Un vulnus (apparentemente) senza rimedi. La Corte costituzionale sollecita l’intervento del legislatore sulla disciplina delle tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.

1. La Corte costituzionale, con sent. n. 183 del 2022, si è pronunciata sulla disciplina delle tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese. La questione di legittimità costituzionale è stata dichiara inammissibile, ma i giudici hanno rivolto al legislatore un chiaro invito a intervenire sull’assetto della disciplina.
La questione, rimessa dal Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro, riguarda l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015. La norma, nell’ambito della riforma del sistema di tutele disposta dal decreto, parte a sua volta del c.d. Jobs Act, disciplina le tutele contro il licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 nelle piccole imprese, identificate secondo i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei Lavoratori. A questi lavoratori, qualora il licenziamento illegittimo non sia nullo, discriminatorio o intimato in forma orale ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015, si applica la sola tutela indennitaria, in misura dimezzata rispetto a quanto previsto per le imprese non piccole e comunque non superiore alle sei mensilità di retribuzione.
Nel caso trattato dal giudice rimettente, al licenziamento illegittimo del lavoratore per via dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo sarebbe potuta conseguire quindi una tutela indennitaria ricompresa tra le tre e le sei mensilità. Ciò in quanto, da un lato, si deve tener conto del dimezzamento della tutela minima di sei mensilità prevista dall’art. 3, comma 1 del d.lgs. 23 del 2015 (a cui l’art. 9, comma 1 fa riferimento) e, dall’altro, si deve considerare il limite massimo previsto dallo stesso art. 9.
Per il giudice a quo questo “stretto varco” entro cui poter quantificare la tutela indennitaria sarebbe inidoneo “a soddisfare il test di adeguatezza” (§1.2 del Ritenuto in fatto) secondo quanto previsto dei principi costituzionali di cui agli artt. 3, comma 1, 4, 35 comma 1 e 117, comma 1, in relazione – per quanto riguarda l’ultima norma richiamata – all’art. 24 della Carta sociale europea.
Con particolare riferimento a quest’ultima norma, che prevede che tutti i lavoratori illegittimamente licenziati abbiano diritto ad “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”, il giudice a quo si è spinto ad affermare che la previsione di un tetto massimo per la tutela indennitaria renderebbe la stessa inadeguata, poiché svincolerebbe la quantificazione dell’indennità dall’entità del danno subito e non sarebbe dissuasiva (si veda anche il Rapporto del Comitato Europeo dei Diritti Sociali sulla compatibilità della disciplina italiana con la Carta Sociale Europea, qui con breve commento di D’Ascola). In ogni caso, un indennizzo tanto esiguo quale è quello previsto dall’art. 9 (“senza neppure l’alternativa della riassunzione”) non garantirebbe, secondo il giudice rimettente, un adeguato ristoro del pregiudizio subito dal lavoratore. Infine, il divario così ristretto tra la tutela massima e quella minima porterebbe, nei fatti, ad una tutela uniforme per tutti i lavoratori licenziati illegittimamente nelle piccole imprese, aumentando di conseguenza la rilevanza del criterio occupazionale, che però appare sempre meno indicativo delle effettive capacità economiche dell’impresa (si legga, sui contenuti dell’ordinanza di rimessione e per più ampi riferimenti, Poso).

2. La questione oggetto della pronuncia deve essere inquadrata, ai fini di un’analisi più consapevole, nell’ambito della disciplina vigente in materia di sanzioni contro il licenziamento illegittimo e dei recenti giudizi di legittimità costituzionale che l’hanno investita.
Con la sentenza n. 194 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015. Questa norma, come detto, è richiamata dall’art. 9 oggetto della sentenza che si commenta. Di conseguenza, la pronuncia del 2018 ha effetti anche con riferimento al criterio di quantificazione dell’indennità quale sanzione contro il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese.
La norma è stata dichiarata illegittima limitatamente alla parte in cui parametrava il quantum della tutela indennitaria all’anzianità di servizio, secondo un criterio predeterminato (due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio). Analoga pronuncia (sent. n. 150 del 2020) ha riguardato la disciplina della tutela indennitaria a seguito di licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali, contenuta nell’art. 4 dello stesso decreto e recante lo stesso criterio di quantificazione.
Le norme parametro sulla base delle quali la Corte ha deciso la questione del 2018 sono le stesse che il giudice a quo ha richiamato nella rimessione della questione relativa ai licenziamenti nelle piccole imprese. I giudici costituzionali hanno rilevato il contrasto dell’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 con l’art. 3 Cost. – e, di conseguenza, con gli artt. 4 e 35 Cost. – in quanto l’applicazione di un unico criterio omologava ingiustificatamente situazioni diverse e rischiava di rendere l’indennità inadeguata e non dissuasiva. La norma contrastava, inoltre e sempre con riferimento all’adeguatezza e congruità delle tutele, con l’art. 117 Cost., in relazione al già citato art. 24 della Carta sociale europea.
La breve disamina del contenuto della sentenza n. 194 del 2018 permette, da un lato, di comprendere meglio il meccanismo applicativo dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 9 del d.lgs. 23/2015 e, dall’altro, di avere più chiari i principi che, da ultimo, la Corte ha ritenuto applicabili per la valutazione della legittimità costituzionale delle tutele contro il licenziamento illegittimo.

3. La Corte, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale dell’art. 9, richiama dapprima la precedente giurisprudenza costituzionale in materia di tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese. Con riferimento alla disciplina allora applicabile (art. 8, l. n. 604/1966), la Corte ha ritenuto (sentt. n. 2 del 1986, n. 189 del 1975 e n. 152 del 1975) che l’esclusione della tutela reale fosse legittima in virtù della natura fiduciaria del rapporto e dell’esigenza di non gravare le piccole imprese di oneri eccessivi (§4.3). Eppure, come è opportunamente segnalato, il quadro normativo è radicalmente cambiato. Nel caso di specie, infatti, la Corte è chiamata a giudicare non sull’adeguatezza della tutela indennitaria in sé, quanto sulla congruità delle limitazioni quantitative che sono poste dall’art. 9.
I giudici costituzionali rilevano che il ristretto spazio di discrezionalità del giudice nella determinazione dell’indennità ex art. 9 limiti l’adattabilità della tutela alla specificità del caso, ledendone la congruità e la deterrenza. Inoltre, uno scarto così ridotto tra la soglia minima e quella massima avrebbe l’effetto di conferire un rilievo preponderante al criterio del numero degli occupati. Tale criterio starebbe peraltro diventando progressivamente inidoneo ad un adeguato contemperamento degli interessi, dacché è sempre meno attendibile ai fini della valutazione della capacità economica dell’impresa. Ciò renderebbe peraltro “sprovvisto […] di una significativa valenza” il limite massimo di sei mensilità previsto dalla norma (§5.2).
La Corte, pur ravvisando il vulnus identificato dal rimettente, ritiene di non poter rimediarvi attraverso una sentenza di illegittimità costituzionale. La scelta della soluzione più adeguata tra le diverse possibili dovrebbe essere infatti rimessa alla discrezionalità del legislatore che, ad opinione della Corte, dovrebbe rivedere la materia “in termini complessivi”.
Di qui la scelta di dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, accogliendo così l’eccezione formulata da parte pubblica. I giudici costituzionali hanno però ritenuto di porre all’attenzione del legislatore un ulteriore monito, collocato subito prima del dispositivo della sentenza. Per i giudici non sarebbe tollerabile “il protrarsi dell’inerzia legislativa”. Di conseguenza, la Corte, se nuovamente investita della questione, sarebbe indotta “a provvedere direttamente” (§7).

4. La formula che chiude la motivazione è oramai di stile per la Corte, che difatti richiama in relazione ad essa una sentenza di poco precedente (la n. 180 del 2022 su una norma del c.d. codice antimafia, ma si vedano anche la n. 22 del 2022 in materia di misure di sicurezza detentive e la n. 32 del 2021 in materia di procreazione medicalmente assistita).
Eppure, nel caso di specie, la scelta di non dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma oggetto del giudizio appare poco condivisibile.
Prima di svolgere alcune considerazioni rispetto a tale scelta, è opportuno approfondire i motivi che hanno portato la Corte a rilevare un vulnus nella disciplina in vigore.
La Corte ha ritenuto, sotto un primo profilo di analisi, che il ristretto margine di discrezionalità giudiziale nella determinazione dell’indennità risarcitoria non permettesse una parametrazione del quantum del risarcimento con la lesione effettivamente subita dal lavoratore. Ad essere leso – ma ciò non viene espressamente affermato – sarebbe il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., dacché vi sarebbe, a voler utilizzare le stesse parole usate dalla Corte nella sentenza n. 194 del 2018, una “ingiustificata omologazione di situazioni diverse”. In altre parole, la previsione di uno spazio di discrezionalità troppo ristretto è equiparata all’assenza di discrezionalità che consegue all’applicazione di un criterio che commisura l’indennità all’anzianità di servizio, come era quello già dichiarato costituzionalmente illegittimo.
A ben vedere, questo profilo di supposta incostituzionalità non sembra essere decisivo. Difatti, il vulnus dell’irragionevolezza si può senz’altro rilevare con riferimento ad un criterio di determinazione che sia applicato nell’ambito di una fattispecie uniformemente identificata dal legislatore. Nel caso di specie, invece, l’irragionevolezza riguarderebbe la misura della tutela e non il criterio di determinazione della stessa. Di conseguenza, il vulnus legato all’irragionevolezza e quello legato alla congruità andrebbero a sovrapporsi. Rectius, il secondo assorbirebbe il primo, dacché la sola eliminazione del massimale di mensilità previsto dalla norma eliminerebbe del tutto il vizio rilevato dalla Corte.
Più coerente appare invece il ragionamento dei giudici costituzionali rispetto al secondo profilo di analisi. La Corte ha posto in discussione l’adeguatezza del criterio dimensionale quale fattore discretivo nella determinazione dell’indennità, poiché questo non rispecchierebbe (più) “l’effettiva forza economica del datore di lavoro”. Il vulnus in questo caso non emerge internamente alla disciplina dell’art. 9 (e cioè con riferimento al ristretto spazio riservato alla discrezionalità del giudice) ma, invece, da una considerazione relativa al sistema delle tutele nel suo complesso, e cioè quella riguardante la rilevanza del criterio dimensionale.
Resta del tutto in ombra nelle motivazioni della pronuncia, invece, la soluzione che appare più semplice. La Corte ben avrebbe potuto infatti valutare le tutele disposte dalla norma attraverso il criterio della congruità, facendo riferimento al solo dato normativo che le quantifica. L’esiguità della tutela indennitaria massima avrebbe quindi potuto portare ad un giudizio di inadeguatezza da parte della Corte, secondo i parametri già richiamati. Eppure, i giudici costituzionali sembrano non voler entrare nel merito della valutazione di adeguatezza delle tutele disposte dal legislatore, limitandosi a valutarle solo con riferimento al principio di ragionevolezza.
In ogni caso, e in conclusione, sembra non condivisibile anche la scelta di non dichiarare immediatamente l’illegittimità costituzionale della norma. La Corte, ravvisati i profili di illegittimità, avrebbe potuto – in modo coerente con l’iter argomentativo proposto – dichiarare la norma incostituzionale nella parte in cui prevede un limite massimo di sei mensilità di indennità. All’esito di questa operazione, il giudice avrebbe potuto disporre la tutela indennitaria nel più ampio intervallo tra le tre e le diciotto mensilità (la metà del massimale previsto per le imprese non piccole).
E peraltro, a voler seguire il ragionamento della Corte che considera un vulnus la differenziazione delle tutele per le piccole imprese, sarebbe stata coerente anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui dispone il dimezzamento della tutela indennitaria rispetto a quella prevista per le imprese non piccole. Tale intervento non sarebbe invece necessario qualora si ritenga che – almeno nel caso di specie – il vulnus non si ravvisi tanto nell’irragionevolezza del sistema di tutele quanto nell’inadeguatezza del limite massimo che la norma prevede per la tutela indennitaria.