Un tentativo di dialogo che resta monologo: l’incostituzionalità rinviata a partire dal caso delle pene detentive per la diffamazione

Con la sentenza n. 150/2021 la Corte costituzionale ha stabilito che la pena detentiva non è legittima se prevista in via generalizzata per le condotte di diffamazione a mezzo stampa consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, e ha al contempo indicato le condizioni in cui essa può essere irrogata ai giornalisti. La pronuncia si segnala non solo per il suo contenuto, ma anche per la tecnica decisoria adottata: la sentenza, infatti, fa seguito alla precedente ordinanza n. 132/2020, con cui la Corte aveva rilevato l’inadeguatezza del bilanciamento fra libertà di informare e tutela della reputazione individuale cristallizzato nella normativa italiana e aveva pertanto rinviato di un anno la decisione delle questioni sollevate all’espresso scopo – anche in questa occasione non raggiunto – di “consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali” (punto 8 del Considerato in diritto).
Questa peculiare tecnica è stata inaugurata – e non senza destare un ampio dibattito – con l’ordinanza n. 207/2018 sull’incriminazione dell’aiuto al suicidio; proprio la decisione che si commenta conferma che non si era trattato di un episodio isolato, ma dell’introduzione di un nuovo strumento che si sta sedimentando fra quelli a disposizione della Corte, tanto da essere già stato nuovamente replicato con la recente ordinanza n. 97/2021 sull’ergastolo ostativo. E può essere allora interessante soffermarsi proprio su questo meccanismo che comporta, all’interno di un unico giudizio in via incidentale, l’emanazione di due provvedimenti: prima un’ordinanza con cui, constatata la sussistenza di un problema di compatibilità costituzionale delle disposizioni censurate, la Corte invita il Parlamento ad adottare una nuova disciplina che superi tali criticità, andando anche al di là dell’oggetto del giudizio di costituzionalità; poi una sentenza che, in assenza di un intervento del legislatore, dichiara l’illegittimità che era già stata prefigurata nella precedente ordinanza.
Nel caso dell’aiuto al suicidio l’ordinanza di rinvio della Corte aveva in effetti già accertato in termini netti che, in determinate ipotesi, il divieto assoluto posto dalla legge costituiva un vulnus; pur sottolineando con insistenza che la delicatezza della materia richiedeva che fosse il legislatore a farsi carico di un nuovo bilanciamento dei diritti in gioco, erano comunque chiare le coordinate entro cui il Parlamento era chiamato muoversi. Con queste premesse non può stupire che, decorso infruttuosamente il termine del rinvio, la Corte abbia infine dichiarato l’incostituzionalità della norma incriminatrice mediante un dispositivo complesso e articolato: una decisione “ad alta manipolatività”, era del resto l’unica soluzione percorribile per evitare una indiscriminata depenalizzazione di ogni condotta di agevolazione del suicidio. Nel caso delle pene detentive per i giornalisti, invece, la vicenda ha caratteri in parte diversi.
Le questioni sottoposte alla Corte riguardavano l’art. 595, comma 3, c.p., che punisce la diffamazione a mezzo stampa con la pena detentiva da sei mesi a tre anni in via alternativa a quella pecuniaria, e l’art. 13 della legge n. 47/1948 (c.d. “legge Stampa”), che configura l’aggravante speciale della diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, punita con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa. I rimettenti muovevano soprattutto dalla rigorosa giurisprudenza convenzionale, secondo cui la previsione di una pena detentiva per i reati commessi a mezzo della stampa è ammissibile, ai sensi dell’art. 10 CEDU, soltanto “in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza” (così, ad esempio, Sallusti c. Italia, 7 marzo 2019, par. 59; l’affermazione è ricorrente nella giurisprudenza di Strasburgo sin da Cumpănă e Mazăre c. Romania, 17 dicembre 2004).
La Corte costituzionale ha inizialmente deciso di rinviare il giudizio perché ha constatato che nel suo insieme, e anche al di là dei profili sollevati dai giudici a quo, la normativa impugnata riflette un ormai superato bilanciamento fra la libertà di informare e la tutela della reputazione dei singoli, anche in ragione dell’evoluzione tecnologica che espone oggi le vittime di diffamazione a rischi sempre maggiori. In altri termini, la Corte ha rilevato la complessiva inadeguatezza del vigente quadro normativo, di cui ha reputato “necessaria e urgente una complessiva rimeditazione” che assicuri – e questo è forse un aspetto di non totale convergenza con Strasburgo – una effettiva protezione anche ai beni giuridici contrapposti alla libertà di informare, sia pure nell’ottica di circoscrivere l’eventuale previsione di sanzioni detentive alle sole condotte diffamatorie più gravi. Constatando che diversi progetti di legge in materia erano in discussione in Parlamento e che un suo intervento avrebbe invece scontato la limitatezza del petitum, la Corte ha così preferito invitare il legislatore ad adottare entro un anno una nuova disciplina che tenesse conto di tali principi; rispetto al precedente dell’aiuto al suicidio, tuttavia, la Corte si è questa volta limitata a indicare non una soluzione dai contorni netti, ma un obiettivo delineato nei suoi principi generali.
La successiva decisione di incostituzionalità – in conseguenza dell’incapacità del Parlamento di adottare una riforma – ha riservato qualche sorpresa; questa volta, infatti, la Corte non aveva prefigurato quale sarebbe stato l’esito del suo giudizio, pur essendo chiaro che sarebbe in qualche modo intervenuta per circoscrivere l’ambito di applicazione delle pene detentive. La sentenza n. 150/2021 non conduce a un intervento manipolativo, ma si risolve nella mera illegittimità dell’art. 13 della Legge Stampa, poiché la disposizione prevedeva in via indefettibile la sanzione detentiva; e questo anche se nella prassi la norma non trovava quasi mai applicazione (trattandosi di un’aggravante che, nella maggior parte dei casi, soccombeva nel bilanciamento delle circostanze), perché anche la sua semplice previsione in astratto si poneva in contrasto con il vincolo convenzionale. È invece fatto salvo l’art. 595, terzo comma, c.p., perché la previsione della pena detentiva in via alternativa a quella pecuniaria non risulta illegittima se interpretata nel senso di sanzionare solo i casi di eccezionale gravità, che la Corte stessa delinea con una certa precisione.
Al di là del merito della questione, il giudizio sulle pene detentive per i giornalisti concorre a delineare i tratti della nuova tecnica decisoria di incostituzionalità per così dire “preannunciata”, o “accertata con rinvio”; la stessa Corte aveva già spiegato le ragioni di questo inedito meccanismo nell’ordinanza n. 207/2018, che trovano una conferma anche nella vicenda in esame.
Come noto, nei casi in cui riscontra un vizio normativo la cui soluzione impone un bilanciamento discrezionale riservato – almeno in linea di principio – al legislatore, è consueto che la Corte dichiari la questione inammissibile e che, al contempo, pronunci un monito rivolto al Parlamento; se il monito rimane inascoltato, come spesso accade, la Corte si ritiene però abilitata a sanare il vizio qualora una questione analoga sia nuovamente sollevata. Si tratta di una delle tecniche di cui la Corte si è servita negli anni recenti per estendere il raggio del suo giudizio a questioni che, un tempo, avrebbe considerato precluse, allo scopo dichiarato di evitare che l’ordinamento presenti “zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale” (così Corte cost., sent. n. 40/2019); essa infatti si è saldata, in ambito penale, al progressivo abbandono dello schema delle c.d. “rime obbligate”, per giungere a un più disinvolto scrutinio per così dire “a versi sciolti”, cioè non vincolato all’individuazione di una soluzione costituzionalmente obbligata. Come è evidente, questo approccio è figlio di una ormai radicata difficoltà relazionale fra Corte costituzionale e Parlamento e comporta, di fatto, una sostanziale supplenza della prima nell’esercitare scelte che spetterebbero al secondo.
In questo contesto, la tecnica dell’incostituzionalità accertata con rinvio costituisce un chiaro tentativo di instaurare un dialogo proficuo fra il custode della Costituzione e il legislatore, restituendo a ciascuno una funzione più consona al proprio ruolo. La decisione di accertare in via preventiva un vizio di legittimità che riguarda un determinato assetto normativo può così diventare una tecnica utile per tutti quei casi in cui, per mancanza di soluzioni obbligate, per esigenze sistemiche o per evitare di compromettere ulteriori beni costituzionali, una decisione della Corte comporta scelte di tipo discrezionale che la avvicinano a un organo di decisione politica: se poi il legislatore, per disinteresse o incapacità, non risponde al monito, allora la successiva pronuncia di incostituzionalità si legittima proprio a fronte di un tale abbandono di campo. D’altro canto, l’inattività del Parlamento potrebbe anche derivare dalla circostanza di un monito della Corte fin troppo dettagliato: un invito a legiferare non solo a termine ma anche “sotto dettatura” potrebbe essere lasciato cadere nel vuoto proprio in quanto percepito come poco rispettoso, nella sostanza, di quell’autonomia discrezionale che la Corte costituzionale dichiara invece di voler valorizzare. Se questa era una critica che forse poteva essere mossa nel caso dell’aiuto al suicidio, nella vicenda delle pene detentive per i giornalisti la Corte si è mossa con molta più cautela: l’ordinanza di rinvio, infatti, non suggeriva alcuna soluzione di dettaglio, ma anzi lasciava aperta la possibilità di prevedere o meno pene detentive, e d’altro canto giustificava la scelta di una decisione posticipata proprio alla luce di un dibattito parlamentare in corso. In altri termini, in questa vicenda il fallimento del dialogo non sembra addebitabile a una troppo zelante richiesta della Corte al Parlamento.
La tecnica decisionale in esame in qualche modo si avvicina a quella – molto diffusa in numerosi ordinamenti stranieri – di modulare pro futuro gli effetti della dichiarazione di illegittimità, di fatto concedendo al legislatore un termine per poter intervenire prima che la norma illegittima cessi di avere efficacia: una simile strada, che non è mai stata effettivamente percorsa dalla Corte italiana, a livello comparato consente ai tribunali costituzionali di limitarsi a dispositivi di tipo caducatorio, che dunque non comportano alcun sconfinamento di funzioni. La somiglianza con il differimento degli effetti nel futuro è però, a ben vedere, nello scopo e non nel mezzo. Nella tecnica adottata dalla Corte italiana, infatti, non c’è alcun effettivo dominio di effetti temporali della decisione di illegittimità, e questo molto semplicemente perché è la decisione stessa a essere posticipata: essa è solo prefigurata nell’ordinanza di rinvio, e la vicenda delle pene detentive per i giornalisti dimostra che il contenuto della decisione può anche essere anticipato in termini molto generici (e l’esito può essere anche inaspettato).
Il punto di debolezza di questo modulo decisionale sembra però il seguente: il Parlamento inerme non è davvero gravato della responsabilità di determinare la radicale caducazione di una disciplina, con gli eventuali vuoti di tutela che ne potrebbero conseguire, perché con il rinvio la Corte si assicura comunque l’ultima parola, potendo optare – se il caso lo richiede – anche per dispositivi di tipo manipolativo. Da questo punto di vista, pertanto, anche la nuova tecnica decisionale sembra confermare la ormai radicata tendenza della Corte costituzionale italiana a concepire le proprie decisioni di accoglimento in termini di piena autosufficienza, nella poco felice consapevolezza di trovare nel Parlamento un interlocutore troppe volte sordo ai suoi richiami.