Sospensione di un partito membro dal PPE per mancato rispetto dello stato di diritto: il caso Fidesz, compromesso tattico o soluzione intempestiva?

Il caso Fidesz è un paradigmatico indicatore delle tensioni politico-costituzionali che stanno mettendo a dura prova l’efficacia delle iniziative in ambito europeo per la tutela dello stato di diritto. Sino ad oggi, infatti, la pratica benevolenza adottata verso le cd. new democracies, uscite da un passato autoritario e attratte nel sistema eurounitario, ha comportato un monitoraggio poco severo della compliance ai criteri politici di adesione (cd. criteri di Copenhagen), salvo forse il caso del Meccanismo di Cooperazione e Verifica (MCV) che sorveglia Romania e Bulgaria. Tuttavia, la regressione rispetto allo stato di diritto intervenuta in alcuni paesi dell’Europa centro orientale, fra cui in particolare Polonia e Ungheria, è diventata sempre più conclamata in seguito al rafforzamento di partiti populisti che operano ostentatamente in maniera inconciliabile con i principi della democrazia liberale (cfr. lo studio di G. Halmai, SSSUP Working Papers, 2017).
L’imminenza delle elezioni europee sta, inoltre, contribuendo ad inasprire i toni del dibattito lasciando presagire una possibile nuova proliferazione di quei regimi ibridi che, secondo la brillante intuizione di Levitsky e Way, possono essere definiti di “autoritarismo competitivo”.  Il caso Fidesz integra bene la fattispecie, dato che in qualità di partito al governo ha posto in essere una serie di condotte e promosso riforme legislative e costituzionali che intaccano valori insopprimibili dell’Unione (core values).
Una valutazione politica dell’impatto di tali condotte sul rispetto dello stato di diritto è stata compiuta dall’assemblea del Partito Popolare Europeo che, con decisione non unanime, ha da ultimo votato la sospensione del movimento di Orbán, ai sensi dell’art. 9, comma 2 dello statuto interno, a causa delle sue tendenze antidemocratiche e della recente campagna di antagonismo contro le istituzioni di Bruxelles e contro lo stesso Jean Claude Juncker, presidente del PPE. Tale decisione, presentata come frutto di una “autosospensione”, comporterà una serie di conseguenze sulla posizione degli eurodeputati ungheresi nel PPE: con effetto immediato, infatti, nessuno di loro potrà più partecipare alle riunioni del partito, mantenervi alcun incarico né votare una qualsivoglia deliberazione.
La soluzione compromissoria, conseguente alla bocciatura della proposta radicale dell’espulsione, deriva dalla necessità del supporto di Fidesz affinché lo Spitzenkandidat Manfred Weber possa seriamente puntare alla presidenza della Commissione. Mantenere Fidesz nella famiglia dei popolari europei consentirebbe, inoltre, di circoscrivere ulteriori manovre antidemocratiche di Orbán, una circostanza che tuttavia sino ad oggi non ha trovato riscontri fattuali. È pur vero che una conventio ad excludendum contro gli ungheresi potrebbe, all’opposto, provocare un sospingimento del partito verso un conservatorismo ancora più netto, inducendolo ad allearsi con analoghi movimenti europei in ascesa per la creazione di un fronte unico sovranista. Del resto, lo stesso Orbán non nasconde le sue affinità con il movimento polacco Giustizia e Libertà (PiS).
La poco energica decisione che ha portato al congelamento dei rapporto federativo con Fidesz induce a pensare che sul PPE si rifranga solo debolmente l’importante richiamo contenuto nel reg. n. 1141 del 2014 e ripreso dal successivo reg. n. 673 del 2018, sui partiti politici europei. Nel secondo considerando, infatti, fra gli scopi della riforma figura sempre quello di «incoraggiare e assistere i partiti politici europei […] nel loro sforzo di creare un legame forte tra la società civile europea e le istituzioni dell’Unione e in particolare il Parlamento europeo». La sospensione di Fidesz, se da un lato non soddisfa pienamente i fautori di una linea di rigore tesa all’estromissione di un partito membro la cui condotta non sia più rispettosa dei valori fondamentali, potrebbe quantomeno consentire di eludere l’attivazione delle competenze di accertamento da parte dell’Autorità per i partiti politici europei di cui al regolamento del 2014. Questa, infatti, verificando il rispetto delle condizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. c del medesimo, può legittimamente revocare la registrazione di un partito a livello europeo qualora non rispetti, nel suo programma e nelle sue attività, i valori fondativi dell’UE. Consequenziale sarebbe anche la decadenza a beneficiare del finanziamento a carico del bilancio dell’Unione europea o l’eventuale comminazione di sanzioni pecuniarie. L’art. 10 del succitato regolamento, che regola minuziosamente la procedura che l’Autorità deve seguire in questa ipotesi, prevede due preclusioni: da un lato, la verifica non può avvenire entro due mesi dalla celebrazione di nuove elezioni europee e, dall’altro, la revoca della registrazione può essere disposta «solo in caso di violazione manifesta e grave». La sospensione di Fidesz potrebbe dunque metaforicamente rappresentare una restitutio in integrum operata spontaneamente dal PPE per evitare qualsiasi misura sanzionatoria sul proprio conto.
Nonostante le pressioni degli altri partiti (si pensi agli attacchi provenienti dall’Alde o dall’SPD tedesco, verosimilmente più strumentali all’indebolimento del PPE), i popolari europei, scegliendo di collocare Fidesz nell’inedito limbo della sospensione, per ragioni numeriche e di tattica politica, di fatto hanno mostrato di non avere il coraggio per condurre funditus una palingenesi che possa contribuire davvero ad un riavvicinamento delle istituzioni europee alla società civile. La decisione definitiva sulle sorti del partito di Orbán è rinviata. Dopo le elezioni europee si costituirà un comitato di tre probiviri che valuteranno con rapporto scritto il rispetto delle condizioni imposte di “democraticità”.
Fidesz non è nuovo a simili caveat: un precedente di rilievo risale alla “risoluzione d’emergenza” adottata dal PPE al congresso di Helsinki del novembre 2018. Un documento sofferto, in cui si inscriveva il quintessenziale timore dei partiti europei a subire gli effetti delegittimanti del disincanto dei cittadini nei vari Stati membri, provocato dalla persistente incapacità delle istituzioni europee a trovare soluzioni condivise al problema del deficit democratico e dalla sempre maggiore presa dell’euroscetticismo. Di tale ultimo contagioso sentimento si fa, appunto, portavoce anche il partito di Viktor Orbán, pur essendo affiliato al PPE. La sua temeraria strategia politica mira, infatti, a sfidare le basi su cui poggia l’architettura europea e quella stessa dimensione di “pace e giustizia” data da molti per scontata. L’Europa, si proclamava nella risoluzione del PPE, è fondata sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, del pluralismo, tutti egualmente messi a rischio – in una maniera “che non ha precedenti” – dai populismi e dagli estremismi nazionalisti.
La risoluzione di Helsinki suona quasi come una presa di coscienza del PPE, visto che contiene la vibrante riaffermazione di principi, come quello della libertà accademica (“a cornerstone of democracy”), conculcati dalle pesanti restrizioni disposte “in alcuni Stati membri”. Non si compie un diretto riferimento all’Ungheria, ma è sembrato evidente che la malcelata allusione faceva da contraltare alle doglianze manifestate contro Budapest in un altro importante documento, il rapporto Sargentini. Approvato da una larghissima maggioranza nel Parlamento europeo (con una rilevante spaccatura, tuttavia, all’interno dello stesso PPE), l’addebito mosso dall’on. Sargentini e giudicato da Orbán come frutto di un “abuso di potere” ha messo in luce aspetti controversi e serie violazioni allo stato di diritto presenti nel sistema costituzionale e nello spazio giuridico ungherese. Da ciò conseguirebbe un’automatica violazione dei valori iscritti nel generico ma irretrattabile e “supercostituzionale” articolo 2 del TUE. Le apprensioni dei relatori vanno dall’integrità del sistema giudiziario e della Corte costituzionale al sistema elettorale, dalla libertà di espressione, di religione, di insegnamento accademico e di associazione (si pensi alla controversia sulla Central European University legata a Soros), sino al problema dell’immigrazione, del diritto di asilo e delle discriminazioni a carico delle minoranze rom ed ebree.
L’approvazione storica di questo documento dal Parlamento europeo ha attivato la procedura di cui all’art 7 TUE. Pensata per casi eclatanti, quella che nella vulgata comune è stata identificata come “opzione nucleare” oggi sembra non possedere più una natura eminentemente “eventuale”. Lo è però la sua conclusione, poiché gli ostacoli procedurali da superare non sono di second’ordine.
Il Trattato di Nizza, preconizzando l’indebolimento della democrazia costituzionale in alcuni Stati, aveva provato a rafforzare tale meccanismo di tutela, anticipando la soglia d’inizio dall’ipotesi di “seria violazione” al semplice “rischio di violazione”. Eppure le misure preventive di cui all’art. 7.1 TUE, una volta innescate, difficilmente potranno avere seguito per varie ragioni. In primo luogo,  investito dalla questione, il Consiglio non ha un termine per decidere. Tutto dipende dalla volontà della presidenza di turno di mettere in discussione la votazione. In secondo luogo, dopo il contradditorio con lo Stato “imputato”, condizione necessaria è che si raggiunga in seno al Consiglio una maggioranza di quattro quinti, soglia diabolica che, peraltro, non conduce all’adozione di sanzioni ma soltanto di ulteriori raccomandazioni. L’Ungheria potrebbe contare sull’appoggio del gruppo di Visegrad (si consideri che la Polonia di Jaroslaw Kaczynski è anch’essa sotto le lenti del meccanismo preventivo) e di altri paesi “a rischio”.
In terzo luogo, l’accertamento di cui all’art. 7.1 non conduce a nulla se non si attiva anche il meccanismo sanzionatorio di cui all’art. 7.2 che prescrive un nuovo contraddittorio, nel caso sia constatata una “seria e persistente violazione”. Solo allora seguirà un voto – stavolta –  unanime del Consiglio europeo, condizione per passare alla fase scandita dal comma 3, che abilita il Consiglio, a maggioranza qualificata, a comminare la regina delle sanzioni: la sospensione da tutti i diritti di Stato membro (sul funzionamento dell’art. 7 può essere utile la seguente grafica).
La difficile realizzabilità pratica di questa procedura ha, peraltro, condotto alla formulazione di una proposta della Commissione europea finalizzata a dotarsi di un arsenale sanzionatorio più efficace e spedito. Nel dibattito sul bilancio settennale dell’Unione, è stata avanzata l’idea di condizionare l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto, una decisione a cui i paesi di Visegrad si oppongono strenuamente. Polonia ed Ungheria, ad esempio, sono grandi beneficiari di trasferimenti europei, soprattutto nell’ambito della Politica Agricola Comune e della politica di coesione e sono entrambi “in osservazione speciale” a causa del voto di cui all’art. 7.1 TUE.