Sulla trasformazione del rapporto di coppia a seguito di rettificazione di sesso dieci anni dopo: la parola (ancora) alla Corte costituzionale

A dieci anni dalla sentenza n. 170 del 2014 la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi su una questione per molti profili analoga a quella allora sollevata, accogliendone le prospettazioni di illegittimità costituzionale con la sentenza n. 66 del 2024.
In quella occasione la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), laddove non prevedevano che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi (determinante lo scioglimento automatico del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio) consentisse, nel caso in cui entrambi lo richiedessero, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con un’altra forma di convivenza registrata, che tutelasse in modo adeguato i diritti e gli obblighi della stessa coppia, con le modalità da definirsi da parte del legislatore.
Quest’ultimo, recependo tali indicazioni e quelle ancora più risalenti dettate dalla sentenza n. 138 del 2010, è intervenuto con la legge n. 76 del 2016 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze): da un lato si è estesa (quasi) tutta la disciplina codicistica del matrimonio eterosessuale al nuovo istituto delle unioni fra persone dello stesso sesso (oltre a disciplinarsi per la prima volta il regime delle convivenze sia eterosessuali sia omosessuali); dall’altro lato in modo particolarmente zelante si è avuto cura di inserire il comma 27, che prevede che laddove intervenga una rettificazione anagrafica di sesso, ove entrambi i coniugi lo desiderino, al matrimonio consegue l’automatica instaurazione di una unione civile fra le parti (ormai divenute, appunto, dello stesso sesso), con ciò, quindi, eliminandosi il carattere automatico dello scioglimento del vincolo matrimoniale e garantendo il mantenimento di un vincolo senza soluzione di continuità.
Nella stessa legge n. 76 al comma 26 (analogamente a quanto prevedeva l’art. 4 della legge n. 164 del 1982 rispetto al matrimonio prima della citata sentenza n. 170 del 2014) si stabiliva (nell’impianto originario della disciplina, prima della sentenza n. 66 del 2024) che la “sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”. Proprio rispetto a tale previsione vengono sollevate diverse questioni di legittimità costituzionale (in relazione agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost. rispetto agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), intravvedendosi un vuoto di tutela per la coppia omosessuale, cui pure la legge n. 76 ha offerto un preciso inquadramento giuridico (ossia l’unione civile). Tale violazione viene precisamente individuata nell’arco temporale che intercorre fra il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso e la conseguente celebrazione del matrimonio, che resta ovviamente pur sempre possibile, proprio in ragione della trasformazione da coppia omosessuale a coppia eterosessuale. Vengono pertanto censurate le disposizioni (ossia l’art. 1, commi 26 e 27, della legge n. 76; l’art. 31, comma 4-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2011; l’art. 70-octies, comma 5, del d.P.R. n. 396 del 2000), che sostanzialmente imponevano alla coppia di veder reciso il proprio legame, per il tempo materialmente necessario per poterla (ri)unire in matrimonio.
In linea di solo apparente perfetta continuità con i propri precedenti (sentenze n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014) la Corte afferma che l’istituto del matrimonio (che trova espresso fondamento nell’art. 29 Cost.) si differenzia dall’unione civile, che pure trova il proprio riconoscimento in Costituzione (art. 2 Cost.), non imponendosi affatto al legislatore di garantire alle coppie formate da persone dello stesso sesso l’accesso al primo, ma potendosi diversamente regolare la dinamica di diritti e doveri reciproci entro una differente cornice giuridica.
In realtà, leggendo le motivazioni che sostengono la conclusione intorno alla non fondatezza della specifica censura che si appuntava sull’asserita irragionevole differenziazione nel trattamento riservato alle due tipologie di coppie, pur entrambe attraversate da una esperienza analoga (ossia la rettificazione di sesso di un componente), sembra che la Corte offra argomentazioni qualitativamente più vigorose nel rimarcare le differenze fra i due istituti.
Non solo essa si limita a ribadire che matrimonio e unione civile hanno una “differente copertura costituzionale” e che costituiscono “fenomeni distinti, caratterizzati da differenti panorami normativi”, ma tiene a specificare ulteriormente che il “rapporto coniugale si configura come un vincolo diverso da quello che ha fonte nell’unione civile, e non può essere ad esso assimilato perché se ne possa dedurre l’impellenza costituzionale di una parità di trattamento”.
La previsione dell’automatico scioglimento dell’unione civile a seguito di rettificazione di sesso, senza possibilità di immediata trasformazione in matrimonio, viene invece dichiarata incostituzionale in relazione all’art. 2 Cost. L’accoglimento in rapporto a questo parametro risulta senz’altro coerente con quanto stabilito nella sentenza n. 138 del 2010, con cui pure si era dichiarata inammissibile la questione tesa all’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali. In quella occasione in modo molto chiaro la Corte aveva dato indubbio rilievo al diritto di queste ultime di vivere liberamente la propria condizione di coppia, al contempo demandando al legislatore il compito di disciplinarne il relativo rapporto giuridico, ma riservandosi comunque “la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni”, potendo “accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
Ecco che, in tale occasione, la Corte rileva precisamente un “vuoto di tutela, a causa del venir meno del complessivo regime di diritti e doveri”, determinato dal tempo necessario per la celebrazione del matrimonio: proprio in ciò risiede l’irrimediabile “frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità”, comportando un “sacrificio integrale del pregresso vissuto”.
Queste conclusioni vengono ulteriormente arricchite attraverso una precisa contestualizzazione che tiene conto del “diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di sessualità costituisce certa espressione”: l’esigenza di garantire, in fondo, il “percorso di affermazione della propria identità di genere” conduce al riconoscimento di una tutela continua della coppia, senza che si possa porre l’individuo, “in modo drammatico, nella condizione di dover scegliere tra la realizzazione della propria personalità, di cui la perseguita scelta di genere è chiara espressione ed alla quale si accompagna l’automatismo caducatorio del vincolo giuridico già goduto, e la conservazione delle garanzie giuridiche che al pregresso legame si accompagnano”.
Il perno centrale delle motivazioni che sostengono la sentenza n. 66 del 2024, quindi, paiono certamente partire dalla più ampia considerazione del rilievo della coppia omosessuale (che pure diventa eterosessuale), ma saldamente innestarsi sulla posizione del singolo individuo, del cui percorso di rettificazione si tratta. La soluzione accolta dalla Corte, infatti, in modo esplicito viene qualificata come “rimedio [che] deve garantire la tutela della personalità del singolo lungo il tempo, non altrimenti governabile dalle parti, strettamente necessario alla celebrazione” del matrimonio.
Nonostante, come si è già sottolineato, si sia riservata la facoltà di intervenire per garantire tutela a specifiche situazioni, pur senza affatto omologare i due distinti istituti dell’unione civile e del matrimonio (così come ebbe a fare in occasione della ben nota sentenza n. 404 del 1988 in rapporto a quest’ultimo e alla convivenza more uxorio), la Corte, in modo forse non del tutto convincente, afferma che, in ogni caso, proprio in ragione delle citate differenze il rimedio “non può essere quello di omologare le due situazioni”, ma deve essere “diversamente declinato, in modo che siano preservate dette differenze”.
In particolare, occorre secondo la Corte tenere ben separate le soluzioni approntate per le due fattispecie: da un lato si permette alla coppia coniugata di manifestare la volontà di rimanere legalmente unita in una unione civile a fronte della intervenuta rettificazione di sesso con ciò determinandosene l’automatica instaurazione; dall’altro lato, invece, “lo strumento di tutela deve evitare ai componenti dell’unione civile per il tempo necessario alla celebrazione del matrimonio quella soluzione di continuità nel rapporto”, senza però poter ricorrere alla automatica trasformazione del rapporto come accade nel primo caso.
E, infatti, la Corte – tenendo ferma la ontologica differenza dei due istituti che, in questa occasione, impone di individuare per ciò solo strade differenti per porre fine al vulnus analogo che in ogni caso viene riscontrato – individua autonomamente (senza cioè rimetterne la decisione al legislatore, così come aveva fatto con la sentenza n. 138 del 2010 a proposito della possibile regolamentazione concreta dei rapporti giuridici per la coppia omosessuale) lo strumento della “sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo per il tempo necessario”, introducendo quindi l’istituto della proroga del regime di assetto previsto per l’unione civile.
A ciò si aggiunge una ulteriore operazione che riguarda la quantificazione della durata di simile sospensione (o meglio di sostanziale proroga degli effetti dell’unione omosessuale), che si determina attraverso il riferimento già presente “nel sistema e, segnatamente, nella disciplina dell’istituto matrimoniale”, ossia il termine che il codice civile stabilisce per la celebrazione del matrimonio a partire dalle pubblicazioni. Nel caso di specie, specifica sempre la Corte, il termine di sospensione dovrà evidentemente decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso (i cui effetti appunto restano sospesi).
La Corte, quindi, forse allo scopo di rafforzare qualitativamente e ulteriormente la differenza fra i due istituti (che peraltro era già chiaramente stata disegnata come si è visto nei propri precedenti), non ritiene di poter estendere la disciplina dettata per la trasformazione del matrimonio in unione civile per dare immediata tutela a quella specifica situazione, ma di dover individuare un diverso meccanismo, “diversamente declinato”, che però, sorprendentemente, pur sempre alla disciplina del primo fa riferimento. La Corte, infatti, richiama il termine decorrente dalle pubblicazioni, che, però, caratterizzano solo il matrimonio, come essa stessa ha cura di specificare nell’elencare puntualmente le differenze fra i due istituti.
Alcune ultime considerazioni possono essere svolte e alcuni ulteriori interrogativi sembrano (im)porsi sempre con riguardo all’arco temporale in cui si determina la citata sospensione degli effetti della sentenza di rettificazione, ossia dello scioglimento dell’unione, con conseguente proroga del relativo regime.
Se nella prospettiva della Corte la sospensione garantisce la posizione dei componenti dell’unione civile, poiché si “lascia alle parti la facoltà di procedere alla celebrazione del matrimonio, nel contempo conservando agli uniti civilmente la tutela propria del rapporto già goduto e riconosciuto nell’ordinamento nelle more della celebrazione del matrimonio”, ci si può chiedere – nel caso in cui a quest’ultimo, invece, non si proceda – come si intenderanno regolati i rapporti che si sono comunque determinati in quel periodo: la sospensione si interromperà, con conseguente effettivo scioglimento dell’unione civile a partire dal superamento del termine previsto per le pubblicazioni o con effetto retroattivo relativo alla sentenza di rettificazione?
Di conseguenza, se nel medesimo arco temporale ci troviamo di fronte a tutti gli effetti, come si è già sostenuto, a una forma di sostanziale proroga dell’unione civile, che discende dalla sospensione degli effetti di automatico scioglimento derivante dalla rettificazione di sesso, si configura forse nel nostro ordinamento una forma di unione civile (ormai però divenuta) eterosessuale, quando invece la legge n. 76 rigorosamente perimetra il relativo campo applicativo alle sole coppie formate da persone dello stesso sesso?
Il nostro ordinamento, in definitiva, a seguito della sentenza n. 66 del 2024 ammette un’unione civile certamente non più omosessuale (a seguito di rettificazione riconosciuta con una sentenza passata in giudicato i cui effetti vengono sospesi), ma non riconosce, all’opposto, un matrimonio non più eterosessuale (per la medesima ragione, ossia l’intervenuta rettificazione di sesso di uno dei coniugi), imponendosi, laddove ovviamente i soggetti interessati lo vogliano, l’automatica trasformazione in un’unione civile, di cui ragiona il comma 27 della legge n. 76?
Questi interrogativi pongono in luce dapprima un profilo di non perfetta coerenza laddove pur tenendosi ferme le sostanziali differenze fra unione civile e matrimonio non si estende il regime di tutela previsto per il secondo pur avendo riscontrato una violazione della libertà di autodeterminazione del singolo (così come invece la Corte si era ripromessa di fare fin dalla sentenza n. 138 del 2010 e così come aveva già fatto nella citata sentenza n. 404 del 1988) e in secondo luogo i concreti approdi applicativi che consistono nella sostanziale introduzione di un istituto del tutto innovativo (ossia l’unione civile eterosessuale, pur per un arco temporale potenzialmente contenuto).
Essi, inoltre, inducono a ragionare in modo più ampio rispetto alle profonde connessioni determinate dalle trasformazioni della società e della tecnica sul riconoscimento di nuove forme di famiglia e di ricerca della genitorialità non solo da parte del legislatore, ma anche della Corte costituzionale.
Se con la sentenza in commento la Corte ha stabilito che la coppia non più omosessuale, ma eterosessuale continui a trovare il proprio assetto nella regolazione dei rapporti reciproci nell’unione civile (fino al momento della celebrazione del matrimonio), con ciò quindi introducendo una declinazione innovativa della stessa, con la sentenza n. 161 del 2023, occupandosi dell’irrevocabilità del consenso maschile alla prosecuzione della procedura di fecondazione assistita a seguito di formazione dell’embrione, ha interpretato i requisiti soggettivi previsti dalla legge n. 40 del 2004 per l’accesso alle tecniche assistite in modo cristallizzato alla fase iniziale delle relative procedure. Tale interpretazione, infatti, ha condotto ad ammettere che anche la donna single possa (avere una possibilità di) diventare madre, pur venendo a mancare il requisito essenziale per l’affermazione del modello tradizionale di famiglia, ossia la presenza di una coppia eterosessuale sposata o convivente, e dunque incidendo profondamente sull’impianto portante della legge n. 40.