito dopo il 1° gennaio 2000, e tra questi Cuba, il Ghana, la Guinea Bissau, la Repubblica democratica del Laos, il Pakistan), e 159 gli Stati aderenti al secondo, cioè al Patto sui diritti sociali.

Ma la diffusione spaziale dei diritti umani e della loro protezione non si ferma qui. Il 22 novembre 1969 veniva adottata la Convenzione americana sui diritti umani, il cosiddetto <<Patto di San Josè, Costa Rica>>. Inizialmente sottoscritta da 12 Stati, oggi conta 34 Stati aderenti, 21 dei quali hanno anche accettato la competenza della Corte interamericana. Ancora. Il 21 giugno 1981 nasce a Nairobi la Carta africana dei diritti umani e dei popoli, ACHR, la quale entra in vigore il 21 ottobre 1986. A questa data l’avevano sottoscritta 28 Paesi; adesso ne fanno parte, adesione dopo adesione, tutti i 53 Stati membri dell’Unione Africana.

Non è tutto. E’ infatti la stessa efficacia della garanzia fornita dagli strumenti generali sui diritti umani che è andata aumentando notevolmente nel corso degli anni. Soprattutto da quando, in momenti diversi per i singoli strumenti, si è dato il via libera ai ricorsi individuali, esperibili – secondo il principio di sussidiarietà – <<dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne>>. Il che significa, in poche parole, che se l’ordinamento nazionale offre rimedi alternativi nei confronti degli atti lesivi dei diritti, è di questi che l’interessato deve preliminarmente fare uso; e solo dopo averli inutilmente adoperati si potrà adire la Corte, istituita nel quadro di ciascuno dei tre strumenti di portata regionale dove un tale meccanismo funziona (cioè la CEDU, il Patto di San Josè e l’ACHR, nonché il Comitato ONU previsto dal Patto sui diritti civili del 1966).

Una conclusione interlocutoria. – Quando si analizza, anche da parte di un giurista, il concetto di universalità dei diritti umani, è impossibile prescindere da un atteggiamento culturale largamente diffuso, il quale ha avuto certamente un qualche influsso sulla opinione stessa di Rawls, alla quale mi sono riferito come il punto di partenza del mio intervento.

Si è affermata negli ultimi decenni una interpretazione, frutto di un certo relativismo culturale, in base alla quale tutte le creazioni delle diverse civiltà, così del presente come del passato, devono considerarsi equivalenti tra di loro essendo strettamente legate alla fisionomia di ogni singola civiltà. La stessa civiltà occidentale è soltanto una delle tante civiltà esistenti, esistite e che verranno ad esistere. Le istituzioni su cui essa ha potuto edificarsi, i valori che essa solennemente proclama come <<universali>> – e tra questi i diritti <<umani>> e le libertà <<fondamentali>> – perdono in realtà significato fuori dal perimetro dei suoi confini. Questa è la posizione del relativismo a proposito dei diritti umani. Occorre dare una risposta. La civiltà occidentale è stata definita <<civiltà dei diritti e delle libertà>>. Questi diritti e queste libertà sono il prodotto di una secolare evoluzione e maturazione. Dunque, non possono definirsi <<naturali>>. Il che però non significa che essi non possano avere un valore universale. Anche la scienza è un prodotto culturale, tipico della civiltà occidentale. Ciò non di meno essa presenta  caratteri oggettivi e universali. Non esiste una scienza comunque etichettabile. Esiste la scienza. Analogamente, possiamo riconoscere un valore oggettivo e universale ad alcuni dei diritti sorti sul terreno della cultura occidentale.

Due problemi. – Tutto bene, allora? Va tutto dunque secondo una linea di progresso? No, non esattamente. Vi sono infatti due problemi che chiamano in causa, e l’uno e l’altro, il confine dello Stato, dei singoli Stati. Vi sono Paesi in cui i diritti essenziali non sono riconosciuti all’interno delle frontiere nazionali. Vi sono Paesi dove, al contrario, tali diritti non sono riconosciuti al di fuori delle frontiere nazionali a chi bussa per entrare nel Paese in cerca di cibo lavoro e incolumità personale. Sono due situazioni diverse che analizzerò in breve, prima l’una, poi l’altra.

 

Diritti negati all’interno. – Vi sono Paesi, lo abbiamo appena detto, che negano i diritti essenziali a tutti coloro, cittadini e stranieri, che risiedono all’interno dei confini nazionali; o li riconoscono solo nominalmente. Il fatto è che i diritti sono esigenti. Il diritto, in altre parole, non ha la bacchetta magica. Che il comportamento degli Stati nell’insieme delle loro istituzioni politiche e dei loro tribunali si conformi effettivamente alle norme giuridiche, e nel nostro caso ai princìpi degli accordi internazionali di tutela dei diritti umani e al Bill of Rights ormai presente oggi in tutte o quasi tutte le Costituzioni nazionali, è un fatto che sfugge come tale al controllo del diritto. In altre parole, una cosa è la validità delle norme, altra cosa è la loro effettività. Così, non bastano – lo ripeto – Carte e Patti debitamente stipulati e ratificati in materia di diritti umani, né basta la formale vigenza di analoghi atti interni per essere certi che le norme che vi sono contenute saranno davvero applicate in ogni Stato, quale che ne sia lo <<Statuto politico>>. Il fatto è, lo ribadisco, che i diritti umani sono esigenti. Questo è il vero ostacolo alla loro universalità. Il sistema delle garanzie giuridiche dei governati di fronte allo Stato è inscindibile dalla formazione di una società civile autonoma e ricca di contro/poteri e della conseguente nascita dell’opinione pubblica, basata su ciò che Kant chiama <<uso pubblico della ragione>>. Attraverso una infinita serie di lotte, step by step, i governati – un tempo sudditi, destinatari senza diritto di replica delle decisioni dei governanti – sono diventati cittadini, titolari di un pacchetto di diritti fondamentali che lo Stato deve riconoscere e tutelare. Il che non può prescindere da libertà politiche, democrazia, pluralismo. E dal mercato. E dalla proprietà privata.

Naturalmente ogni Paese che si è aperto alla cultura dei diritti (l’India, per esempio, e la Corea del Sud) ha dato del modello istituzionale occidentale una interpretazione adeguata al suo specifico contesto. Ma questa è un’altra questione.

 

Diritti negati all’esterno. Anche l’Occidente diventa un problema. – La cultura dei diritti e la loro effettiva protezione  politica e giudiziaria, lo abbiamo visto, è legata ad una struttura costituzionale ben definita. Questo spiega la ragione per cui la universalità dei diritti umani, prefigurata al più alto livello politico dalla Dichiarazione ONU del 1948, tarda a coincidere con la loro effettiva universalizzazione, per così dire, “spaziale”. L’idea, in altre parole, che tutti gli <<esseri umani>> sono provvisti di un insieme di comuni diritti e doveri è tuttora dichiaratamente rifiutata o fintamente accettata in molte aree del mondo. Angelo Panebianco ha scritto nei giorni scorsi: <<Andate a spiegare, ad esempio, a quelli dello Stato islamico che siamo tutti “cittadini del mondo” o magari “tutti figli di Dio”. Proveranno a tagliarvi la gola prima ancora che abbiate finito la frase>>.

Un punto fermo tuttavia esiste, e lo abbiamo detto e ripetuto più volte. I diritti primari sono soggettivamente universali, valgono cioè, o dovrebbero valere verso <<chiunque>> quanto meno negli Stati appartenenti al mondo occidentale, un mondo “garantista” per tradizione ormai consolidata. Così, a fil di logica, la universalità dei diritti essenziali dovrebbe affermarsi senza troppi ostacoli – salvo le limitazioni dovute a motivi di ordine pubblico, sicurezza interna e sanità – anche nei confronti  di qualunque individuo si presenti alla frontiera di uno di tali Stati al fine di circolarvi e soggiornarvi liberamente, o di transitare in quel territorio. Infatti, è fondamentalmente attraverso l’esercizio di una tale libertà che uomini e donne a cui i diritti essenziali sono negati nel Paese d’origine, possono a poco a poco finalmente diventare <<eguali in dignità e diritti>>.

Le cose stanno però diversamente. Qui la universalità dei diritti incontra lo Stato. A dispetto di chi preferisce considerarlo poco più che un impaccio, un inutile ingombro, un fossile da trasportare in qualche museo degli orrori, lo Stato è una dura realtà. Ora, è facile dimostrare che lo Stato presenta per sua stessa natura un connotato “escludente” e discriminatorio verso chiunque non abbia avuto la ventura di nascere entro i suoi confini. Dietro al concetto di “confine dello Stato”, e cioè dietro al diritto degli Stati di impedire l’ingresso di stranieri all’interno del proprio territorio e di espellere gli stranieri in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, vi è infatti il potere dello Stato di difendere l’ordine realizzato all’interno della comunità contro interferenze esterne.

Qui si pongono svariati problemi. Ne indico due, i più importanti.

Il primo problema riguarda gli stranieri “irregolari”, i cosiddetti “clandestini”. Sul piano formale, essi – quanto meno all’interno degli Stati europei – hanno accesso come tutti al godimento dei diritti umani: libertà personale, di domicilio, di corrispondenza, di manifestazione del pensiero, e così via. Di fatto, appena scoperti, essi possono essere rimpatriati anzi lo dovrebbero essere a norma di legge. Ciò li pone in una situazione di eccezionale debolezza e di ricatto continuo e permanente che si manifesta in ogni ambito di attività e principalmente sul terreno del lavoro e della retribuzione, presupposto per una vita libera e dignitosa.  Circola così in Europa e in altri Stati occidentali un folto esercito di zombie, stimati complessivamente in oltre 20 milioni: donne e uomini sottoprotetti, i quali, a differenza degli esseri umani pleno jure, non hanno altro che l’obbligo di restare invisibili alla legge, pena la loro espulsione. La proposta che vorrei fare al riguardo è di premiare con il permesso di soggiorno la clandestinità immacolata che si protragga per un certo periodo. Quello che propongo, in altre parole, è una sorta di amnistia premiale.

Un secondo problema riguarda lo Stato nel suo ruolo di agente ordinatore e promotore in relazione agli interessi della collettività che in esso si organizza. Come tale, lo Stato agisce nel segno della razionalità. E chi ragiona si fa guidare soprattutto dal calcolo di utilità. Soppesa vantaggi e svantaggi. Questo fa lo Stato sempre e in ogni circostanza, anche quando deve fronteggiare, come accade agli Stati europei in questi giorni, potenti ondate migratorie. Sì, certo, l’attraversamento delle frontiere è materia regolata minuziosamente dal diritto. Vi sono nei vari Paesi norme di diritto interno anche di rango costituzionale. Vi sono poi apposite Convenzioni internazionali: la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, del 1951, è la più importante. All’interno dell’Unione europea vi sono norme ad hoc nei Trattati e nella Carta di Nizza. Vi sono gli accordi di Schengen del 1985, e ancora vi è la Convenzione di Dublino. Si tratta di Accordi che intervenendo in alcuni casi in favore dei rifugiati, finiscono per discriminare tra migranti protetti, che fuggono dagli orrori della guerra, e migranti non protetti, che sono alla ricerca di una vita migliore. Ma quando i migranti diventano massa, allora rifugiati e derelitti vanno incontro ad un medesimo destino. I respingimenti a raffica, da una parte; e dall’altra la transumanza di centinaia di migliaia di uomini donne e bambini, in maggior parte siriani, sballottati da un confine all’altro. Nei giorni scorsi la Croazia ha dichiarato di non poterli accogliere e si è organizzata per condurli al confine con l’Ungheria, la quale a sua volta li ha dirottati verso l’Austria, quasi fossero un gregge. L’Austria dal canto suo potrebbe chiudere le frontiere da un momento all’altro.

Il fatto è che lo Stato è una grande realtà economica. Qui opera il principio che nessuno può attingere a fondi pubblici senza aver partecipato a quella speciale fabbrica di ricchezza in cui lo Stato consiste. La chiave per intendere il punto sono i diritti sociali. Il godimento  di alcuni dei diritti sociali è correlato all’adempimento degli obblighi tributari e contributivi, a loro volta collegati alla produzione di un reddito. Ora, se l’afflusso di migranti – rifugiati o semplici derelitti che siano – dovesse oltrepassare (anche solo di poco, e a più forte ragione se di molto o di moltissimo) il fabbisogno di forza-lavoro che lo Stato X registra nel momento dato, quel surplus di uomini e donne provenienti dall’esterno verrebbe a pesare sulla comunità nazionale in termini di assistenza sociale, almeno per un periodo non breve, con un conseguente aggravio fiscale che a quel punto potrà diventare troppo pesante e al limite insostenibile.

Tutto questo significa che gli elementi selezionatori (chi entra, chi resta fuori) sono due, il mercato del lavoro e il bilancio pubblico. In una parola, decide l’economia. E questo significa, anche, che l’ingresso legale nel territorio dello Stato X si presenta ogni volta, a livello individuale, come una vera e propria lotteria.

 

Conclusione. – Ci siamo chiesti all’inizio del mio intervento se davvero i diritti universali sono <<universali>>. La risposta è “sì”, o è “no” a seconda del punto di vista che preferiamo assumere. Se assumiamo un punto di vista rigorosamente giuridico, e solo un tale punto di vista, allora la risposta non potrà che essere un “no”. Nella sua General Theory of Law and State (1945), Hans Kelsen, il grande Maestro del positivismo giuridico, prendendo in esame i diritti “innati”, scriveva così: <<Solo in quanto diritto positivo, il diritto naturale è rilevante dal punto di vista giuridico>>. Questo vuol dire, molto semplicemente, mettere in evidenza un dato di fatto, e cioè che le valutazioni di ciascun ordinamento giuridico possono differire dalle valutazioni di un altro ordinamento giuridico (anche) in materia di diritti umani. Prendiamo ad esempio la pena di morte, la quale va a colpire il fondamentalissimo diritto alla vita. In teoria essa è bandita da tutti i maggiori Protocolli internazionali. In teoria. In pratica invece la pena di morte continua ad essere prevista ed applicata non soltanto all’interno di Stati che danno esecuzione a regole ancestrali di natura religiosa, o di Stati i cui governi non aderiscono a nessuno degli accordi internazionali in materia di diritti umani, ma è prevista ed applicata anche all’interno di una grande democrazia liberale come gli Stati Uniti, un Paese che pure ha inventato la forma più avanzata di costituzionalismo. Qui la Corte Suprema, attraverso due “storiche” sentenze, ha stabilito che la pena di morte non è proibita <<in sé e per sé>> dalla Costituzione federale: Furman v. Georgia, 408 U.S. 238 (1972) e Gregg v. Georgia, 428 U.S. 153 (1976).

La conclusione di tutto ciò, tratta da un punto di vista rigorosamente giuridico, è che il confine di ciascuno Stato si pone in mezzo tra i diritti umani come ideale morale, e i diritti umani come diritti nel senso tecnico della parola. La loro universalità resta al di fuori del confine; la loro positività relativa si pone all’interno del confine.

Diversamente, la risposta al nostro quesito non potrà che essere un “sì”, i diritti <<universali>> sono davvero universali, se assumiamo un diverso punto di vista, vale a dire il punto di vista “prescrittivo”. I diritti umani come ideale morale possiedono infatti un potenziale energetico straordinario. A partire dalla Dichiarazione della Virginia del 1776 e dalla Dichiarazione francese dei Diritti dell’Uomo del 1789, i diritti umani hanno funzionato come un potente “ideale in marcia” che ha conquistato nel corso del tempo aree sempre più vaste sul terreno del diritto positivo. La storia del costituzionalismo non è stata altro, in effetti, che una serie di tentativi (più o meno riusciti) di rispondere alla “sfida” dei diritti umani. Persino la peculiare tutela dei diritti nel Regno Unito, costruita indipendentemente dalla retorica dei diritti umani, si è dovuta alla fine piegare, con lo Human Rights Act 2000, alla logica sottostante a quei diritti.

In secondo luogo, dire “diritti umani” equivale semplicemente a contestare regimi dispotici e violenti che operano nel più assoluto disprezzo della vita, della libertà e della dignità degli individui. Qui i diritti umani vanno a premere come fattore di indebolimento di quei regimi.

In ultimo, l’ideale dei diritti umani “lavora” incessantemente all’interno di ogni sistema democratico operante. Il mondo reale è sempre una pallida approssimazione dei nostri ideali. L’atteggiamento di chi sostiene i diritti umani nel loro valore assoluto è di operare affinché il dover essere si converta in essere, e dunque affinché anche i confini degli Stati diventino sempre più permeabili, in attesa di un futuro nel quale possa nascere il “villaggio globale”, antico sogno di Immanuel Kant. Ma quel giorno sembra ancora disperatamente lontano . . .

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*  Il presente scritto è destinato alla pubblicazione nel volume che raccoglie gli atti del Convegno «La democrazia costituzionale tra nuovi diritti e deriva mediale. In occasione della presentazione degli Studi in onore di Maurizio Pedrazza Gorlero».